Imparare la democrazia

Per rinnovare le istituzioni e l'impegno sociale e politico

 

 

 

 

 

A cura di

Guido Memo

 

 

 

 

 

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Materiali e atti

 

Centro di studi e iniziative per la riforma dello stato

 

 

Supplemento al numero 2

aprile - giugno 1992

 

 

Democrazia e diritto

 

 

 

Cura editoriale di

Daniela Socrate

 

 

 

Con la collaborazione di:

Maurizio Ambrosini dell'Univeristà cattolica, Daniela Banfi del Csa, Giuseppe Cotturri direttore del Crs, Lino Duilio direttore del Csa, Elisabetta La Rovere del Csa.

 

Si ringraziano inoltre: Carlo Sala dell'Università cattolica e Riccardo Terzi della Cgil lombarda che si sono sottoposti a due interviste di prova, di grande utilità, ma che non abbiamo potuto pubblicare, ed infine Sandro Antoniazzi con cui avevamo discusso il nostro progetto.

 

La pubblicazione di questo fascicolo è stata resa possibile anche grazie al contributo della F.lli Dioguardi S.p.A., Bari

Sommario

 

 

 

 

 

 

 

3               Premessa

5               Introduzuine (Lino Duilio e Guido Memo)

 

 

 

 

Interviste

 

 

12             Giovanni Bianchi, delle Acli

16             Roberto d’Alessio e Agostino Migone, dell'Agesci

20             Nuccio Iovene, dell'Arci

24             Raffaele Cananzi, dell'Azione cattolica

29             Renata Ingrao, della Lega ambiente

35             Giancarlo Cesena, di Movimento popolare

39             Giuseppe Lumia, del Movi

46             Luciano Tavazza, della Fondazione italiana per il volontariato

 

52            Fiorella Farinelli, della Cgil

60             Luigi Cocilovo, della Cisl

 

66             Giusepe Cotturri, del Crs

75            Maria Eletta Martini, del dipartimento cultura della Dc

82            Giuseppe Tamburrano, della Fondazione Pietro Nenni

86            Bartololmeo Sorge, dell'Istituto Pedro Arrupe

 

 

 

 

Appendice

 

91             Traccia per le interviste

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

Il quaderno che presentiamo è frutto di una collaborazione tra il Crs e il Csa*, allo scopo di intraprendere iniziative per svi­luppare nel nostro paese le attività di ricerca e di formazione all'impegno sociale e politico.

E' infatti nostra comune convinzione che non è pensabile di poter uscire dalla crisi che attanaglia le istituzioni italiane, senza una robusta crescita della cultura politica dei soggetti sociali e politici vecchi e nuovi. Certamente delle riforme isti­tuzionali sono necessarie e urgenti, ma dei veri mutamenti di qualità sul lungo periodo non potranno esserci senza una crescita della cultura politica: basta guardare al livello del dibattito politico nel nostro paese e non ci vuol molto per rendersi conto che esso è molto al di sotto rispetto alla gravità dei problemi che abbiamo dinnanzi.

Profondamente convinti della giustezza di questo punto di vi­sta, abbiamo deciso di intraprendere delle azioni comuni affinché la questione fosse finalmente affrontata con il dovuto impegno. Abbiamo pensato che erano necessarie delle iniziative per solle­vate l'attenzione intorno a questo problema, e che queste inizia­tive dovevano coinvolgere l'insieme dell'associazionismo democra­tico, senza distinzione per l'orientamento politico e culturale, perché è questa una questione che riguarda alcune caratteristiche di fondo della vita politica e della convivenza civile nel nostro paese, che non può essere affrontata da una sola parte.

Abbiamo così intrapreso una sorta di pellegrinaggio tra i re­sponsabili dell'associazionismo italiano, sottoponendo loro una serie di domande: sulla crisi politica e istituzionale che attra­versa il nostro paese e sul legame che tutto ciò ha con le que­stioni di cultura politica e con il loro sviluppo. Era nostra intenzione di verificare con questo giro quanto e come fosse av­vertito il problema; e se il nostro progetto di andare a forme di iniziative comuni avesse un fondamento e delle possibilità di attuazione.

Naturalmente le nostre forze non ci permettevano di contattare tutto l'associazionismo italiano, mancano così aree sociali e culturali non secondarie, in particolare si pensi ai movimenti giovanili o femminili e più d'una di quelle forze minoritarie, che pure hanno un ruolo di rilievo nel dibattito politico-cultu­rale italiano. Questa scelta non è motivata da alcuna volontà di esclusione, ma da inevitabile economia di spazio e di lavoro, soprattutto in quelle aree dove la frammentazione è maggiore. In­fine in alcuni casi la scelta non è dipesa dalla nostra volontà, perché nonostante i ripetuti tentativi non si è riusciti a svol­gere la desiderata intervista.

Il nostro giro di incontri ed interviste ha toccato l'associa­zionismo e il volontariato, i sindacati; ed infine alcuni espo­nenti di partito che hanno un ruolo o nelle istituti di studio e ricerca o nella vita culturale del loro partito politica. Infine abbiamo anche intervistato Bartolomeo Sorge sull'interessante esperienza dell'Istituto Pedro Arrupe di Palermo.

Per rendere più scorrevole la lettura abbiamo omesso dalle in­terviste pubblicate le domande, ma abbiamo anche raccolto in ap­pendice lo schema che, con una certa elasticità, abbiamo utiliz­zato in tutte le interviste. I testi scritti che abbiamo così ricavato sono stati riletti dagli autori per verificare se la trascrizione dell'intervista aveva rispettato il loro pensiero, mentre un'accurata messa a punto da parte loro dello stile che ne è così risultato, non è stata possibile per motivi di tempo: ci assumiamo quindi tutte le responsabilità relative a riguardo.

Le interviste anche se sono notevolmente interessanti sia per le analisi svolte che per i punti di vista rappresentati, non sono dei saggi e mantengono il carattere discorsivo e colloquiale originale. Noi pensiamo che questo sia un vantaggio, perché la lettura è così più scorrevole e sarà quindi possibile raggiungere un più ampio pubblico di lettori come noi desideriamo.

Va segnalato infine che le interviste sono state svolte tra il gennaio e il settembre di quest'anno, anche se i testi sono stati rivisti dagli intervistati tra luglio e settembre; scriviamo que­sto per rilevare che solo in alcune interviste si troverà traccia di questioni recenti ma importanti, come lo scandalo di «tangen­topoli» che ha scosso e continua a scuotere sin alle fondamenta il nostro sistema politico. Tutto ciò non toglie di attualità alla pubblicazione, perché le questioni qui sollevate ed esamina­te riguardano problemi di fondo della nostra vita democratica.

Con questa pubblicazione, che esce contestualmente nelle colla­ne del Crs e del Csa, non ci siamo posti tanto il compito di dare un contributo di studi sull'argomento, anche se riteniamo inte­ressanti le interviste anche da questo punto di vista, come non intendiamo affatto rivolgerci solo agli studiosi. Noi abbiamo voluto con questa pubblicazione far uscire come manifesto di un allarme e di proposta su un argomento centrale, ma sommerso sia dal rumore della politica politicante, come dall'eco di eventi gravi o rilevanti che si susseguono sulla scena nazionale e in­ternazionale. Anche l'introduzione che abbiamo premesso alle in­terviste ha questo carattere e non a caso è firmata congiuntamen­te da chi per il Crs e il Csa sta seguendo questo nostro lavoro.

Noi speriamo che a questa pubblicazione possano far seguito di­verse iniziative sia di carattere seminariale, che di iniziativa politica vera e propria. Siamo così aperti a suggerimenti, con­tributi ed adesioni che speriamo ci giungano non solo dai singo­li, ma soprattutto da diverse associazioni.


Introduzione

 

 

 

Crisi e riforma istituzionale

 

Il nostro paese sta indubbiamente attraversando una grave crisi politica e istituzionale: dalla costituzione della Repubblica ad oggi vi è stato un impetuoso sviluppo economico e sociale, anche se non privo di squilibri, mentre rilevanti questioni relative al funzionamento delle istituzioni e del sistema politico si sono venute accumulando. Questioni che, irrisolte negli anni che ci stanno alle spalle, ci si presentano ora aggravate.

Abbiamo vissuto in una democrazia bloccata, che solo in parte è riuscita a regolare lo sviluppo, mentre oggi le strozzature poli­tiche si manifestano sempre più evidenti. Democrazia bloccata che ha logorato sia la credibilità di chi al potere politico naziona­le non è potuto mai giungere, come quella di chi ha esercitato questo potere ininterrottamente senza ricambio. La stessa diffu­sione del sistema delle tangenti, che così clamorosamente è emer­sa recentemente, segnala una preoccupante crisi del sistema di rappresentanza. Complessivamente, nonostante la presenza non se­condaria di distorsioni, sperequazioni e corporativismi, la so­cietà civile ha dato ripetutamente segni di tenuta e vitalità, sia sul piano economico che politico. Lo testimoniano bene il continuo sviluppo e rinnovamento tecnologico e produttivo, la tenuta democratica contro fenomeni terroristici che non hanno avuto paragone in Europa occidentale, come la continua e crescen­te lotta e mobilitazione, innanzitutto nello stesso meridione, contro un fenomeno mafioso e criminale tra i più gravi del mondo; ed infine importante conferma di questa tenuta è la fedele ade­sione al metodo democratico da parte della grande maggioranza degli italiani.

Nella società politica, invece, quando non ci si è fermati al livello delle enunciazioni di rinnovamento, chi ha concretamente operato per rinnovare le istituzioni e la vita politica o è stato sconfitto o, addirittura, ha pagato con la propia vita, come Moro e Ruffilli. Si è così aggravato lo stato di ingovernabilità: così per il deficit e il debito pubblico giunti ad un livello oramai incontenibile, se non al prezzo di provvedimenti eccezionali; come per il rispetto della legalità in alcune regioni.

E' ora necessario passare a un sistema elettorale che non si limiti a registrare il voto verso ciascun partito, delegando di fatto completamente ai gruppi dirigenti dei partiti la scelta delle alleanze e delle politiche di governo. Gli elettori devono scegliere alternative di governo chiare nei programmi e nelle alleanze, i governi assumersene le conseguenti responsabilità di fronte agli elettori, e da qui, da un preciso ed esplicito manda­to popolare, ricavare una risoluta capacità di governo, arrivare ad un’effettiva governabilità del paese. Bisogna favorire poli­tiche di alternanza e coinvolgere tutte le forze sane nel governo dello stato.

Alternanze che però, si badi bene, non sono attuabili senza un rinnovato contratto sociale che rinsaldi la solidarietà naziona­le. E' vero, la guerra fredda e la divisione in blocchi contrap­posti che aveva alimentato le divisioni interne, si è definitiva­mente conclusa, ma è una semplificazione pensare che il blocco del sistema politico italiano avesse solo motivazioni politiche esterne. Quello italiano è uno stato debole per ragioni di lungo periodo che stanno nella nostra storia, ragioni che non si posso­no aggirare ed eludere. Lo stato liberale in Italia è sorto su basi ristrette, senza una partecipazione e un consenso popolare largo. Questa separazione tra popolo e stato è emersa evidente con l'introduzione del suffragio universale, e lo stato liberale non ha retto all'irruzione di nuovi strati sociali nella vita politica. Come del resto ancora negli anni sessanta e settanta un forte movimento giovanile non ha trovato adeguati sbocchi politi­ci e istituzionali, alimentando quindi anche fenomeni eversivi e destabilizzanti, più o meno strumentalizzati dall'esterno. La re­sistenza contro il fascismo ha indubbiamente rinsaldato l'unità dello stato e gli ha dato nuove e più larghe basi, ma non ha su­perato di colpo problemi di lunga data. Se dallo stato liberale fu escluso e si autoescluse il movimento cattolico, nella vita della repubblica una parte rilevante del movimento operaio e del popolo italiano non ha potuto avere di fatto un ruolo effettiva­mente alla pari nella vita politica del paese. Nessuno ha obbli­gato prima il movimento cattolico ad autoescludersi, come nessuno ha obbligato dopo tanti cittadini italiani a votare comunista; spiegare tutto questo con le ingerenze del Vaticano o del movi­mento comunista internazionale è una semplificazione che non spiega la storia italiana. In realtà tutti gli stati subiscono condizionamenti esterni sia di carattere economico o politico, ma gli esiti differiscono molto a seconda del grado di coesione di una collettività intorno al proprio stato, i condizionamenti han­no spesso pesato di più per noi, per un rapporto storicamente debole tra cittadini e istituzioni. A questo scopo occorrono classi dirigenti fedeli al senso dello stato e al bene comune, ma oggi sempre più anche una larga e politicamente consapevole par­tecipazione popolare; la fedeltà del corpo delle forze popolari al metodo democratico, nonostante i molti limiti della nostra vita istituzionale, è una risorsa che non deve essere assoluta­mente dispersa.

