Centri di Servizio per il Volontariato: c'è un futuro?

Questo numero di Non per profitto affronta a nostro avviso una tematica essenziale per lo sviluppo del mondo del volontariato e del TS, quella della storia, funzione e delle prospettive del sistema dei Centri di servizio per il volontariato (Csv). Lo facciamo pubblicando ora solo una parte dei saggi e delle ricerche a cui stiamo lavorando, con lo scopo di suscitare, a partire dai saggi ora pubblicati, un pubblica discussione, che su vari punti mancanti completi il lavoro delineando così analisi e prospettive largamente condivise.

Mancano varie cose ora, penso ad es. ad una storia di Csvnet che sarebbe cosa utile e preziosa, anche se l’intervista a Marco Granelli è utile da questo punto di vista per le considerazioni che contiene.

Manca un ragionamento più ampio e sistematico sul rapporto Csv/CoGe (Comitati di gestione dei fondi speciali per il volontariato), anche se il saggio di Musella/Santoro/Verde si inoltra egregiamente su questa strada.

Manca un’ampia discussione innanzitutto negli stessi Csv, a cui ci sollecita l’intervento di Mantineo, così come qui abbiamo affrontato la situazione e le prospettive dei Csv in Meridione con l’intervento di Squillaci, mentre il nostro ragionamento sarebbe monco se non vediamo cosa è successo, qual è la situazione nelle altre regioni.

Ma perché dedicare il primo numero della nostra rivista ai Centri di servizio per il volontariato?

La crisi, l’Italia e l’Europa

Noi pensiamo che il Volontariato e il Terzo Settore (TS) non possano limitarsi ad essere una sorta di rete di mutuo soccorso per affrontare problemi sociali vecchi e nuovi. Certo è quella una funzione utile e importante, guardando in particolare ai più fragili e ai più deboli, per far fronte ad una crisi che dal 2008 si presenta con dimensioni economiche e sociali sempre più rilevanti.

Si tratta di una crisi che in Italia è stata preceduta nel trentennio che ci sta alle spalle da un lungo e progressivo rallentamento dello sviluppo [1] e da una crisi del sistema politico e istituzionale che non ha riscontri in queste forme negli altri paesi dell’UE.

L’Italia per la sua storia è un vaso di coccio sul carro europeo. Un vaso di coccio con una grande storia e cultura, con punte e realtà di internazionale eccellenza, ma un vaso di coccio quanto a tenuta dello Stato. È però un coccio particolare, dotato di elasticità, si fessura e incrina, ma non si frantuma. Nel periodo in cui in Europa si sono formati gli stati nazionali, tra il XIV e il XIX secolo, noi per primi abbiamo elaborato una cultura nazionale, ma tra gli ultimi ci siamo dati uno Stato unitario. Chi non ha mai elaborato una cultura unitaria, ma aveva realizzato solo un’unità politica e statale, nel corso di questo trentennio si è frantumato (se guardo a Stati di media e piccola dimensione penso anzitutto alla Iugoslavia, alla Cecoslovacchia, in parte anche al Belgio, ma sulle più importanti grandi dimensioni all’Unione Sovietica, che come formazione statale non è sorta con la Rivoluzione d’Ottobre, ma proseguiva lo Stato degli Zar). Noi pur tra le tensioni tra Nord e Sud reggiamo, più grazie alla nostra cultura che alle istituzioni. Anche a livello istituzionale ha contato di più la cultura giuridica, che ha trovato espressione nella Costituzione, che il funzionamento concreto delle istituzioni stesse.

Per le caratteristiche di lungo periodo della formazione statale italiana, quando una malattia colpisce il sistema economico, sociale e politico europeo e internazionale, da noi il malessere, la febbre del sistema, si manifesta con maggiore evidenza che altrove, ma la malattia rimane europea e internazionale. La malattia è la crisi dello “stato sociale” iniziata negli anni ’70. Lo “stato sociale” è stata l’invenzione che ci ha permesso di uscire dalle contraddizioni del ‘900, clamorosamente esplose in due guerre mondiali con una violenza mai vista nella storia dell’umanità. Sino ad allora lo sviluppo economico si era basato in Europa sulla volontà di dominio e di potenza, sia all’interno dell’Europa, come all’esterno con i diversi imperi coloniali. Lo “stato sociale” non solo ha dato una regolazione pubblica al mercato capitalistico, finanziario e dell’economia reale, dominato dai grandi capitali e dalle grandi compagnie private, ma ha messo al centro dello sviluppo il benessere della popolazione, non la volontà di potenza. Non è un caso che questo passaggio avviene a conclusione della seconda guerra mondiale e con maggiore chiarezza avviene in Gran Bretagna [2], che più di ogni altro stato nazionale aveva sviluppato un’economia di dominio e un impero internazionale. E non è neppure un caso che subito dopo si avvia il processo di decolonizzazione nell’impero britannico.