 

 

Partiti e associazionismo

 

Lo stato, in particolare lo stato democratico, è un fenomeno complesso non riducibile agli apparati e alle istituzioni pubbli­che; le strutture della società civile hanno un ruolo determinan­te nel rapporto tra cittadini e istituzioni. L'esperienza storica recente e lontana conferma che dovunque ci si muove, lentamente, verso l'arricchimento della rete e della struttura della società civile: lentamente, ma inesorabilmente, forme di potere assoluto e totalitario, di qualsiasi segno politico esse siano, vengono sostituite da forme statali nelle quali la libertà e la capacità dei cittadini di costituire organizzazioni di carattere economico e politico crea una robusta struttura della società civile. Si può dire che c'è una relazione stretta tra sviluppo di una socie­tà e ricchezza e complessità di questa trama della società civi­le. L'ampiezza della rete di associazioni della società civile ha conseguenze sullo sviluppo economico e sociale stesso: non è un caso che le regioni italiane più sviluppate sono quelle che dispongono di una rete più diffusa e radicata, carente nel meridione; e, soprattutto, non è un caso che le regioni italiane che hanno avuto il più alto tasso di sviluppo, recuperando ampia­mente in ricchezza rispetto al triangolo industriale, siano state proprio quelle che disponevano di una ricca rete di associazioni nella società civile, sia che si trattasse di «regioni bianche o rosse». Certo non basta l'associazionismo «economicista», sinda­cale, cooperativo e mutualistico; ma è proprio quello culturale, ricreativo e dell'impegno volontario nel sociale che si è svilup­pato già a partire dagli anni settanta e soprattutto negli anni ottanta, mentre quello economico ha cominciato a mostrare i pro­pri limiti. Del resto non era possibile altrimenti per gli ampi strati sociali che dovevano, prima di pensare ad altro, affran­carsi da una situazione di povertà e bisogno economico; ora si è aperta una nuova frontiera e una strada di cui, forse, abbiamo percorso solo i primi passi.

Questa ricchezza e complessità della società civile può però anche indebolire lo stato e causare corporativismi e frammenta­zione politica, se questo sviluppo non si accompagna allo svilup­po della coscienza sociale e politica, grazie alla quale l'aumen­tata dialettica non intacca la solidarietà, il «contratto socia­le», che è alla base dello stato moderno. Riforme istituzionali che recepiscano la nuova complessità democratica si devono cioè accompagnare ad una riforma della cultura politica, a un più dif­fuso e consapevole senso dello stato; altrimenti si giunge non solo allo sviluppo di corporativismi lungo le linee di differen­ziazione sociale, culturale o etnica, ma a vere e proprie mafie economiche e politiche, prive di senso dello stato e decise ad usare le nuove libertà concesse a loro esclusivo vantaggio, nel rispetto di alcuna regola che non sia la loro.

Dagli anni ottanta ad oggi, nel nostro paese, abbiamo assistito ad una crescente crisi dell'associazionismo democratico tradizio­nale, soprattutto di partito, mentre l'associazionismo in genera­le non è andato affatto contraendosi: sono cresciute sia le asso­ciazioni di volontariato (tese cioè non al soddisfacimento dei bisogni dei loro soci, ma a un disinteressato intervento socia­le), come le altre associazioni. Di questa crescita ne sono ben consapevoli i rappresentanti dell'associazionismo e del volonta­riato che abbiamo intervistato. E' anzi diffusa tra di essi la convinzione che la riforma istituzionale non possa limitarsi agli organi di governo e parlamentari, ma che si deve riconoscere al­l'associazionismo un ruolo nella vita politica e sociale: il ri­conoscimento di questo ruolo autonomo è visto come uno dei momen­ti fondamentali della nostra crescita democratica e istituziona­le.

La crisi dei partiti democratici di massa e popolari è connessa a questo processo ed ha conseguenze particolarmente gravi per il sistema politico italiano, perché è attraverso di essi che la re­pubblica ha ricevuto legittimità e consenso, essendo stato, come abbiamo visto, storicamente debole il rapporto tra cittadini e istituzioni. Partiti e appartenenza di partito hanno svolto un ruolo di supplenza sia rispetto allo stato che al senso dello stato; è attraverso di essi che molti si sono sentiti parte di uno stato altrimenti estraneo e lontano. Così come i partiti hanno supplito a forme di associazionismo, ancora insuf­ficientemente sviluppate e autonome. Basti pensare alla più dif­fusa tra queste, il sindacato: i sindacati sono stati fondati, divisi e rifondati per iniziativa dei partiti; non da molto, no­nostante le divisioni, si riesce a mantenere qualche forma di unità. Il collateralismo ha a lungo dominato incontrastato, men­tre oggi, quel che rimane è vissuto all'interno e all'esterno dell'associazionismo con fastidio e insofferenza.

La crescita e la maggiore autonomia e maturità dell'associazio­nismo, a partire dallo sviluppo sia pur contraddittorio dell'au­tonomia sindacale, hanno finito per indebolire la capacità di rappresentanza politica della società civile da parte dei parti­ti, proprio mentre il ruolo delle istituzioni, e quindi dei par­titi stessi, è divenuto sempre più rilevante. I cittadini, cioè, sempre meno si sono trovati di fronte i partiti nelle sedi della rappresentanza politico istituzionale; mentre sempre più li hanno incontrati nei rapporti con le istituzioni pubbliche, come con­tribuenti o fruitori dell'intervento pubblico o della spesa pub­blica. Da qui è iniziato non tanto e non solo un generico distac­co tra partiti e società, quanto un degenerare del rapporto poli­tico in rapporto d'affari e clientelare. Altrimenti non si spie­gherebbe, nonostante la crisi dei partiti in atto da tempo, il loro ruolo preponderante e invadente.

Ai partiti i processi sopra descritti hanno sempre più posto un problema di rinnovamento, sostanzialmente disatteso. I legami con l'associazionismo non possono essere mantenuti attraverso una fedeltà organizzativa, se non al prezzo di una crescente diffi­coltà nella vita democratica interna e nella credibilità di quel­le associazioni. Associazioni che devono essere chiamate, nel­l'ambito dei loro specifici ruoli, a cooperare con le istituzioni pubbliche, senza confondersi con le rappresentanze politiche; la vita sociale si è fatta così complessa da richiedere questa col­laborazione, altrimenti il parlamento diventa un'imbuto dove tut­to deve passare, intasandosi e disattendendo ai compiti di indi­rizzo strategici, senza i quali prevale la politica del giorno per giorno che ci ha portato all'attuale dissesto finanziario e politico.

 

 

 

Una nuova cultura politica

 

La nascita dello stato rappresentativo si accompagna a quella dei partiti, ed è difficile pensare a qualsiasi forma, più o meno evoluta, di stato rappresentativo senza di essi. Senza associa­zioni di cittadini che nella società e nelle istituzioni si fac­ciano portatrici di una dialettica democratica tra le diverse culture presenti nella società e in ciascun paese, tra diverse visioni dello sviluppo sociale o tra diverse proposte di soluzio­ne dei molti problemi che sono sul tappeto a livello nazionale e internazionale. Certamente i partiti devono continuamente modifi­carsi con lo sviluppo sociale stesso, ma una democrazia non può vivere solo attraverso movimenti o associazioni che si limitino ad esprimere o organizzare interessi particolari o locali, senza una visione d'insieme della pòlis, della collettività nazionale e internazionale, senza un'attenzione forte al bene comune. Si può pensare ad un rinnovamento dei partiti storici, se ne possono fondare di nuovi che magari non vogliono chiamarsi partiti, ma non si può risolvere questo problema politico semplicemente at­traverso un'ampliamento del mandato personale a chi è eletto nel­le sedi di rappresentanza. Il nocciolo del problema non cambia ed è un altro, e rimanda alla necessaria presenza di culture politi­che forti e attrezzate che possano permettere a un qualsiasi mo­vimento o associazione di svolgere una funzione politica comples­siva, di formulare e perseguire un progetto politico in cui cia­scuno fa la sua parte, all'interno di una dialettica democratica.

Il rinnovamento dei partiti e del loro ruolo non può, cioè, che passare attraverso una ripresa della loro capacità progettuale. Per questo si pone una questione di cultura e pratica politiche nuove, all'altezza dei compiti e delle nuove sfide politiche.

I partiti popolari, sorti dovunque nei paesi più sviluppati tra la fine del secolo scorso e l'inizio di questo, spesso in forme assai diverse da paese a paese, hanno dato forma politica a un rapporto nuovo, di massa, tra società politica e civile. Il di­ritto di voto che fonda lo stato moderno è una conquista degli stati liberali, nei quali però votava una piccola minoranza bene­stante di soli maschi. Lo sviluppo economico e sociale ha permes­so e imposto l'ingresso nella vita politica di strati prima poli­ticamente subalterni, del tutto estranei alle scelte di governo nazionali.

Il suffragio universale e i partiti popolari sono stati la for­ma politica di questo processo, le ideologie la forma culturale. Visioni semplificate dello sviluppo storico, della società e del­la politica hanno svolto una funzione essenziale nel dare una cultura politica a classi subalterne che non ne avevano alcuna. Non si deve inoltre dimenticare che le ideologie costituivano lo scheletro su cui si saldava il cemento etico che univa i par­titi alla loro base sociale ed elettorale, senza il quale non vi è regola democratica che possa garantire la fedeltà dei rappre­sentanti ai rappresentati; anche se quelle scelte ideologiche di principio, che non entravano nel merito delle politiche concrete, erano legate ad una delega molto ampia verso i partiti e i loro gruppi dirigenti, con un ruolo della «base», dei cittadini e del­le persone rappresentate, ancora troppo ristretto. Era un limite comprensibile e inevitabile nello sviluppo democratico, poiché si aveva a che fare con strati popolari che muovevano i loro primi passi verso la democrazia politica e sociale, ma che oggi, grazie alle stesse conquiste ottenute, non è più sostenibile.

Le reali esperienze politiche e di governo, si sono quindi in­caricate di mostrare i limiti di quelle culture e ideologie, li­miti sempre più evidenti mano mano che i compiti della politica si facevano sempre più complessi e investivano campi nuovi come conseguenza dello sviluppo economico e sociale stesso. Basti pen­sare all'intreccio sempre più stretto tra economia nazionale e internazionale, che riduce gli spazi di intervento per le strut­ture e l'associazionismo democratico, essenzialmente a base na­zionale, anche nella stessa Comunità europea. Oppure basti ancora pensare al ruolo dell'intervento pubblico in ogni campo, sia nel regolare il mercato, sia nell'intervenire direttamente: sostan­zialmente senza grandi differenziazioni quantitative tra governi liberisti e interventisti, di sinistra o di destra. Possono cam­biare i fini e le caratteristiche dell'intervento statale, ma in realtà al di la di ogni retorica non c'è economia privata che non si accompagni a un rilevante intervento pubblico e dello stato.

Nel corso di questo secolo i compiti della politica si sono continuamente ampliati e il solo compito di regolazione legisla­tiva di una società in continuo sviluppo si è fatto sempre più complesso. Inoltre la produzione economica e la vita sociale si svolgono incorporando sempre più ampie conoscenze scientifiche: era perciò pensabile che le ideologie, queste filosofie politiche semplici come i semplici a cui si rivolgevano, potessero reggere intatte alla prova e non uscirne in crisi?

La crisi di quelle ideologie ha però aperto un vuoto, che non è solo politico ma anche di valori, perché se quelle erano visioni schematiche dal punto di vista delle scienze sociali, ciò non toglie che fossero forti e robuste dal punto di vista etico, ric­che di valori di libertà, giustizia e solidarietà. E poiché la politica non sopporta vuoti, quello spazio può essere riempito o da forze che esaltano l'azione per l'azione, di fronte alla gene­rale immobilità, o ancora peggio da nazionalismi e razzismi, da esaltazioni di violenza. Così a una crisi delle ideologie si può anche accompagnare una crisi dei valori che fondano la convivenza civile.

Non può però crescere e svilupparsi qualsiasi impegno associato senza una cultura che unisca l'impegno dei singoli, personalismi e personalizzazioni  diffusesi nel corso di questi anni, non pos­sono che essere soluzioni labili e temporanee. Non è pensabile che il sistema politico e istituzionale di una società sviluppata possa funzionare bene senza un'elevata e diffusa cultura politi­ca, l'esempio più convincente ci viene forse da una comparazione con il sistema economico. Non solo il sistema e le singole impre­se sono andate investendo sempre più in ricerca e formazione, anche in Italia, con un impegno sempre più rilevante; ma i paesi che hanno un sistema economico ben funzionante sono quelli che più hanno investito nel sistema scolastico, innanzitutto a livel­lo intermedio e non solo nei livelli più alti. Tra i paesi della Comunità europea noi siamo tra gli ultimi a non aver ancora ele­vato l'età dell'obbligo scolastico, non disponiamo di titoli di studio intermedi tra scuola media superiore e università altrove molto diffusi, e infine è da noi inesistente una struttura di formazione permanente, che in alcuni paesi più avanzati esiste oramai da decenni: abbiamo speso migliaia di miliardi in cassa integrazione e prepensionamenti, ma nulla in una riqualificazione dei lavoratori investiti da processi di riconversione produttiva, con grandi sprechi di risorse umane e finanziarie pubbliche.

Nonostante la scolarizzazione di massa la lettura di libri e giornali continua da noi a non superare soglie molto basse. Su queste basi non si può superare il distacco tra alta cultura e cultura diffusa, che non può sussistere in una società sviluppata e democratica. Nel campo della cultura politica la situazione non è diversa. Certamente le università hanno continuato a svolgere anche in questo campo un compito fondamentale, innanzitutto nella ricerca. Ma questo lavoro ha scarse ripercussioni, mentre conti­nua a sussistere un distacco molto elitario tra «intellettuali» e popolo, innanzitutto proprio nella vita politica, con evidenti ripercussioni negative. In realtà non è pensabile neppure uno sviluppo dell'alta cultura se non si sviluppa quella media e dif­fusa, tanto più per la cultura politica. Non solo i programmi di storia nella scuola dell'obbligo e superiore si arrestano sempre alla seconda guerra mondiale, quando ci arrivano, ma nessuno spiega ai giovani il funzionamento delle nostre istituzioni, non ci si può quindi lamentare di un permanente distacco.

In fondo l'unico sistema culturale che interviene massicciamen­te nel campo della cultura politica è quello dei media, ovviamen­te prima, per «audience», la televisione. Qui, però, i fenomeni di spettacolarizzazione e di semplificazione sono dominanti: un po' per le caratteristiche del mezzo e un po' per il livello del­la cultura politica media. La carta stampata segue la televisione su questa strada per non perdere lettori; il risultato complessi­vo è che il paese è periodicamente percorso da singole questioni che diventano dominanti in maniera martellante, per poi scompari­re, dopo un poco, dai teleschermi e dalle prime pagine dei gior­nali. Si perde così la connessione tra i singoli eventi e non si forma mai una visione meditata e di medio e lungo periodo, l'uni­ca dimensione a cui è poi possibile un intervento concreto, es­sendo inefficaci nella vita economica e politica sia le bacchette magiche, che le rigenerazioni catartiche.

Come arrivare ad uno sviluppo della cultura politica in Italia? Evidentemente vanno evitate soluzioni e proposte improvvisate che sarebbero di corto respiro, così noi abbiamo concepito questo primo giro di contatti tra l'associazionismo democratico, per raccogliere opinioni e disponibilità ad impegnarsi. Opinioni an­che su un lavoro di ricerca approfondito che intendiamo svolgere su come il problema è stato affrontato in Europa.

Ciò non significa che non si sappia nulla, anche se l'informa­zione è ancora insufficiente e quella che c'è molto poco diffusa. Occorrono da un lato informazioni precise dal punto di vista tec­nico legislativo e organizzativo, mentre dall'altro proprio la comparazione su problematiche omogenee ci permette di mettere meglio in luce le peculiarità del nostro paese in questo campo, per delineare così la soluzione più rispondente alle nostre esi­genze. Il problema è evidentemente complesso, anche se si decide di limitare la nostra analisi ai paesi dell'Europa occidentale, che pure non a caso hanno oggi organismi comunitari, nonostante i nazionalismi che ne hanno segnato la storia, perché costituiscono un'area storica comune innanzitutto dal punto di vista culturale.

Nonostante questa storia comune, però, vi sono importanti dif­ferenze per aree culturali sovranazionali e a seconda della di­versa storia che ha portato alla formazione dello stato moderno rappresentativo. Basti pensare alla presenza dei partiti democra­tico cristiani, essi sono presenti solo nei paesi con un forte insediamento cattolico, anche se in alcuni casi questo insedia­mento non è stato sufficiente, nonostante seri tentativi come in Francia o in Spagna, a far nascere durevoli formazioni politiche di ispirazione cristiana. Inoltre nei paesi con una lunga tradi­zione statuale e parlamentare i partiti politici sono nati, e ancora oggi si organizzano prevalentemente, intorno alla società politica, ai rappresentanti nelle assemblee elettive. Mentre in altri paesi come il nostro, i partiti di massa non sono sorti dalle frazioni parlamentari, qui i partiti con questa origine hanno un insediamento minoritario come diversi partiti liberali, mentre i partiti maggioritari sono stati espressi esclusivamente dalla società civile: e cioè dal movimento operaio e da quello cattolico. Queste differenziazioni, qui solo accennate ed esem­plificate, nel rapporto storico e attuale tra società civile e stato hanno ripercussioni rilevanti sull'organizzazione di tutta la vita politica ed economica di ciascun paese.

Tutto ciò ha quindi anche ripercussioni rilevanti sulle carat­teristiche delle strutture che si occupano di cultura politica. Così in un paese come la Francia sono le grandi scuole di ammini­strazione pubblica, la scuola e l'università a fare la parte del leone: dalle prime, indubbiamente di grande livello, esce il qua­dro dirigente dell'apparato pubblico, ma in parte anche dei par­titi; nelle scuole si forma la coscienza civile del paese, non è un caso che i sindacati degli insegnanti hanno una grande impor­tanza in Francia, mentre essi sono la categoria forse più rappre­sentata in parlamento; infine le università hanno un ruolo rile­vante nella formazione della cultura politica nazionale, indiret­tamente e direttamente, ad esempio appositi dipartimenti univer­sitari svolgono in accordo con le confederazioni, oramai da un quarantennio, formazione per tutti i sindacati.

La nostra esperienza e tradizione, nonostante affinità cultura­li con i «cugini» d'oltralpe, è notevolmente diversa, da noi sono le organizzazioni della società civile ad aver dato fondamento democratico ad una società politica e ad uno stato che complessi­vamente non aveva questa investitura. Da questo punto di vista la nostra storia è più vicina a quella di altri stati europei, pur nell'ambito di peculiarità che distinguono stato e stato. Negli stati democratici che in questo senso hanno una formazione simile alla nostra, una parte importante della formazione politica è svolta da strutture sorte per iniziativa della società civile e che non sono parte dell'apparato burocratico dello stato, anche se possono fruire di sostanziosi sostegni pubblici.

Così, ad esempio, è avvenuto in Rft dopo la caduta del nazismo, con risultati indubbiamente positivi sulla cultura politica dif­fusa e sulla tenuta democratica, innanzitutto se si tiene conto dalle radicate caratteristiche autoritarie della formazione sta­tale tedesca che avevano permesso l'ascesa del nazismo. Rispetto alla situazione attuale bisogna distinguere tra i länder dell'ex Rdd, dove uno stato poliziesco e totalitario ha impedito una cre­scita politica ed una responsabilizzazione della società civile, con risultati che abbiamo oggi sotto gli occhi nel movimento xe­nofobo e violento, innanzitutto giovanile ma con appoggi nella popolazione adulta, che si è sviluppato dopo l'unificazione; cer­to ciò avviene anche per la maniera in cui è stata portata avanti l'unificazione che ha creato una disoccupazione di massa e diso­rientamento sociale, ma tutto ciò ha la sua origine anche in una società civile gelatinosa, né formata politicamente, né autore­sponsabilizzata. Nei länder storici della Rft sono invece presen­ti robuste fondazioni culturali che svolgono una rilevante opera di formazione e ricerca nel campo della cultura politica. Non è una caratteristica solo tedesca, anzi si è sviluppata prima ed è presente in altri paesi europei, con fondazioni o vicine ai par­titi, anche se autonome, come in Germania, o espressione delle aree politico culturali della società civile senza rigide separa­zioni di partito, come è in altri paesi.

Infine bisogna dire che, comunque, al di là delle differenzia­zioni tra paese e paese, non è pensabile che la sola scuola possa farsi carico della formazione e della ricerca politico-cuturale. La stessa situazione francese pone problemi di insufficiente svi­luppo della cultura politica diffusa, non è un caso che l'asso­ciazionismo politico-sindacale in Francia si presenta debole e culturalmente arretrato rispetto al livello di sviluppo del pae­se, e infatti almeno una parte dell'associazionismo politico Francese si sta ponendo questo problema. Occorrono strutture cul­turali intermedie tra associazionismo democratico, scuola e l'u­niversità, altrimenti non c'è comunicazione sufficiente; altri­menti il risultato è che emergono forme di separazione tra alta cultura e cultura diffusa, chi opera nell'università si chiude in forme di accademismo elitario e corporativo, mentre l'associazio­nismo democratico rimane a uno stadio di sviluppo primitivo e corporativo.

Un ponte interessante tra università e società civile è costi­tuito in più di un paese dalle strutture della formazione perma­nente collegata all'università, attraverso istituti appositi che organizzano corsi non necessariamente finalizzati al conseguimen­to di una laurea. Così in Gran Bretagna in collaborazione con strutture di formazione espressione del mondo sindacale, si svol­ge, oramai da molto tempo, una parte rilevante della formazione sindacale o all'impegno sociale. In Belgio la struttura francofo­na dell'Università cattolica di Lovanio, oggi a Louvain la Neuve dopo la separazione da quella fiamminga, organizza da tempo un corso di laurea speciale, al quale si accede senza altro titolo che non sia quello di un'esperienza di impegno sociale e politi­co. Mentre un'attività di formazione all'impegno sociale e poli­tico decentrata, fatta di corsi di carattere annuale, è svolta dall'Isco, principale stuttura di formazione del Movimento ope­raio cristiano. Ma l'esempio più rilevante  lo si ritrova certa­mente in Svezia, qui strutture di formazione, sorte soprattutto nell'ambito del movimento operaio e della Chiesa, organizzano in collaborazione con l'associazionismo una quantità per noi stermi­nata di corsi di base e decentrati, mentre gli iscritti agli in­dipendent courses universitari di formazione permanente non fina­lizzati al conseguimento di una laurea, costituiscono ancora og­gi, nonostante il raddoppio degli studenti universitari «ufficia­li» negli ultimi dieci anni, una massa pari al quaranta per cento di questi ultimi, mentre dieci anni fa erano pari al settanta per cento.

In conclusione quel che è certo è che altri paesi europei sono più avanti di noi in questo campo e si può dire che se ne vedono i risultati. Tutto il sistema politico-istituzionale in Europa è sottoposto a rilevanti torsioni per processi in atto da tempo sui quali la politica è in ritardo:  è vero che il fenomeno ha avuto un'acelerazione dalle recenti e brusche evoluzioni nell'est euro­peo, ma anch'esse sono la maturazione di processi storici in atto da lungo tempo. Per il nostro paese vecchi e nuovi problemi si accavallano e se non vi saranno interventi urgenti instabilità e imbarbarimento politico si diffonderanno. Sull'instabilità biso­gna intervenire al più presto con delle riforme istituzionali, ma per il resto sarà difficile far fronte ai problemi senza una cul­tura politica più alta del paese e dell'associazionismo democra­tico. Siamo giunti ad una crisi delle culture politiche tradizio­nali anche perché ben poco si è fatto negli anni passati per far fronte al nuovo. Senza una cultura politica più alta e diffusa non potremo far fronte ai problemi che ci troviamo di fronte, e ciò vale sia per i partiti, come per i sindacati, come per l'as­sociazionismo che si è espanso soprattutto in questi anni e che costituisce un nuovo e importante retroterra democratico.

Non è cioè pensabile che si possa andare avanti con le attuali strutture che si occupano di ricerca e formazione politica. Sono  del tutto insufficienti e artigianali rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro che occorre mettere in campo: occorre un'elaborazione politico-culturale nuova chiamando contemporanea­mente a parteciparvi larghi strati di cittadini. La crisi dei partiti ha la sua base in una mancata innovazione culturale loro, mentre l'insieme dell'associazionismo democratico vecchio e nuovo è anch'esso sostanzialmente impreparato rispetto ai compiti che abbiamo di fronte.

Noi vogliamo a questo scopo chiamare tutti, e in particolare i centri che si occupano di formazione e ricerca politica e socia­le, ad affrontare insieme questi problemi, a prendere iniziative pubbliche volte a farli emergere con chiarezza, nelle forme e nelle modalità che si riterranno più opportune.


Intervista a Giovanni Bianchi, presidente delle Acli.

 

 

 

La crisi istituzionale: un’occasione per intendere il futuro possibile della democrazia

 

Dahrendorf, in un recente discorso fatto per il ritiro del premio Senatore Giovanni Agnelli, dice «d'improvviso, la Lettonia conta più della democrazia». Ovviamente, la Lettonia potrebbe essere sostituita con Lituania, Estonia, Slovenia, Croazia, eccetera; sino, per quel che ci riguarda, con la stessa Lombardia. C'è il problema delle appartenenze, che fa premio anche ideologicamente rispetto alla razionalità liberal-democratica. Questo, in termini generali, mi pare uno dei punti all'interno del quale si muove la crisi. Credo che vi sia da «annusare» un movimento più profondo, che probabilmente attraversa tutta l'Europa, visto il risultato delle elezioni in Catalogna e in Francia. La questione di fondo mi pare sia quella di interrogarsi intorno a cosa vi sia dietro al concetto, alla pratica, alla quotidianità, all'aulicità della # democrazia in Europa in questa fase storica. Rispetto a questo, gli scostamenti elettorali, il crearsi di nuove formazioni, sono a mio giudizio epifenomeni di un processo che occorre porsi nelle condizioni di intendere. E questo mi pare il primo elemento della crisi.

Non molto sottolineato è un secondo elemento: una mancanza di consapevolezza nel riconoscere che la lettura delle stesse forma­zioni partitiche si pone entro una storia di appartenenza che è più grande delle loro strutture, e a maggior ragione delle loro burocrazie. Occorrerebbe un impegno più deciso per ripensare le forme del politico con questo tipo di respiro.