I trent’anni tra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni ’70, che hanno visto il prevalere nei Paesi ad economia di mercato capitalistico dell’intervento dello “stato sociale”, sono stati gli anni di più intenso sviluppo economico di questi paesi. Nel corso degli anni ’70 l’intervento dello “stato sociale” entra in crescente difficoltà insieme al modello di sviluppo della “società dei consumi” ecologicamente per pochi sostenibile. Come era però forse facilmente prevedibile, non prevalgono le spinte a rinnovare l’intervento pubblico, ma sostanzialmente a ridurlo, se non a liquidarlo.

E’ la fase in cui prevalgono le teorie economiche che verranno chiamate “neoliberiste”, ora in crisi ma tuttora dominanti nelle classi dirigenti politiche, più ancora nella UE che negli Usa. Con il prevalere degli indirizzi neoliberisti si entra nel “mondo occidentale” in una fase di crescita dismisura dei capitali finanziari privati, degli squilibri economici tra territori e classi sociali e contemporaneamente di rallentamento dello sviluppo, che più recentemente è sfociata nella crisi finanziaria del 2008 e in quella dei “debiti sovrani” tuttora in corso in quella parte di Europa che già aveva problemi di maggiore fragilità strutturale (Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia, Italia). Aver fatto l’unione monetaria tra Paesi con economie più fragili ed altre più sviluppate, più forti ed efficienti, senza politiche compensatorie ed inoltre con molto scarsi poteri di intervento della BCE, ha generato un indebitamento dei più fragili verso i più forti, che in alcuni casi si è sommato ad un elevato debito pubblico come nel caso di Grecia e Italia, ma che nel caso di Irlanda, Portogallo e Spagna non esisteva. Debito pubblico che, bisogna ricordare, in molti Stati è stato aggravato dal salvataggio delle banche private, fenomeno che ha portato a livello internazionale a livelli mai raggiunti in tempo di pace [3].

Alla crisi dello “stato sociale” si è risposto sul piano economico sostanzialmente cercando di tornare almeno in parte a prima dello “stato sociale”, sia nelle forme di tutela sociale e del lavoro, come nella regolazione e nell’intervento diretto dello Stato in economia, come nella privatizzazione di molti servizi svolti in precedenza dagli enti pubblichi.

E’ una strada che non ha condotto ad una ripresa dello sviluppo, che anzi, come abbiamo visto, ha portato oltre a squilibri crescenti, ad un rallentamento dello sviluppo e alla crisi finanziaria del 2008, che faceva seguito ad altre di questo tipo minore.

Fuoriuscita dalla crisi e ruolo del volontariato e del Terzo settore

Per uscire dalla crisi occorre tornare ad un intervento regolatore e diretto nell’economia da parte delle istituzioni pubbliche, e quindi anche della politica, che regoli la finanza e sostenga una crescita economica sostenibile, salvaguardando e rinnovando in particolare a tutela dei beni comuni materiali e immateriali, in questi anni in genere trascurati, saccheggiati e privatizzati. E’ però evidente che una prospettiva di questo tipo è improponibile stante il credito attuale della politica e dello Stato, non solo c’è una credibilità da riconquistare, ma anche un ruolo concreto e un’efficienza da dimostrare. Questo può avvenire se le questioni di pubblico interesse, se “gli interessi generali”, non sono affare solo degli amministratori pubblici, politici o funzionari pubblici che siano. Questo in realtà è oggi possibile, perché sempre più numerosi sono i cittadini che si interessano della cosa pubblica, certamente molto meno numerosi di un tempo nei partiti, un po’ meno nei sindacati, ma sempre di più nelle organizzazioni di volontariato, che sono ovunque in crescita in Europa.