Terzo elemento: siamo in presenza in tutta Europa di una nuova dimensione politica della società civile. La società civile non è il regno della luce opposto a quello delle tenebre rappresentato dai partiti e dalle istituzioni: in nessun paese è all'ordine del giorno una democrazia senza partiti. Questa società civile non è santa, spesso cerca protezione anziché promozione, è attraversata da elementi malavitosi. Tutto questo è vero, ma è anche vero che la società civile è una nuova dimensione politica, non è il pre­politico di cui parlava Padre Bartolomeo Sorge una quindicina di anni fa. E' una dimensione ancor oggi impropriamente posta dietro l'etichetta di trasversalità, che vede invece il più delle volte uno sfarinarsi di vecchi schieramenti e un polarizzarsi di nuovi. Dentro questa dimensione politica della società civile io credo che si giochino le grandi battaglie etiche, non a caso il refe­rendum del 9 giugno, con suoi 27 milioni di voti, è stato vissuto al di là del quesito come luogo dove ricollegare etica e politi­ca. All'interno di questa dimensione si giocano le grandi batta­glie etiche, intorno alla vita, alla libertà dell'educazione, alle grandi battaglie sociali. Sono convinto che il futuro della nostra democrazia e di quelle degli altri paesi industriali avan­zati, dipenda dall'incontro tra due dimensioni: quella più tradi­zionale, partitico-istituzionale, che definirei verticale, e quel-la orizzontale della dimensione politica della società civile, qui vi sono dei movimenti che sono anche luoghi di appartenenza, talora forti, talora deboli. Direi che è uno schema riconducibile ad una temperie tocquevilliana.

Nella società civile in Italia c'è poi un protagonismo nuovo del­l'area cattolica. Dico questo per una serie di ragioni. Innanzi­tutto, vi è un'area cattolica che non è più quella degli anni cinquanta, che si è giustamente lasciata alle spalle il quadrila­tero, le pratiche collaterali, ma continua a stare nel quotidia­no. Questo in parte si inquadra nella tradizione del cattolicesi­mo italiano, che è eminentemente associativo e popolare, a diffe­renza di altri cattolicesimi, come quello francese, fino a ven­t'anni fa più ricco di gruppi teologici e liturgici. Il nostro cattolicesimo è, invece, più caratterizzato da cooperative, casse rurali e artigiane, circoli familiari, e così via. Ma c'è la no­vità che, mentre storicamente il cattolicesimo italiano ha sempre privilegiato la durata del sociale e, rispetto a questo, ha con­siderato il politico un po' effimero e un po' sporco, adesso pro­prio a partire dai mille sentieri dell'associazionismo tradizio­nale, del volontariato, di quanto si muove in questa galassia, questo cattolicesimo eminentemente associativo e popolare ha pro­dotto le scuole di formazione socio-politica. Le leadership poli­tiche, ovviamente, non nascono a scuola, ma sul campo; comunque, non vi è più una diocesi che non abbia almeno una scuola e siamo arrivati alle scuole di formazione socio-politica fatte dalle parrocchie. Tutto questo accade quando, dopo la caduta del muro, le scuole di partito sono diventate macerie.

 

 

La domanda di formazione fra elogio della politica e rifiuto della partitocrazia

 

Mi sembra evidente che vi sia una richiesta di politica. Sono convinto che si debba tornare a fare l'elogio della politica e che il vero impasse è dato dal fatto che è molto difficile fare l'elogio di questi partiti. Siamo in una fase che si inserisce tra due polarità: da una parte, il bisogno di politica, dall'al­tra, il rifiuto della partitocrazia. Quanto si muove soprattutto sul terreno della solidarietà e dell'impegno ha bisogno di poli­tica per dare un senso alle cose che fa. Molto spesso si trovano nelle scuole persone che vengono proprio dal mondo del volonta­riato e che usano le scuole come momento per cogliere il senso politico di quello che già fanno, intuendo che non è possibile agire soltanto per porre rimedio, ma che la politica si deve in­tendere come ricerca delle cause dei mali e, quindi, occorre an­dare alle fondamenta della città dell'uomo. La domanda di fondo della gente che frequenta questo tipo di esperienze è proprio questa. Io vedo in questo, per quanto riguarda l'area cattolica, per quanto riguarda l'impegno sociale, la via che ha aperto ad una nuova domanda di politica e, quindi, di formazione alla poli­tica.

Di fronte a questa domanda stanno i partiti, presi in una grave contraddizione: cogliere l'esigenza di una trasformazione e rin­novamento, ma allo stesso tempo non riuscire a praticarla. Questo accade perché ogni classe dirigente non governa contro se stessa. C'è un atteggiamento di governabilità in senso spartitorio, di governabilità nel senso della divisione delle spoglie e delle eredità all'interno di un ceto, il quale capisce che le cose van­no cambiate, ma non è in grado di recuperare quell'agonismo senza il quale una democrazia non vive, entro il quale si esprime vo­glia di ricambio, anche con procedure crudeli. Chi sta dentro le procedure dei partiti vede  questo fatto nell'ottica di una nomenclatura. Questo confligge con il bisogno fisiologico che si muove nel civile. Possiamo vedere che i partiti italiani hanno tutti messo all'ordine del giorno la propria autoriforma e hanno tutti dovuto poi riconoscere di non averla fatta. E' proprio a seguito di questo ragionamento che la nostra associazione si è messa nei referendum: il referendum non è la riforma della poli­tica, ma è diventato il passo decisivo in questa fase storica, perché tutti gli ottativi prodotti autonomamente dai partiti si sono scontrati con un'impraticabilità di fatto o con una non vo­luta praticabilità. Credo che questo sia il punto dell'impasse nella quale ci troviamo: è un problema di ricambio, un problema di ossificazione, di  burocratizzazione di una certa democrazia, quindi è un tempo di epiloghi di alcune storie. La caduta del muro coinvolge anche noi nella crisi di un'etica popolare. Il vecchio mondo è caduto sia per chi si è trovato dalla parte di chi ha perso, ma anche dalla parte di chi ha vinto. Non è la stessa cosa essersi collocati su un fronte o sull'altro, ma tutto questo implica la crisi per entrambi di un'etica popolare.

 

 

 

Il pericolo di una democrazia senza etica popolare: la riduzione a procedura

 

Il rischio che si affaccia dietro a questa crisi etico-politica, presente non solo in Italia, è la riduzione della democrazia a procedura. Fino ad ora, le democrazie, e quindi i partiti, che sono stati e sono sono ancora per molti versi partiti popolari, sono stati all'interno di quel circolo virtuoso grazie al quale il progresso sociale si  accompagnava a un allargamento agli spa­zi di democrazia. Il rischio è che, persa la sostanza etica, la democrazia e la vita partitica vengano ridotte a procedura, ven­gano utilizzate per tener fuori le aree dell'emarginazione dal sistema e gli incomodi dalla pratica del partito. Ovviamente, su questa si incanalano altre pratiche per cui credo che si possa dire che nel business partitico c'è gente che ha investito in tessere come si investe in Bot. Questi sono certamente i fenomeni più eclatanti, dietro ai quali vi è un modello che, se va avanti così, rischia di mostrarsi meno plastico di quanto aveva previsto il costituente, e con democrazie ridotte a procedura, quindi, con democrazie dell'indifferenza che vedono aumentare contemporanea­mente la disaffezione e la protesta, in forme molto simile alla jacquerie,  molto ideologiche peraltro. Basti pensare ad esempio all'idea di territorio che ha la Lega lombarda.

Bisogna per affrontare questi problemi storicizzare, le ricette in sè sono sempre buone, però dipende dalla malattia: possono far guarire , ma anche aggravare il malessere. Inoltre occorre consi­derare le difficoltà di questa fase particolare come occasione opportuna per pensare in senso politico. Non abbiamo più testi, ma questa può essere una condizione felice se è vero che oggi è meglio leggere gli uomini piuttosto che i libri: siamo costretti a metter mano al fasciame della barca in mare aperto, non ci sono porti in cui ritornare, questo è l'atteggiamento avventuroso den­tro il quale passa la democrazia. Altro elemento importante è che non credo che si possa dare autoriforma per questi partiti ita­liani, stando così le regole. Siccome sono interessato all'auto­riforma dei partiti, cerco di cambiare le regole. Non c'è nessuna visone taumaturgica o assolutizzante delle regole. Le riforme istituzionali ed elettorali non sono la riforma della politica, ma, stando così le cose, rappresentano il passo decisivo per la riforma della politica. Con la convinzione che, mutando alcune regole, anche gli attori cambino. Per questo anche il referendum, con l'avvertenza però che esso non venga partitizzato. Il refe­rendum deve vedere, in ordine al cambiamento delle regole, forze che poi faranno bene a separarsi e contrapporsi. Un partito che vedesse assieme Segni, Occhetto, La Malfa, sarebbe un pasticcio anche peggiore dell'accordo, se c'è, Craxi-Forlani. Proprio per­ché si è partecipato insieme al referendum, occorrerà distinguer­si. Il referendum non è un fatto partitizzabile, ma questo non vuole neanche dire che il referendum sia laterale. Questa demo­crazia deve imparare la distinzione e la fusione. Imparare il senso della distinzione in politica, quindi l'assumersi diverse responsabilità in diverse dimensioni, e poi imparare a costruire ponti tra le diverse dimensioni. Siamo in una laguna dove le acque corrono disordinatamente e il risultato è la fangosità del terreno politico. Dietro a tutto questo c'è una carica simbolica, a volte sottodimensionata talora eccessiva, ma il simbolico è uno di quegli elementi senza i quali la gente non può stare: se non lo trovano da una parte, lo vanno a cercare da un'altra, persino in surrogati. Se non avremo leadership autentiche, avremo i nuovi sciamani, quelli che Croce chiamava i grandi semplificatori, nel­le fasi di trapasso non si può stare senza leadership, in questo sono molto weberiano.

Come far crescere il tasso di popolarità di questa democrazia? Non è scritto da nessuna parte che ciò avvenga, occorre lavorar­ci. Credo che nel nostro paese vi siano le condizioni, per la sua storia, perché c'è un mondo cattolico che in questo momento è l'area più popolare del paese, per tutta una serie di condizioni, non ne sto facendo il panegirico. E' una convinzione che nasce anche da un credo personale: che si dia soltanto democrazia popo­lare. La democrazia senza demos, mutuata da Luhmann, può risul­tare equivoca nella pratica politica, anche se la teoria dei si­stemi è da studiare e può risultare utile. E anche dentro il po­polare troviamo tutta una serie di gradazioni: era indubbiamente popolare la Democrazia cristiana di De Gasperi; era indubbiamente popolare il partito gollista di De Gaulle; era indubbiamente po­lare il peronismo con Peron; ma si tratta ovviamente di cose com­pletamente diverse.

 

 

Frontiere della democrazia: riforma dei partiti e formazione politica

 

C'è poi il problema del rapporto tra etica e politica, tra voca­zioni e competenze; credo che compito della politica, anche in questo contesto, sia quello di istituire dei ponti. Se vi è la presenza della vocazione nuda come tale, abbiamo dei grandi pre­dicatori. Ma resta il fatto che, e qui concordo con Croce, la prima moralità del politico sia saper fare politica. E' il pro­blema dell'utimo Lazzati: «non sappiamo niente di economia mentre va costruita la città dell'uomo». La formazione in questo senso potrebbe essere il luogo dove si acquisiscono competenze, le si confrontano con la propria vocazione, misurando il tasso della propria esperienza. Si tratta però sempre di un equilibrio insta­bile tra le due cose. Questo rapporto è sempre un ponte, ma è anche una contraddizione, che devi continuamente attraversare, sapendo che esiste. Nella misura in cui si sa che esiste questa contraddizione, ci si pone su una strada di ricerca che è, nello stesso tempo, di competenza e di moralità. Se invece il problema si tenta di risolverlo su uno dei due poli, lo si uccide: o nel cinismo o nella predica. Compito della formazione è quello di muoversi imparando a praticare la distinzione. Questo manca nella politica odierna.

Dal punto di vista operativo io cercherei di studiare l'esisten­te, non dar torto ai fatti, anche se è un'espressione togliattia­na, mi sembra un buon atteggiamento. Le scuole di formazione po­litica che già esistono, da chi sono frequentate? Quali sono le domande? Eccetera. C'è poi tutta l'area dell'impegno: quali sono qui le attività formative e i bisogni. Ci sono poi i giovani stu­denti, che ho personalmente constatato più volte essere attivi e partecipi alle problematiche odierne. Sono queste le aree su cui dobbiamo lavorare. Ci sarà da inventare anche un rapporto tra le forme partito e l'associazionismo, i partiti vedono giusto quando cercano questo rapporto, lo ha fatto il Pds e lo ha messo all'or­dine del giorno la Dc alla conferenza di Assago, perché i partiti si rendono conto di rischiare, altrimenti, di avere soltanto dei terminali clientelari, piuttosto che dei terminali popolari. Si potrà parlare di questo rapporto, quando però questo polo del mondo associativo sarà abbastanza robusto, altrimenti verrà fago­citato, non per cattiva volontà, ma dalla pervicacia delle proce­dure.

Per quanto riguarda i contenuti di questa formazione, credo che si debba fare un grosso recupero della storia: come si fa a stare in Europa senza aver letto Braudel? Questo anche per la labilità delle scienze economiche in una fase come questa, per un certo depotenziamento delle sociologie e, per altro verso, per una cer­ta ripresa delle teologie, quanti testi su teologia e storia stanno emergendo. Chi sta scrivendo di Europa: non i nostri poli­tici, ma il cardinale Ratzinger, Giuseppe Angelini, e così via. Andrei sulle tracce di un pensiero forte, da Hobbes a Spinoza. Con un'attenzione però, avendo cioè anche un po' di cura per la pedagogia e per gli aspetti pedagogico-pratici, molte volte può essere più importante come e dove porgi le cose, che i contenuti stessi. Credo, invece, che noi abbiamo un pregiudizio contenuti­stico per cui rispetto alla serietà dei contenuti, le pedagogie e la strumentazione per l'attenzione pensiamo debbano seguire ine­vitabilmente come le salmerie; non è assolutamente detto.

L'esito della modernizzazione dell'Occidente è questa specie di inglese esperantico sulla tèkne, questo non basta più, così le democrazie si riducono a procedura. Avremo la forza di recupera­re? Penso di si, ma non si recupera con l'omelia; per questo dico che la prima moralità del politico è saper fare politica.

Per quanto poi riguarda le scuole di formazione, non credo sia possibile trovare un vademecum pedagogico a tavolino. Occorre, invece, trovare nei percorsi di queste scuole dei momenti oasi in cui riflettere anche su queste cose. Bisogna partire dalle risor­se umane e dalle esperienze fatte. Credo che si debba recuperare l'atteggiamento dei mistici, dei medioevali, che meditavano lungo la strada. Il lavoro formativo non è una definizione, ma è un atteggiamento che ha bisogno di soggetti, di percorsi differen­ziati e di ricerca, di momenti di formazione per i formatori stessi. Soprattutto nell'area cattolica, c'è un vizio pararoman­tico, che è quello di saper motivare moltissimo e al cospetto di tanta motivazione c'è però l'incapacità di non saper trovare dei sentieri di lavoro, soprattutto dei sentieri che non siano inter­rotti. Questo, come ritorno, dà il disincanto oppure offre la spinta per vie di fuga che sono alienanti.


Roberto d’Alessio (responsabile nazionale formazione capi) e

Agostino  Migone (capo-scout nazionale) dell'Agesci.

 

 

 

Una crisi al buio: le difficoltà ad orientare la riflessione educativa sul politico

 

Di fronte alla crisi della politica noi stiamo rischiando, come scoutismo, di assorbire dei fenomeni senza una riflessione cultu­rale che ci aiuti a capirli, di essa abbiamo bisogno almeno come tentativo per orientarci. A volte ci riusciamo, a volte meno e rimaniamo così prigionieri di questi fenomeni. Le difficoltà a gestire questa situazione sono dovute al fatto che non si tratta solo di una crisi delle regole del gioco, ma più in generale di una difficoltà del politico a collegarsi con la società civile. Noi avvertiamo in maniera tangibile questo fatto proprio perché lavoriamo con i ragazzi.

Ad esempio, sotto le elezioni, i gruppi dei più grandi hanno par­tecipato agli incontri organizzati dai partiti, o addirittura, in certe occasioni, hanno organizzato tavole rotonde tra i rappre­sentanti locali. I ragazzi in genere sono tornati a casa mostran­do tutta la loro perplessità, ritenendo che i politici  parlano un'altra lingua, che non affrontano i loro reali problemi. Questi giovani preparano delle domande specifiche, basate su una cono­scenza della politica che magari è un po' approssimativa, ma non trovano delle risposte adeguate da parte dei politici, perché la logica di questi ultimi si muove sostanzialmente su altri piani: quelli delle regole del gioco politico, o, peggio ancora, della spartizione.

I partiti non sono in grado di fare la mediazione, di capire e di far capire perché per risolvere i problemi del paese bisogna an­che risolvere le questioni istituzionali. Non sono in grado nem­meno di dare risposte di lettura complessiva ai problemi che le persone, in questo caso i giovani, vivono; i ragazzi constatano lo scollamento del linguaggio, l'incapacità di intervento e la lettura inadeguata. Di fronte a queste incapacità, ci manifestano la loro perplessità e faticano a capire i nostri inviti a parte­cipare direttamente alla vita politica del paese.

 

 

Sensibilità socio-politica nella realtà dell'Agesci

 

Nella nostra associazione è dalla formazione ordinaria che cresce

tutta una sfida per rispondere a questi bisogni emergenti; si po­ne attenzione alle forme in cui si manifestano i bisogni educati­vi e si cerca di dare ad essi delle risposte che abbiano una cer­ta rilevanza sociale, così da porre in atto gesti che di per sè abbiano già un significato politico, in termini generali. Il trapasso di esperienze nell'attività educativa sul campo è già formazione, specialmente in quel momento della struttura costituito dalla comunità dei capi, degli adulti del gruppo; in essa avvengono i dibattiti metodologici, educativi, pedagogici, culturali e politici. Oltre a questa formazione a carattere spontaneo e connaturata all'esperienza c'è poi una formazione istituzionale che consente di arrivare ad acquisire, anche dal punto di vista giuridico, la nomina di capoeducatore, riconosciuta anche a livello internazionale di movimento scout. Questa formazione istituzionale si compie nell'arco di due o tre anni, ed è costituita da due momenti di campo scuola intervallati da un periodo di tirocinio, cioè di servizio educativo guidato. Vi è poi la formazione permanente di aggiornamento, senza però prevedere per questa momenti strutturati specifici. Si tratta di occasioni di formazione, o ai diversi ruoli di servizio o alla specifica competenza metodologica per un certo livello di età, oppure una formazione più di tipo etico-politico. Vengono cioè affrontate singole tematiche in momenti occasionali o in seminari rivolti a tutti i capi.

Entro questi diversi livelli di esperienza crescono come due ani­me. La prima parte da una componente fondamentale dello scoutismo stesso: chi diventa educatore volontario è necessariamente anche un buon cittadino, egli si pone così come obiettivo implicito dell'esperienza quello di contribuire alla crescita di una perso­na che sia in grado di dare un servizio reale alla comunità civi­le. Questo è proprio dello scoutismo e porta la persona a saper leggere e calare la propria specificità di intervento educativo all'interno dei problemi della società, così come si presentano. C'è una seconda anima che preferisce, in situazione educativa, dare eminentemente una risposta tecnica, di ambito prevalentemen­te pedagogico, e che si fa forte di una metodologia ben struttu­rata, in genere abbastanza indipendente dalle diverse condizioni in cui si esprime la domanda educativa. Queste due anime si in­trecciano: la prima è un'anima più attenta a vedere nella sua complessità la domanda educativa inserita e articolata anche con altri tipi di intervento. Essa vede dietro l'intervento dello scoutismo, la necessità di una riflessione culturale più ampia sulle congiunture ecclesiali, politiche, sociali del paese. La seconda è più sganciata e autonoma. Direi che l'attenzione del­l'Agesci in quest'ultimo periodo si è più rivolta al primo filone.

La riprova è che questo tipo di cammino e lo svilupparsi di que­st'anima sociale in alcuni casi è sfociato in aree di impegno e di esperienza politica: c'è lo scout che diventa amministratore locale; c'è lo scout che si impegna a livelli politici anche i­deologicamente più caratterizzati. Come conseguenza questo ha in­nescato un forte dibattito associativo tuttora in corso  per sta­bilire a quale livello di quadri possa essere favorito un impegno politico preciso e se questo debba coincidere con la fine del servizio nell'associazione. In altri casi questo cammino sfocia essenzialmente nel sociale.

In questo senso, rispetto anche alla crisi politica attuale, c'è un'ambivalenza nello scoutismo: da un lato, lo scoutismo continua a lanciare un certo tipo di messaggi, che sono sostanzialmente messaggi di impegno anche nella società civile; dall'altro lato, in un momento di crisi come quello attuale, questo può anche non essere più sufficiente. C'è molta ambivalenza, ma l'espressione autentica dello scoutismo è di un movimento che, rispetto alla società civile, è in grado di assorbire quanto avviene tanto da condurre alla sua comprensione. Noi abbiamo assorbito molto bene la stagione politica degli anni settanta. Non c'è stato l'insor­gere di fenomeni di crisi all'interno dell'associazione, piutto­sto si è assorbito quella particolare stagione e si è cercato di leggere in maniera più politicizzata, in senso forte, tutta l'a­zione che già si faceva. Probabilmente questo processo di assor­bimento e di riconsiderazione dell'attuale situazione sociale e politica è quanto avviene ancora oggi nell'associazione.

E certamente di fronte a questi processi è diventato necessario pensare ad una strada per la formazione politica; da un punto di vista concettuale, è una delle scelte fondamentali che deve se­guire all'attività educativa più consueta. Si tratta di un pro­cesso che può autoalimentare una formazione corretta al senso dello stato e delle istituzioni, determinando la possibilità di uno stimolo ulteriore per la gente a impegnarsi, a capire le co­se, a comprendere che le stesse riforme non possono essere cosa arbitraria, ma l'evoluzione della struttura reale oggi in funzio­ne, che va conosciuta per poterla far funzionare meglio. Il pro­blema è riuscire a intuire come si possa fare operativamente.

 

 

La formazione socio politica, luogo di scambio fra valori ed esperienza

 

Sei anni fa abbiamo fatto il progetto unitario di catechesi, cioè abbiamo cercato di progettarci politicamente rispetto alla dimen­sione ecclesiale, di far emergere la specificità di una proposta anche a livello ecclesiale. Adesso incominciamo ad intravvedere lo stesso discorso anche al livello del sociale e del politico. Si tratta, in sostanza, di fare politica attraverso l'educazione, a partire da alcuni interrogativi di fondo: qual è la filosofia non solo dell'uomo, ma anche dei rapporti tra gli uomini, della società? Come far emergere un nostro contributo alla costruzione della società e delle regole del gioco della politica? Questa è la spinta che sottende il progetto a cui stiamo pensando.

Personalmente, vedrei come possibile anzitutto un'iniziativa a livello dei quadri. Nel settore formazione capi, ci sono ogni anno sessanta campi scuola nazionali e centoventi nelle regioni; ci sono circa trecento capi campo che fanno scuola agli altri. Queste trecento persone si sono formate nello scoutismo, vengono riconosciute come autorevoli per la loro esperienza, ma non sono state formate in maniera particolare dal punto di vista della cultura politica. Probabilmente occorrerebbe arricchire il loro messaggio rispetto all'impegno politico, alla formazione politica o alla lettura dei fenomeni politici. Abbiamo circa tremila capi, i quali per un paio di settimane all'anno fanno formazione. E' nostra convinzione che essi non possano essere orientati esclusi­vamente alla formazione metodologica, cioè solo ad un discorso di pedagogia e di strumenti.

Dovrebbe essere una proposta di formazione politica che, in linea con lo stile della proposta scout, unisca quel tipo di cultura politica che insiste molto sui valori, e quella che invece insi­ste di più sugli aspetti di tipo tecnico, sul sapere politico, sulla conoscenza delle regole. In generale, pensiamo ad un'unione di questi due diversi tipi di attenzione, che è l'obiettivo della cultura scout. Di certo il discorso tecnico è essenziale per i quadri  che necessitano di un sapere politico, cioè di un aiuto a leggere la politica in relazione a quanto accade in termini di regole e di cose in gioco, anche perché è nostra convinzione che confrontarsi sui valori può rischiare anche di essere una ricon­ferma delle proprie scelte di schieramento, oppure si rischia di fare degli ideologismi, dei discorsi vuoti. Penso ad una forma­zione costruita su ipotesi di scambio:  cioè trovare un modo gra­zie al quale provenienze diverse trovano un terreno dove leggere i valori, che si traducano poi in esperienze concrete, in ipotesi di lavoro, nel nostro caso in ipotesi pedagogiche, in lavoro edu­cativo.

Noi come associazione facciamo anche educazione civica; i proble­mi maggiormente discussi sono quelli di carattere civico-ammini­strativo, che rientrano in un profilo educativo ben preciso. Chi passa attraverso la scuola dello scoutismo acquisisce senza dub­bio la consapevolezza di come sono articolate la società civile e la società politica.  Ci sono poi temi più specifici, molto vici­ni però all'educazione scout: il tema dell'internazionalismo, dell'attualità politica. Vi sono altre iniziative di sensibiliz­zazione politica, quali l'operazione Salam per la Palestina per l'affido a distanza di bambini palestinesi. Altre iniziative di tipo politico possono riguardare i problemi ambientali.

Resta comunque un grosso paradosso il fatto che un ragazzo di tredici/quattordici anni debba conoscere l'organizzazione sociale o istituzionale del proprio paese attraverso la vita associativa, che lo impegna tre volte al mese, e non attraverso la scuola che lo impegna quotidianamente. Il problema è che si dovrebbe fare formazione alla politica nella scuola e non nonostante la scuola. Il distacco tra istituzioni e società civile è infatti anche un distacco tra l'istituzione scuola e la formazione degli insegnan­ti. Far entrare nella scuola un determinato problema che si vive nella società, oppure per farvi entrare una persona che non ap­partenga al corpo istituzionale, è ancora oggi troppo difficile. Anzi, direi che da questo punto di vista siamo tornati indietro rispetto alla situazione di alcuni anni fa. La scuola ci sembra un'occasione persa e non sappiamo quanto difficilmente recupera­bile, anche perché il difetto principale è proprio nella forma­zione degli insegnanti, sia sul piano socio-politico, di una sen­sibilità specifica, sia e soprattutto sul piano professionale: è, cioè, molto difficile trovare degli insegnanti che vivano la loro professione non come mestiere, bensì come vocazione. Se  si rie­sce a portare qualcosa nell'istituzione scuola è grazie alla sen­sibilità di singoli insegnanti, alla loro formazione personale, del tutto al di fuori da qualsiasi progettualità delle istituzio­ni; tutto è affidato alla buona volontà e alla capacità di im­provvisazione dei singoli.