Pensiamo ad un intervento pubblico non più tecnocratico e dall’alto come fu quello del XX secolo, ma corroborato da una rinnovata partecipazione e responsabilizzazione popolare, che non si può e non si deve esprimere solo ogni cinque anni attraverso il voto e la democrazia delegata, ma anche attraverso il principio di sussidiarietà orizzontale che negli ultimi due decenni è entrato in varie leggi ordinarie, ma anche nella Costituzione. Dall’altra però occorre anche un’economia con responsabilità sociale, che si fa carico degli “interessi generali” e non solo di quelli privati. L’impresa sociale è questo, in particolare in quelle forme cooperativistiche che permettono una più ampia partecipazione e responsabilizzazione di utenti e lavoratori.

Insomma noi pensiamo che Volontariato e TS abbiano in sé non solo la capacità di essere una rete di mutuo soccorso, ma anche d’essere un punto di riferimento per uscire dalla crisi.

Perché ciò possa avvenire bisogna però avere la cultura, la preparazione e le capacità necessarie.

Nell’ambito del TS i Csv sono in questo senso la struttura di servizio, lo strumento più rilevante in grado non di dirigere questo processo, ma di fornire “la borsa dei ferri”, con cui autonomamente il Volontariato e il TS si possono accingere a questo lavoro.

Quale ruolo per i Csv

A questo scopo occorre però che il sistema dei Csv sia in grado di delineare una propria strategia di sviluppo, affrontando alcune questioni irrisolte o aperte. Consideriamo quindi questo numero di Non per profitto come un contributo a far crescere un dibattito che, partendo dal ventennio di storia che abbiamo alle spalle, dalla promulgazione della legge quadro per il volontariato ad oggi, dagli obiettivi e dai risultati conseguiti in questo ventennio, tracci delle possibili linee di lavoro, di consolidamento della presenza e del ruolo dei Csv nel panorama italiano, delineando una prospettiva di sviluppo del loro ruolo.

I Csv sono indubbiamente nell’ambito del TS la rete di strutture di servizio più importante nel sostegno e per la qualificazione della cittadinanza attiva, costituiscono un bacino di competenze prezioso per affermare il ruolo del Volontariato, rafforzando la presenza di quest’ultimo nel TS e nell’economia solidale, svolgendo quindi anche una funzione di promozione di quest’ultima [4].

Lavorare con una simile prospettiva significa però decidere di affrontare le seguenti questioni:

  1. Una seconda generazione di servizi

Appena costituiti i Csv hanno dovuto fronteggiare un ”arretrato” che si era andato accumulando negli anni. La legge 266/91 stessa e il d.lgs 460/97 sulle Onlus in seguito, così come altri provvedimenti legislativi di settore, consentono alle organizzazioni di volontariato di fruire di agevolazioni di carattere fiscale o nel rapporto con l’amministrazione pubblica. Agevolazioni che però richiedono un’esatta formulazione dello statuto e dell’atto costitutivo, l’iscrizione ai registri del volontariato, la tenuta di contabilità e dei libri sociali, ecc.

I Csv all’inizio della loro costituzione sono stati essenziali per adeguare alla normativa organizzazioni di volontariato vecchie e più recenti, per facilitare la costituzione di nuove. Inoltre prezioso è stato l’aiuto e il supporto nello svolgimento delle loro attività, è cioè da tenere presente che le Odv sono in genere organizzazioni povere, la cui sede è spesso a casa del presidente dell’associazione, quindi i Csv hanno in genere offerto ospitalità per le riunioni, per avere un posto di lavoro con un computer e un telefono, per avere lì la sede legale, per avere a disposizione una fotocopiatrice o un grafico che ti aiutasse ad impostare un volantino, per avere una consulenza di carattere fiscale e legale di base, ecc.

Tutti questi servizi di fronte ad una realtà di cui non se ne era occupato nessuno per anni all’inizio sono stati molto numerosi e poi una parte di essi si è ridotta, ma soprattutto uno volta affrontate e risolte queste questioni essenziali, quasi di sopravvivenza delle Odv, si è posto e si pone il problema di una seconda generazione di servizi, se vogliamo che il mondo del volontariato sia all’altezza del ruolo a cui è oramai dovunque chiamato.