In relazione a tutti questi problemi, già da qualche anno, come associazione stiamo pensando di costituire un centro studio e ricerche. L'idea è legata all'esigenza di fornire una riflessione culturale sistematica, ma nasce anche ad un'esigenza molto prati­ca: abbiamo un patrimonio di documentazione, sia sulla storia dello scoutismo in Italia e all'estero, sia in materia pedagogi­ca, che si vuole organizzare un po' meglio. Si vuole, innanzitut­to, dare un supporto tecnico-scientifico un po' più consistente ai nostri capi che, essendo volontari e fruendo di una formazione non continuativa e che si concentra in tempi abbastanza brevi, potrebbero così avere un aiuto, soprattutto a livello locale, di zona e regionale; inoltre le decisioni politiche assunte a livel­lo centrale potrebbero così riposare su un'analisi circostanziata di ciò che è stato fatto. Bisogna anche ricordare una serie di iniziative collaterali dello scautismo, attraverso vari centri studi locali, biblioteche, archivi personali. Il centro quindi da un lato ci permetterebbe di coordinare queste iniziative, e dal­l'altro potrebbe essere un veicolo che ci consentirebbe di dialo­gare di più con il mondo scientifico dell'educazione.

Questa è l'idea, che comunque comporta difficoltà tanto di carat­tere finanziario, quanto di carattere operativo. Credo che la strada migliore da seguire sia quella dei finanziamenti indiret­ti. Il finanziamento privato è dato dai contributi dei soci, men­tre per quanto riguarda altre possibili fonti di finanziamento privato, stiamo molto attenti, c'è tra di noi una forte opinione negativa sull'accettarlo. Così in genere non andiamo, a cercare il finanziamento pubblico, anche per nostre attività di formazio­ne o di prevenzione a livello giovanile. In alcune regioni, gli scout hanno finanziamenti di questo tipo, però si tratta di somme non particolarmente elevate e, comunque, non particolarmente ri­cercate. Ci stiamo però ponendo il problema, perché il tipo di progetto che abbiamo in mente non è certamente realizzabile con contributi, risorse individuali. La tendenza è comunque quella di privilegiare il finanziamento indiretto e di guardare con qualche sospetto il finanziamento diretto da parte di enti o di fondazioni.


Nuccio Iovene, Arci.

 

 

 

La crisi: un problema di regole, di egemonia e di riconoscimento delle nuove soggettività sociopolitiche

 

Dal nostro punto d'osservazione come associazione collo­cata dentro la società civile, mi pare che uno degli elementi fonda­mentali della crisi stia nei rapporti fra cittadini, stato e par­titi; è una crisi della rappresentanza che pone la necessità di ricostruire il circuito del consenso che è diventato perverso. Trasformandolo in un circuito virtuoso: questo può essere uno dei ruoli che noi tentiamo di assolvere.

In questo senso non è assolutamente fuori luogo parlare di mo­di­fiche costituzionali: all'interno della nostra associazione non ci sono persone particolarmente affezionate a mantenere le cose così come stanno. Ovviamente c'è un giudizio positivo sul ruolo che la Costituzione ha avuto nella costruzione dello stato demo­cratico nel nostro paese, ma proprio i problemi emersi e che sono sfociati nello sviluppo di un circuito vizioso, pongono la ne­cessità di un riconoscimento delle soggettività politiche nuove sorte in questi anni. Ad esempio, nell'articolo 49 la direzione politica del paese è sostanzialmente definita come monopolio dei partiti. Questo potrebbe essere uno degli elementi soggetti a modifica, nel senso che  piena dignità politica oramai l'hanno non solo i partiti ma anche altri soggetti, mentre la Costituzio­ne delinea ruoli di  serie a e di serie b. Nel ricostruire il meccanismo della rappresentanza, probabilmente, uno dei passaggi sta nel superamento di questi ruoli: partiti e associazioni della società civile si muovono con ruoli diversi, ma certamente queste ultime tendono  determinare nuovi meccanismi di rappresen­tanza e nuovi canali di partecipazione e di consenso.

Noi siamo stati dentro il movimento per i referendum elettorali pur non condividendo alla lettera tutte le soluzioni propugnate da gran parte dei promotori, siamo convinti che in realtà la di­scussione era ed è molto più aperta: che nel nostro paese l'attu­ale sistema non ga­rantisca più la corrispondenza tra la volontà degli elettori e le maggioranze di governo, è un dato ormai evi­dentissimo; è uno dei punti su cui è andata in crisi la rappre­sentanza, sia in relazio­ne alle maggioranze sia in relazione alle opposizioni, dal momen­to che il voto è svincolato dal mandato che concretamente si assume. Per questo noi sul terreno elettorale e sul terreno delle altre riforme istituzionali, assolutamente pen­siamo che occorra inter­venire e fare dei passi in avanti.

Ma la vera posta in gioco e su cui noi puntiamo, è in direzione di un allargamento delle basi democratiche: ci rendiamo conto che è in atto nella società italiana un confronto, tra chi a questa crisi vuol rispondere con una fuoriuscita che in qualche modo riduca gli spazi della democrazia, con lo spostamento e lo svuo­tamento dei luoghi di decisione, e chi invece  a questa crisi vuole rispondere al­largando la pluralità dei soggetti in campo, la capacità di con­trollo democratico, le possibilità di interven­to sulle questioni in discussione.

Sono sicuramente problemi rilevanti, c'è la possibilità che tutto questo conduca ad uno sfrangiamento della rappresentanza politi­ca, ma questo può essere contrastato mediante la capacità di ege­monia di alcuni soggetti, di alcune forze che rispetto ai pro­grammi possono aggregare. Va però sottolineato che questo non può essere frutto dei soli meccanismi elettorali modificati, ma de­v'essere innanzitutto o prevalentemente frutto di lavoro e ca­pa­cità reale di egemonia politica e culturale.

Oggi ci sono soggetti che non vedono assolutamente rappresenta­te le loro esigenze, i loro interessi, i loro bisogni, e questo è preoccupante; l'unica risposta che essi sanno trovare stante que­sto sistema e queste regole del gioco è quella di trasformarsi in partito. E' interessante l'esempio dei verdi, o dei cacciatori piuttosto che delle casalinghe, o delle mille liste civiche che qua e là sorgono: nascono dalla suggestione che per ogni gruppo organizzato della società, più o meno corporativo, ci sia comun­que lo sbocco nelle assemblee elettive, in realtà così si deter­mina un imbuto elettorale. Se questi soggetti non trovano un modo di contare, di far contare gli interessi, i bisogni, le esigenze che rappresentano attraverso un'altra forma, questo processo di sfrangiamento è indubbiamente inevitabile.

In sintesi potremmo dire che da un lato c'è un problema di re­gole elettorali, da un altro lato un problema di egemonia politi­co-culturale, e da un altro lato ancora il problema del ricono­sci­mento necessario di un pluralismo di soggetti che abbiano la  pos­sibilità di avere capacità di intervento, informazione, ini­ziati­va tali da non dover necessariamente ricorrere alla rappre­sentan­za elettorale diretta. Per fare un esempio: se io sono un soggetto col­lettivo in grado di raccogliere le firme per una leg­ge di inizia­tiva popolare, e avere garantito l'iter e il  percor­so di questa legge,  forse non sento il bisogno di stare in par­lamento piuttosto che in consiglio comunale, per presentare una delibe­ra o una legge sulle questioni che mi interessano; percor­rerò questa strada se so che può avere degli esiti. Così come se rispetto alla questione che mi interessa posso essere in grado di interpellare direttamente il governo, piuttosto che il sindaco, e ottenere informazioni e risposte sul problema che è di mia compe­tenza, in quanto  rappresento degli interessi collettivi, forse non ho bisogno di ricorrere ad una presenza o ad un inse­diamento istituzionale attraverso un parlamentare o un consiglie­re.

 

 

 

La centralità della cultura  nella costituzione del soggetto politico

 

A ben vedere stupisce che nel dibattito sui nuovi sog­getti o sulla necessità di riforme elettorali, permanga una tra­scuratezza sugli strumenti che servono  a questi nuovi  soggetti. Non c'è solo il problema di scrivere nella carta costituzionale che ci può essere una qualche corsia particolare per i soggetti sociali, ma anche di affrontare una riflessione, relativa anche di stru­menti, sul come si costruisce un soggetto politico, tra i quali a mio avviso, uno degli elementi qualificanti è  la sua cultura politi­ca. Ciò che dovrebbe distinguere un partito politico nella vita associativa, non è spesso la maniera in cui si fanno le riu­nioni, la maniera in cui si partecipa; le forme organizzative sono molto simili tra parti­to, sindacato o altri tipi di associa­zioni, ma ciò che distingue un partito politico da queste, tutto sommato, è il fatto che, al di là del rapporto con le istituzio­ni, un partito politico ha una visione di insieme della realtà, della polis, della città del­l'uomo, un progetto d'insieme nel quale agire. Questo ovviamente nel migliore dei casi. Comunque un progetto siffatto un partito dovrebbe averlo; di certo la crisi dei partiti politici è connes­sa anche a questa incapacità di fo­rmulare un progetto. In questo senso l'elemento cultura politica è un ele­mento determinante di qualsiasi soggetto politico al di là delle forme, o dei canali istituziona­li.

Una riforma istituzionale può comunque aiutare a mettere assie­me dei soggetti che si stanno sfrangiando, ma il più autentico lavo­ro dovrebbe andare nel senso di un grande sforzo culturale. Oc­corre far crescere questa consapevolezza, che ad esempio io vedo essere presente nell'Arci e credo anche fuori, ma a partire dalla quale occorre fare qualche puntualizzazione: va tenuto pre­sente che la necessità del partito progetto e di una cultura po­litica forte, va calata nella realtà e nella storia italiana dove vi sono stati e vi sono alcuni sedimenti concreti; cioè una serie di formazioni politiche che per come sono radicate in alcune aree del paese non detengono la loro adesione sulla base di un proget­to, di una cultura politica forte, ma sulla base di una logica di scambio precisa. E questo è uno degli elementi che secondo me sta alla base dell'attuale forza da un lato e crisi dall'altro, dei partiti: in questi anni la forma partito ha perso la cultura del progetto. In secondo luogo, rispetto al bisogno di una cultura politica,  penso che il problema nell'insieme delle forze politi­che non sia avvertito allo stesso modo: per esempio i cattolici, a mio parere, hanno ben altra consapevolezza di questa vicenda rispetto all'area della sinistra, per non parlare del mondo lai­co, an­che se poi c'è da vedere come questa riflessione del mondo cat­tolico incide sulla Democrazia cristiana e sui percorsi della Dc in quanto partito politico. Anche se questa consapevolezza c'è, questo non è un dato assoluto, perché c'è anche un parte di società che non solo non avverte questa consapevolezza, ma crede che il vero orizzonte, l'unico orizzonte possibile, sia quello della somma degli interessi individuali da corrispondere nell'im­mediato; que­sto, secondo queste forze, sarebbe il massimo pro­gramma possibile che ci si possa dare.

 

 

 

La formazione: una semina per la stagione nuova

 

Occorre un nuovo impegno nello sviluppo della cultura politica, soprattutto per l'associazionismo. Le associazioni storiche ave­vano risolto il problema in maniera diversa, perché avevano affi­dato la loro formazione  all'esterno da sè. E'in un processo di autonomia che si determinano poi i bisogni, e da questo punto di vista noi oggi siamo in una fase costituente, nella quale si pone un problema di riflessione, di crescita culturale che è propor­zionata poi ai mezzi, alle strutture, di soggetti nuovi, ma debo­lissimi da tutti i punti di vista, che hanno quindi la necessità di inventarsi strumenti e percorsi.

Diciamo che è un campo tutto da coltivare, nel quale stanno av­venendo delle cose. Penso all'esperienza della Convenzione del­l'associazionismo degli ultimi tre anni, al fatto che una serie di associazioni (sette le promotrici, centocinquanta le aderen­ti), abbiano sentito il bisogno di mettersi insieme e di fare una sorta di carta costituente della realtà associativa  in Italia. E' un fatto nuovissimo, che testimonia di questo passaggio asso­lutamente fondamentale nella presa di coscienza di questa autono­mia, che si determina rispetto ai mondi chiusi nei quali si lavo­rava e si viveva nel passato; cosa produrrà questo processo sia nei percorsi delle singole associazioni, sia nei loro rapporti, io credo che sia assolutamente fondamentale e per certi versi imprevedibile. Insomma un qualche senso ce l'avrà il fatto che con Comunione e liberazione il nos­tro mondo per tantissimo tempo non ha parlato, anzi lo scontro era acutissimo, mentre adesso dalla questione della pace nel Go­lfo a altre questioni c'è la possibilità di un incontro o addi­rittura di cose da farsi in co­mune. Insomma il problema si sta tentando di affrontarlo, siamo distanti anni luce rispetto ai bisogni e alle necessità, ma non si può non vedere nella produ­zione culturale, nelle iniziative che si fanno, nelle rarissime ma preziose occasioni di riflessio­ne che si mettono in campo, la semina di una stagione nuova.

Il processo in atto è verso la creazione di una pluralità di strumenti: più la società si articola e i soggetti si articolano, più gli strumenti di formazione della cultura politica e dei qua­dri dirigenti di questi soggetti si deve articolare.