Si pone quindi un problema di formazione dei quadri, sia di formazione “politica” (sul ruolo più in generale del volontariato, la sussidiarietà orizzontale, i beni comuni, ecc.), ma anche di formazione “tecnica”, relativa al settore di intervento di ciascuna Odv.

Si pone poi un problema di consulenza e assistenza giuridica e fiscale all’azione dell’Odv non semplicemente alla costituzione: l’applicazione del principio di sussidiarietà, benché previsto in Costituzione, richiederà un tempo di adeguamento della legislazione ordinaria, della cultura e della prassi dell’amministrazione pubblica che richiederà tempo e vertenze di carattere giuridico.

Un altro grave problema è rappresentato dal fatto che la gran parte delle reti di volontariato di carattere regionale non possono avere servizi dai Csv, essendo nella maggior parte delle regioni di carattere provinciale, mentre le reti nazionali non possono usufruire di alcun servizio ovunque. Ciò è in aperta contraddizione con una prospettiva di viluppo del ruolo del mondo volontariato, che solo attraverso reti sufficientemente organizzate può uscire da una realtà e visione di carattere localistico o settoriale, tipica della solidarietà di vicinanza che caratterizza il mondo del volontariato.

C’è poi la necessità d’essere di sostegno alla ricerca e all’elaborazione di strategie per la cittadinanza attiva e l’economia solidale, svolgendo attività di ricerca, favorendo lo sviluppo di rapporti tra mondo del volontariato, Università e centri di ricerca e di studio.
Infine sarebbe importante e interessante che i Csv, almeno per la parte che riguarda il mondo del volontariato, si occupassero dello sviluppo dei distretti e sistemi dell’economia solidale.
Il problema di una seconda generazione di servizi non si può dire che non sia stato tematizzato da Csvnet, ma una volta affrontato oramai quasi sette anni fa, non è stato più ripreso [5].

  1. Centri per il volontariato o per i volontariati?

L’Italia non solo ha una legislazione del TS a “canne d’organo” (ma almeno quelle suonano assieme) che settorializza il TS, ma l’unico strumento di promozione della cittadinanza attiva esiste solo per i volontari della 266/91. Tutte le indagini ci dicono invece che sì, qui c’è indubbiamente una parte consistente dei volontari socialmente più motivata, ma che da un lato la maggioranza del volontari stanno al di fuori delle organizzazioni della 266/91[6], dall’altra ciò che caratterizza il TS nel suo insieme, anche nelle Aps e nelle coopsociali, è proprio la presenza dei volontari.

Se i Csv potessero erogare servizi all’insieme del volontariato presente nel TS svolgerebbero una funzione strategica nello sviluppo dell’insieme di questo mondo, qualificando ciò che meglio caratterizza dal punto di vista democratico questo mondo, sostenendo così ovunque si svolga quella cittadinanza attiva che è una risorsa fondamentale per il rinnovamento delle nostre istituzioni.

Se i Csv puntassero ad occuparsi dell’insieme dei volontariati potrebbero richiedere altre risorse, anche dalle amministrazioni pubbliche assolvendo essi un fondamentale compito costituzionale [7].

  1. Problemi di gestione e di rappresentatività del mondo del volontariato

Le strutture di gestione avviate inizialmente hanno da tempo mostrato limiti evidenti, in particolare nel rapporto tra organi tecnici e “politici” dei Csv, occorre andare a modelli di gestione più maturi, capaci di garantire qualità tecnica nell’organizzazione dei servizi e una larga partecipazione del volontariato nell’indirizzare l’attività dei Centri.

Occorre poi parlare di “sistema dei Csv”, non semplicemente di Csv. Come evidenziato nel saggio sull’argomento presente in questo numero della rivista, occorre andare ad un rapporto virtuoso e costruttivo tra CoGe e Csv, che garantisca correttezza, efficienza, un’azione nell’interesse dell’insieme della comunità territoriale, nella gestione dei “fondi speciali per il volontariato”, nell’ambito dei ruoli distinti come previsto dalla legge.