L'esempio che facevo prima sulla convenzione è interessante anche da questo  punto di vista: cioè per la prima volta si indi­vidua una sede, un luogo che è completamente diverso rispetto a quelli tradizionali, in cui soggetti che partono da storie  di­verse e hanno percorsi diversi, si incontrano sulla necessità di costruire una cultura politica che abbia degli elementi in comu­ne, avvertono la sensazione che c'è una parte comune che si è determinata nei fatti, che abbisogna anche di una sua definizione culturale e politica ulteriore,

Questo avviene attraverso istituti di ricerca, centri studi, mo­menti di riflessione collettiva diversi. Riferendoci ad esempio all'esperienza del mondo cattolico, le centosessanta scuole di formazione all'impegno sociale e politico sono sedi dalle quali poi prendono avvio esperienze e iniziative che valgono per mondi diversi, da queste scuole escono fuori Leoluca Orlando e molti della Rete o quelli del Movi o quelli della Democrazia cri­stiana.

Questo processo non può cioè essere definito a tavolino, la cre­scita di una consapevolezza rispetto a questi problemi  può avve­nire nel momento in cui si mettono in moto dei meccanismi inter­ni ed esterni sempre più ampi. L'incontrarsi e l'incrociarsi di diverse esperienze moltiplica a cascata le esigenze, i bisogni e quindi anche l'individuazione dei luoghi, l'apertura di una do­manda non fa che aumentare questa domanda: dalle piccolissime cose fatte da noi questo registro. Fin quando non si sono fatti determinati lavori, determinate riflessini ed approfondimenti, nessuno ha chiesto che si facessero, quando si sono avvia­ti la gente non solo ha chiesto che venissero continua­ti, ma anche dove si poteva trovare il materiale, le informazioni relative alle questioni sollevate, sottoposte alla riflessione; quindi a loro volta hanno programmato lavori di questo genere e si sono riferi­ti a strutture esterne.                   

 

 

 

Quale ricerca e formazione?

 

Dicevamo, quindi, che c'è consapevolezza del problema, ma che necessariamente molte questioni sono ancora aperte. Ci trascinia­mo ad esempio in un dibattito nel quale si dice: deve essere tut­to pubblico? Misto pubblico privato? Io penso debba esserci il massimo del pluralismo possibile e che quindi si debbano intrec­ciare le forme più diverse: si può anche chiedere alle istituzio­ni pubbliche di in­tervenire e organizzare per alcuni ambiti la formazione sociale e politica, riconoscendo così un valore socia­le all'associazioni­smo, ma questo non può voler dire appaltare allo stato tutta la formazione delle associazioni.

Di certo sta il fatto che è necessaria un'attività formativa per­manente, sia interna che svolta da agenzie esterne, che co­mun­que deve restare un’autonoma, nel senso che l'autonomia cultu­rale resta la base dell'autonomia politica di un'associazio­ne. Un tempo la formazione dei gruppi dirigenti dell'associazionismo av­veniva presso le strutture di formazione dei partiti o che face­vano capo ad essi, già oggi non è più così, o lo è molto ma molto meno. Costruire dei gruppi dirigenti credibili significa partire da una cultura politica, da identità, che ne determinino infine anche l'unità interna.

Per poter realizzare tutto questo il problema diventa quello del­le risorse. In parte devono essere interne, autonome, di chi vuo­le fare la formazione e di chi ne usufruisce; in parte indub­bia­mente risorse esterne. L'unico problema è che chi destina ri­sorse in questo campo deve essere in grado di controllare effet­tivamen­te che esse vengano utilizzate per gli scopi per le quali sono state date. Tenendo presente che la proposta di andare ad un raf­forzamento delle attività formative e di ricerca collegate al­l'impegno sociale e politico è cosa di cui si sente il bisogno, sia per la ricerca che per la formazione penso che sia corretto pensare alla richiesta di contributi pubblici ad attività che vengono organizzate e di cui si documentano costi e caratteristi­che.

Certamente è necessaria un'azione concertata da parte dell'as­so­cia­zionismo, e poi quest'azione va concepita come qualcosa che dura nel tempo. In questo senso io non sono eccessivamente pessi­mista, qualcosa abbiamo ottenuto nell'ultima legislatura: la leg­ge sul volontariato e quella sulle cooperative di solidarietà sociale. Io parto da questo presupposto: tutto sommato, ri­spetto al mondo dell'associazionismo, noi ragioniamo in riferi­mento ad una fase che si è appena aperta. Ad esempio l'Arci com­pie que­st'anno trentacinque anni, ma l'Arci di trentacinque anni fa è una cosa profondamente diversa da quella attuale, oggi l'as­socia­zionismo già svolge, e probabilmente ancor più svolgerà nel futu­ro, un ruolo di maggior rilievo, più autonomo e di maggiore re­sponsabilità.

In questo processo nasce prima l’autonomia culturale dell’associazionismo o l’autonomia politica? In realtà sono aspetti di uno stesso processo che si influenzarono reciprocamente; un processo che può essere favorito dallo sviluppo delle attività formative e di ricerca.


Intervista a Raffaele Cananzi, presidente dell'Azione cattolica.

 

 

 

Riforme istituzionali per sviluppare la democrazia e la partecipazione nella complessità

 

Il paese è arrivato, dopo circa 45 anni di cammino democratico, ad un passaggio certamente delicato. Questo, per un verso, è do­vuto al fatto che la democrazia nel nostro paese è cresciuta e, in qualche modo, anche la società civile ha assunto una più ampia possibilità e determinazione nell'essere parte viva del cammino sociale e politico del paese, e, per altro verso, è dovuto alla maggiore complessità delle questioni nazionali e internazionali che  nel frattempo si sono verificate dopo il tutto è politica degli anni settanta e dopo il niente è politica degli anni ottanta.

La complessità è un dato di ricchezza, però molto spesso, per la semplificazione con la quale si vuole operare al fine di risolve­re la complessità, invece di cogliere le potenziali risorse della situazione, arriviamo ad una frantumazione che è l'aspetto nega­tivo di questa nostra civiltà. Di conseguenza frantumazione e frammentazione portano all'assoluta impossibilità di mettere as­sieme realtà diverse, per cui ogni parte del corpo sociale va per conto proprio, e questo vale tanto per il livello nazionale che per quello internazionale. Gli uomini non si ritrovano più, le democrazie non si costruiscono più e le lotte diventano quasi la conseguenza naturale; non più lotte di lame e di spade, come in passato, ma lotte su basi economiche

In questo contesto, certamente, si sente la necessità di alcune riforme profonde nella vita sociale e politica. Ecco perché quasi tutti parlano di una necessità di riforme istituzionali. Su que­sto punto, vorrei specificare che, a mio modo di vedere, non au­spicherei il passaggio da una Prima ad una Seconda Repubblica, quanto piuttosto quello da una fase della Prima Repubblica ad una seconda fase della stessa. In particolare, non toccherei i primi 54 articoli della Costituzione. Li lascerei integri e cercherei di utilizzare tutte le potenzialità che hanno e che ancora non sono state espresse. Questo per offrire l'indicazione di fondo di salvaguardare fortemente quelle parti del nostro sistema istitu­zionale che garantiscono, sia una democrazia parlamentare, che una determinante partecipazione dei cittadini, che devono essere resi veramente arbitri di questa democrazia; infine devono essere salvaguardate quelle forme istituzionali che prevedono il decen­tramento, valenza tipica di una democrazia delle autonomie. Quin­di, se c'è una necessità di innovazione questa è nella continuità degli assi fondamentali del nostro sistema costituzionale.

Mi sentirei di agggiungere che queste riforme dovrebbero riguarda­re sostanzialmente la capacità di offrirci un parlamento più au­torevole e più capace di decidere, e, per altro verso, anche un esecutivo più fermo nella volontà e nella capacità di governare. Questo perché la complessità richiede naturalmente una capacità decisionale più attiva e più attenta. Queste mi sembrerebbero le linee essenziali sulle quali si possa muovere un discorso di ri­forma istituzionale oggi.

 

 

Riforme e cultura politica

 

Strettamente connesso a questo problema, che emerge per ragioni di carattere nazionale, ma anche di carattere internazionale (bi­sogna considerare che  la caduta dei regimi comunisti ad Est non è un fatto che rimane avulso dalla realtà e dalla vita del nostro paese, ha certamente un'incidenza, avendo noi avuto un forte par­tito comunista all'opposizione per diversi anni), v'è tutto il problema della necessità di una più stretta connessione tra il momento etico-antropologico e il momento politico. Voglio dire che riforme istituzionali, compresa una riforma elettorale, in tanto avranno un senso, in quanto vi sarà anche un'anima politica nella vita del paese e non soltanto delle regole che cambiano. Quindi, vi è un discorso importante che tocca le coscienze e, per altro verso, tocca le culture esistenti nella vita del paese, affinché si innesti nel globale meccanismo una valenza antropolo­gica ed etica di forte identità, in maniera da consentire che il passaggio non avvenga solo sul terreno delle regole, ma anche dei contenuti della politica.

Su questo versante credo che sia estremamente opportuno che, sen­za fare confusioni, ciascuno offra la propria visione se non i­deologica, quanto meno antropologica. Connessa quindi con le for­me ideali che sottostanno anche ai programmi politici: affinché dal dialogo, dal confronto emerga la capacità di uscire da un certo pragmatismo politico che rende la politica funzionale piut­tosto a se stessa che non al bene dell'uomo e della collettività; perché tutto questo si articoli assai più vivacemente e vitalmen­te nella vita e nel cammino del nostro paese. Tutto questo è strettamente connesso alle riforme istituzionali e elettorali.

Perché questo accada occorre formare un cittadino che sappia guardare agli anni duemila nella loro complessità, ma nello stes­so tempo anche con partecipazione e speranza. I cittadini devono uscire da quel distacco, da quella disaffezione e talora da quel disinteresse, che in Italia è un fenomeno abbastanza consueto. Perché ciascuno pensa di poter curare il proprio piccolo orticel­lo al di fuori del contesto della vicenda nazionale, senza ren­dersi conto che, in definitiva, queste forme egocentriche o egoi­stiche finiscono col portarci fuori non solo dalla realtà etico-politica che una nazione deve avere, ma anche da una realtà che si va sempre più ampliando verso orizzonti continentali e universali.

Ritengo che per cercare di superare questo stallo che, in qualche modo, segna anche un regresso della nostra democrazia, bisogna puntare su un'attività formativa che recuperi il senso e il si­gnificato della centralità dell'uomo nella vita politica e socia­le; su un'azione formativa che recuperi il senso della stessa po­litica; che se per la visione culturale che mi appartiene attiene all'ordine dei mezzi e non dei fini, non di meno è certamente una realtà importante.

Chi pensasse oggi di costruire il domani dell'umanità senza fare appello a questa complessa attività che è la politica, intesa, come Moro ricordava, come delicata tessitura del pubblico e del privato per la costruzione del bene comune, farebbe i conti senza tenere conto della storia e della necessità di doversi appellare a questa attività, antica, ma sempre nuova; perché vi è sempre la necessità di coniugare idealità, acquisizioni antropologiche nel­la varietà delle culture contemporanee, con la storia che cammi­na, con la tecnica che avanza, con la scienza che progredisce e con un quel villaggio che diventa sempre più piccolo e  globale, qual è il mondo.

E', dunque, necessaria una formazione politica e, su questo ver­sante, occorre certamente un impegno delle istituzioni dello sta­to. Io partirei dalla necessità di fare cultura politica a parti­re dall'insieme del sistema formativo statale e non statale. In­fatti, non vi è dubbio che oggi bisognerebbe trovare il modo di educare a questa cittadinanza sin dalla tenera età, proprio per­ché le responsabilità del cittadino in quanto tale sono cresciu­te. Come primo punto, direi che bisogna certamente fare appello ad una  visione del sistema formativo che, guardando globalmente alle necessità della formazione, non estrapoli il ramo della for­mazione politica.

In secondo luogo, vi è certamente un impegno di tutte quelle a­genzie, culturali, sociali, ecclesiali, che naturalmente hanno a cuore la formazione dell'uomo integrale, quindi anche di un uomo che sappia rispondere sul versante della politica, della cono­scenza, della memoria storico-politica, ma anche della prospetti­va politica e, quindi, della progettualità politica. Qui ovvia­mente vi è tutto il vastissimo ambito del privato sociale, del volontariato, delle stesse associazioni ecclesiali, tra cui pongo la nostra Azione cattolica italiana, che, nel guardare ad una globale formazione non vuole dimenticarsi di quella dimensione socio-politica. Nel quadro della globale formazione che offriamo come associazione, sentiamo il bisogno di non fare mancare l'ele­mento attinente alla dimensione etico-sociale della coscienza. I nostri soci hanno da sviluppare nella vita dell'associazione un itinerario formativo che tocca il momento spirituale, il momento etico-culturale, e quindi dottrinale, ed il momento socio-politico.

Per attività più calibrate e più centrate, in riferimento sia al campo della ricerca che della formazione socio-politica, abbiamo voluto istituire l'Istituto Bachelet. Abbiamo così istituziona­lizzato la funzione in un istituto che, per il suo consiglio scientifico consente di avere indicazioni, idee e ricerche ad un certo livello, perché esso è costituito da professori universita­ri interessati naturalmente alle materie giuridiche, economiche e sociali. Si tratta cioè di un consiglio composito.