Rimanendo ai CoGe c’è un problema di durata del loro mandato, troppo breve con i due anni attuali, e di metodo democratico nell’individuazione dei sei membri di nomina regionale, che in molte regioni vengono nominati tardi e male, non senza pratiche in alcuni casi anche di carattere clientelare.

Infine c’è un problema di rappresentatività del mondo del volontariato da parte degli enti gestori dei fondi. Una normativa come quella prevista dal DM 7/10/97, che praticamente assegna per sempre alla compagine che ha vinto il bando istitutivo del Csv la gestione delle attività svolte con i fondi speciali per il volontariato, ha senso se ci troviamo di fronte ad organi di gestione aperti, genuina espressione democratica dell'insieme del mondo del volontariato di ciascun territorio, altrimenti hanno ragione coloro che pensano sia bene affidare quelle funzioni a termine con bandi periodici. Ciò già avviene nella maggior parte dei Csv, così non è in parte, certo in una minoranza di casi, una minoranza che però getta cattiva luce sull’insieme del sistema dei Csv.

Occorrono norme, oggi mancanti, che garantiscano e richiedano esplicitamente tale democraticità, senza con ciò pensare di trasformare i Csv in organi di rappresentanza del volontariato dal punto di vista politico.

  1. I problemi di finanziamento e i rapporti con gli enti finanziatori

Dopo il lungo contenzioso giuridico che ha visto coinvolte le fondazioni di origine bancaria, le Regioni, lo Stato e lo stesso Volontariato, nel 2005 e del 2010 si sono siglati accordi tra le rappresentanze nazionali delle fondazioni del Volontariato e del TS.

Con l’accordo del 2005 si sono per la prima volta garantiti fondi per il Csv del Mezzogiorno, dove le fondazioni bancarie sono quasi assenti, oltre in parte allo stesso TS meridionale attraverso Fondazione con il Sud. Gli accordi del 2010 hanno meritoriamente, ma solo nominalmente, garantito un’entità minima di fondi ai Csv e la prosecuzione dell’equa distribuzione delle risorse a livello delle diverse regioni, cosa inesistente prima con regioni ricche ed altre molto povere di fondi.

Però di fronte alla crisi finanziaria avviatasi nel 2008 e che tuttora perdura, quelle garanzie di un finanziamento minimo si sono rivelate largamente insufficienti, mentre anche se fosse erogato come previsto non permetterebbe di affrontare quella seconda generazione di servizi che abbiamo visto sopra. Così si rischia di bloccare i Csv alle funzioni svolte sinora, che in parte come abbiamo visto vanno ad esaurimento e che comunque lasciano i Csv ad un insufficiente livello di qualificazione, non solo per le necessità del mondo del volontariato e del TS, ma anche per un necessario processo di innovazione che ne impedisca una burocratizzazione. Se così avvenisse in prospettiva sarebbe in pericolo l’esistenza stessa dei Csv.

E’ necessario da parte del sistema dei Csv più ambizione nel perseguire il proprio compito di servizio, più consapevolezza del compito che svolgono e potrebbero svolgere per il mondo del volontariato, del TS e per la democrazia italiana.

Se i Csv puntassero ad occuparsi dell’insieme dei volontariati con servizi qualificati potrebbero richiedere altre risorse, anche dalle amministrazioni pubbliche assolvendo essi un fondamentale compito costituzionale [8]. Del resto molti altri servizi al cittadino sono svolti in regime di gratuità, dalle pratiche pensionistiche svolte dai patronati sindacali, ad altre che garantiscono i diritti politici e sociali dei cittadini che vengono svolte in regime di gratuità con finanziamento pubblico. Se, come disse la Corte costituzionale “l’essere volontari è un diritto fondamentale del cittadino” [9] perché i Csv non possono fruire di altri sostegni pubblici? C’è un problema di forza e determinazione del mondo del volontariato e del TS nel perseguire una simile finalità.

Forza e determinazione che non casca dal cielo, ma che presuppongono un largo consenso, una “battaglia delle idee” da parte di chi come noi sostiene una simile prospettiva e questo è quel a cui vuole servire questo primo numero di Non per profitto.

 

 


[1] Dal 2008 l’Italia ha perso circa il 7%  del Pil, una cifra enorme: 2008 -1,2, 2009 5,5, 2010 +1,8, 2011 +0,4, 2012 -2,3 (stima), fonte Eurostat, L'allarme di Squinzi: dal 2007 persi 7 punti di Pil, in Corsera del 20.01.13, pag. 10. Un  tracollo che fa seguito a un progressivo rallentamento dell’economia italiana (nel ‘51/’58 la crescita del Pil fu del 5,5% anno, nel 1958/63 del 6,3%, negli anni ’70 del 3,4%, in quelli ’80 del 2,5%, in quelli ’90 dell’1,4%, in quelli 2000 del 0,0%). Ma il quadro europeo è non meno fosco, le stime 2012, vedi sempre art. cit. Corsera, sono:  Grecia -6,00%; Spagna -1,4%; Gran Bretagna -0,3%; Francia + 0,2%; Germania + 0,7%.
[2] Sulla base del Rapporto Beveridge del 1942, relativo ad Assicurazioni sociali e servizi connessi(Report of the Inter-Departmental Committee on Social Insurance and Allied Services) e di Il pieno impiego in una società libera, pubblicato nel 1944, il governo del laburista Attlee, eletto nelle elezioni politiche del 1945, avvia e realizza lo “stato sociale”, il welfare state britannico. William Henry Beveridge, (Rangpur-Bengala 1879 – Oxford 1963), deputato liberale di Berwick-on-Tweed nel 1944, non rieletto nelle elezioni del 1945 e creato barone nel 1946, entrò quell’anno a far parte della camera dei Lord. Scienziato sociale inglese, studioso della disoccupazione e dell’assistenza sociale, direttore dal 1919 al 1937 della London School of Economics di Londra, in seguito docente all’University College di Oxford.
[3] Il debito pubblico nei paesi avanzati era nel 2011 il 100% del Pil (dalla relazione dell’allora governatore di Banca d’Italia e ora della Bce M. Draghi). Inoltre vedi S. Andriani, Squilibri macroeconomici, economia reale, finanza, in Pubblico, privato, comune, Lezioni dalla crisi globale, a cura di L. Pennacchi, Ediesse, Roma 2010 e debito pubblico in tempi di guerra.
[4] Qui con “economia solidale” intendiamo tutte quelle attività economiche non profit con finalità sociali che si avvalgono anche dell’apporto del volontariato, della cittadinanza attiva, come è nel caso della cooperazione sociale e di una parte delle imprese sociali. Si tratta di attività economiche e sociali rappresentate da singole organizzazioni, ma anche da reti, sistemi e distretti dell’economia sociale, presenti nel campo dei servizi (socio/sanitari, educativi, protezione civile o ambientale, ecc.), ma anche della produzione manifatturiera (coopsociali di tipo B in vari campi, dalle energie rinnovabili al giardinaggio), o della distribuzione (il commercio equo solidale, i Gruppi solidali di acquisto, ecc.). Si tratta di una realtà in movimento che sta anche elaborando un propria visione teorica condivisa, così c’è chi preferisce parlare di economia solidale, sociale o economia civica, a seconda delle diverse scuole di pensiero.
[5] Ci riferiamo in particolare al seminario nazionale di Csvnet di Cavallino Tre Porti, a Venezia, nel 2005.
[6] Gli ultimi dati comparabili in materia ci dicono che nel 1999 i volontari nel non profit in Italia erano 3.221.185 (Istat, 1° Censimento delle istituzioni e imprese nonprofit, sintesi pubblicata il 3 agosto 2001). Alla stessa data i volontari delle Odv iscritte a registro erano 670.826 (Istat, Le organizzazioni di volontariato in Italia, Anno 1999, sintesi pubblicata il 4 maggio 2001.
[7] L’u.c. dell’art. 118 stabilisce che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Cosa meglio dei Csv ha attuato quel “favoriscono” previsto dalla costituzione.
[8] L’u.c. dell’art. 118 stabilisce che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Cosa meglio dei Csv ha attuato quel “favoriscono” previsto dalla costituzione.
[9] Quello di essere volontari, secondo la Corte costituzionale, è un diritto “posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell'ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell'uomo, dall'art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente». Sentenza n.75 del 1992.

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