Infine porrei anche una particolare attenzione al versante, non meno importante, dei partiti politici. Credo che questi ultimi dovrebbero assumere nuovamente un'impegno per la dimensione della formazione; anche se credo che bisognerebbe distinguere la forma­zione data dal sistema scolastico o universitario, la formazione data dalle agenzie culturali o di volontariato, e la stessa for­mazione data dai partiti. La prima, quella di un sistema formati­vo globale, attiene più specificamente ad una ricerca che trova nella storia della vicenda nazionale e internazionale, e nella ricerca scientifica che su questa storia si va compiendo, le sue connotazioni essenziali. Invece nelle diverse agenzie culturali o di volontariato che agiscono nel sociale, l'itinerario formativo non può non avere un'angolatura diversificata: sarebbe ad esempio strano che un'associazione ecclesiale desse una formazione su questo versante, senza tenere conto dello sfondo antropologico ed etico che certamente alle sue idealità e alle sue prospettive si ricollega strettamente. Distinguerei infine la formazione che devono dare i partiti politici: non solo perché questa non può non essere legata alla cultura politica che costituisce la matri­ce programmatica di quel partito, ma anche perché per le prime due forme parlerei di una formazione alla cultura politica, per la terza forma parlerei di una formazione alla politica; perché il partito non deve formare solo alla cultura, ma anche all'uti­lizzazione concreta e pratica degli strumenti politici.

In questo quadro globale vedrei una sincronica messa in atto nel paese di un impegno su questo versante, nella considerazione ul­teriore, per noi cattolici, che si deve sì restituire alla poli­tica quella relatività che essa deve certamente avere rispetto ad altri assoluti, ma anche quella importanza della quale come cit­tadini di questa città dell'uomo, non possiamo fare a meno.

 

 

 

L'impegnodell'Azione cattolica perla formazione etico-sociale e politica

 

Questo, a grandi linee, è l'itinerario che l'associazione assume e prospetta e per il quale fa delle proposte anche concrete. Men­tre, cioè, dal punto di vista della riflessione e dell'analisi globale la nostra associazione invita sia i suoi soci, sia quanti guardano con interesse al suo cammino, ad una riflessione sul tema della politica, ciascuno per la sua  parte e nella prospet­tiva che la questione deve assumere per ciascuno, l'associazione allo stesso tempo si è preoccupata anche di entrare nel vivo di questo discorso, promovendo nel corso degli ultimi anni moltis­simi corsi di formazione socio-politica. Queste scuole di forma­zione socio-politica si avvalgono di due istituti a livello cul­turale-scientifico, che sono l'Istituto Paolo VI per la storia del movimento cattolico in Italia, già funzionante da qualche decennio, e l'Istituto Vittorio Bachelet, per i problemi sociali e politici, che ha visto la luce nel 1988 e rispetto al quale in molte diocesi stanno nascendo istituti analoghi.

Quest'ultimo ha un momento direzionale, che tiene stretti contat­ti con l'associazione, perché non si verifichi, nel momento del­l'espressione dell'istituto stesso, una discrasia rispetto all'o­rientamento e al cammino dell'associazione; per altro verso, esso gode di una sua autonomia, per quanto concerne, per esempio, la determinazione delle tematiche che annualmente si intendono af­frontare sia come ricerca e approfondimento, sia come dato espressivo nella vita dell'istituto stesso. Come Azione Cattolica abbiamo ritenuto importante incrementare il momento formativo, che fa parte della globale azione formativa dell'associazione, creando questa struttura che, da un lato, risponde ai criteri ideali del cammino associativo, e, dall'altro, ha una sua autono­mia per poter gestire dal punto di vista della ricerca e dell'i­tinerario formativo particolari momenti secondo le necessità.

Dal punto di vista storico, ci avvaliamo anche del consiglio scientifico di storici dell'Istituto Paolo VI. Molto spesso, pro­prio perché i due istituti non sono staccati, è dalla convergenza dei due consigli scientifici che nascono molte iniziative; la collaborazione fra i due istituti realizza la convinzione che il momento storico non è staccato dall'attività politica, sociale e giuridico-istituzionale. Il tentativo oggi è quello di utilizzare nel miglior modo questi due istituti proprio per offrire un mo­mento di ricerca e di approfondimento, non solo alla cattolicità italiana, ma anche al paese; alcune delle pubblicazioni degli istituti hanno effettivamente interesse di carattere generale. Il riferimento ai consigli scientifici, che costituiscono il perno dei due istituti, ci fornisce non solo materiale di ricerca, ma anche persone, per poter costituire il corpo docenti per le scuole.

Tra i contenuti che possono essere richiamati per queste scuole di formazione alla cultura politica, che non riguardano solo i soci dell'Azione cattolica ma sono anche aperti ad altre persone,  c'è anzitutto un contenuto storico. Riteniamo che la storia sia memoria e, quindi, se i problemi di oggi non sono certamente a­vulsi dal contesto attuale, essi si possono spiegare in quanto si abbia chiaro un quadro storico che, purtroppo, in qualche modo sfugge. E' mia personale convinzione che in molti ambienti, se si studiasse di più la storia, oggi molti problemi li avremmo supe­rati. Quindi, anche sotto l'aspetto della vicenda politica per noi il richiamo storico è fondamentale.

Un'altra parte è poi dedicata alla dottrina sociale della Chiesa come punto di mediazione tra la Rivelazione cristiana e il cammi­no storico, concreto degli uomini. Questo punto raccoglie, cioè, sia il dato antropologico, sia il dato etico, tutto il momento valoriale e tutto il momento della visione antropologica cristia­na. C'è poi un ulteriore momento dedicato alle istituzioni, alla loro natura e validità. Infine, vi è un momento che non tralascia il dato essenziale di questo tempo, che è il momento economico.

A questi  quattro fondamentali versanti le nostre scuole porgono un'attenzione particolare. Laddove non vi sono le nostre scuole, ho l'impressione che i nostri soci si avvalgano molto di momenti culturali promossi da questi istituti Bachelet che stanno nascen­do; oppure seguono altre scuole promosse da altre aggregazioni culturali, penso ad esempio a quelle promosse dalle Acli seguite anche dai nostri soci, laddove mancano scuole proprio dell'Azione Cattolica o di carattere diocesano.

 

 

Per una formazione alla politica nel paese

 

Abbiamo, dunque, un grande interesse a che nel paese si smuova questo versante della formazione al sociale e al politico. Per cui guardo con grande compiacimento all'iniziativa che lei mi prospetta, perché si tratta di legare il momento scientifico ad un momento formativo di vaste proporzioni, e si tratta per noi di innervare una sinergia tra istituzioni sociali private e mondo ecclesiale, ciascuno per la sua parte e nella prospettiva che la questione deve assumere per ciascuno. Per quanto riguarda l'Azio­ne Cattolica, il nostro sostegno è sul piano della riflessione, su quello della promozione di scuole nella luce cui prima ho ac­cennato, ed è naturalmente sul piano di una promozione istituzio­nale, nel senso che le istituzioni si accorgano di que­sta neces­sità. Qualche strumento legislativo su questa materia è certamen­te auspicabile, purché la cosa non si istituzionalizzi a tal pun­to da togliere quella libertà che, invece, si deve conservare, proprio per la ricchezza del momento politico. Occorre fare sem­pre attenzione: avere gli strumenti legislativi e istituzionali è importante, ma averli in maniera tale che questi agevolino nel paese un processo di liberalizzazione della cultura e non invece un processo di massificazione o di emarginazione del fatto culturale.

Per dare concretezza a quanto sto dicendo, occorrerebbe pensare una legge che incentivi tutto questo attraverso un contributo in­diretto; penso alla messa a disposizione di sedi; all'intervento  diretto da parte di organismi che non siano le associa­zioni, sui quali si possa contare ad esempio per pagare il contributo dei vari docenti di queste scuole. Direi, una gestione che resti in mano ad organi statali, regionali, ecc., ma che, nello stesso tempo, consenta di poter usufruire con forme ed in modi opportu­ni, di finanziamenti; questi dovranno essere dati con equità a tutti, tenendo conto dell'importanza delle iniziative culturali che si vanno promovendo.

Sarebbe opportuno che un certo numero di associazioni, di movi­menti culturali a livello naziona­le, organizzassero un piccolo comitato, per studiare la possibilità di indire una conferenza nazionale per la formazione politica e per la formazione alla cultura politica e alla politica. Così si richiamerebbe l'atten­zione del paese su questo fatto. In quella sede si potrebbe co­minciare a dibattere quali sono gli strumenti concreti che, ferme restando la libertà e l'autonomia, il Parlamento dovrebbe esami­nare ed approntare per incentivare tutto questo nella vita del paese. Tutto ciò con la consapevolezza che solo attraverso la crescita di una coscienza democratica, e quindi della partecipa­zione democratica dei citta­dini, crescono le democrazie. Tanto più questa partecipazione è responsabile, tanto più la democrazia che cresce può sperare in risultati migliori, sia all'interno che all'esterno della vita del paese.

Concretamente si tratterebbe di un comitato promotore, espressivo di una varietà di soggetti, costituito dalle istituzioni cultura­li collegate alle associazioni, demo­cratiche, di partito, più che direttamente dalle associazioni, che possa intanto cominciare a stilare una proposta più concreta, per poi demandare un questio­nario, ad esempio, alle singole asso­ciazioni e movimenti, perché si studi la proposta da parte di co­loro che intendessero parteci­pare alla conferenza nazionale. Così ciascuno arriverebbe con un bagaglio di cose sulle quali si è già riflettuto e sulle quali confrontarsi. Alla fine, da questo mo­mento di incontro potrebbe nascere una proposta, la più riflettu­ta possibile, ma nello stes­so tempo la più omogenea e, in qualche modo, anche la più condi­visa, che possa poi essere portata nelle giuste sedi. Questo per­ché, a sua volta, il comitato possa diven­tare promotore nella sede più opportuna di ulteriori elaborazio­ni.

E' un itinerario piuttosto complesso e lungo, ma che consentireb­be di richiamare l'attenzione del paese su questa questione, in modo tale che il Parlamento si muova.


Intervista a Renata Ingrao

 

 

 

Cultura ambientalista e presenza politica

 

Anzitutto una premessa. Faccio fatica a ragionare intorno a que­stioni quali la riforma della politica, le nuove soggettività, gli strumenti per la formazione all'agire politico, separandole dai contenuti dell'agire politico. L'esperienza che ho accumulato nella Lega per l'ambiente e anche l'identità che l'associazione negli anni si è costruita è sempre stata quella di ragionare sul senso della propria esistenza come soggetto politico in rapporto alle finalità della propria azione politica, quindi, nel nostro caso, alle finalità ambientaliste.

Faccio fatica a scegliere un terreno di ragionamento che si occu­pa molto della forma e non del contenuto. Ad esempio, se penso a quanta "cultura politica" la Lega per l'ambiente abbia prodotto in questi anni, non so se intendiamo sotto questa dizione le Uni­versità verdi che la Lega per l'ambiente ha organizzato in tut­t'Italia, l'Istituto di Ricerca Ambiente Italia che abbiamo co­stituito circa un anno fa, la Scuola di legislazione ambientale, i Centri di azione giuridica dell'associazione, oppure se devo pensare a come ci siamo strutturati, a come funziona il rapporto tra volontariato e funzionariato, alla nostra struttura territo­riale che convive con una direzione nazionale molto centralizza­ta, alle riflessioni che sono venute dopo, non date in premessa, sulla soggettività politica extraistituzionale e quella elettora­le-istituzionale, che ci era meno chiara all'inizio. Per essere più esplicita su quest'ultimo punto, noi come associazione siamo stati fra i promotori dell'esperienza delle liste verdi, e oggi rivendichiamo continuamente la distinzione netta e il fatto che siamo un'associazione di cittadini, che quindi è altro dall'e­spressione elettorale o istituzionale della politica. Contempora­neamente, però, rivendichiamo anche che questo non significa che  siamo apolitici, ma che, anzi, esprimiamo un altro tipo di sog­gettività politica che ha altre forme per contare e che, spesso, ha pochi strumenti per farlo, perché vi è un'overdose di rappre­sentatività che finisce come un imbuto sul momento elettorale istituzionale.

Insomma,i piani diversi della cultura ambientalista e del senso della presenza politica di un'associazione come la Lega sono mol­to intrecciati. Non so dire per questo se nella Lega per l'ambi­ente  sia più importante, ad esempio, il comitato scientifico, che è un organismo statutario, o il direttivo nazionale, o ancora i centri di azione giuridica, tutti organismi statutari. Nel modo di essere della Lega per l'ambiente il direttivo nazionale, quin­di la direzione politica dell'associazione, non è certo più im­portante del comitato scientifico, e non solo perché non vi è una gerarchia formalizzata, ma perché non lo è nei fatti. Io stessa in molte occasioni attivo di più il pool degli esperti in campo ambientale dell'associazione per costruire iniziativa politica, di quanto attivi i dirigenti politici fuori dalle competenze in campo ambientale che hanno.

 

 

Crisi istituzionale e questione ambientale

 

Questa era la lunga premessa per capire come percepiamo lo sfa­scio delle istituzioni, non solo per quello che si sente dai me­dia, ma anche rispetto alle cose di cui ci occupiamo. Il non fun­zionamento dell'amministrazione, il fatto che non si capisca più quali interessi, quali esigenze rappresentino le istituzioni, la mancata risoluzione dei vari problemi, e così via, sono questioni che percepiamo con acutezza fortissima. Una delle questioni che noi registriamo corposamente è che oggi, in Italia, una legisla­zione dignitosa rispetto solo a dieci anni fa in campo ambienta­le, comporta il problema dell'implementazione. Praticamente, per la maggior parte, è come se quelle leggi non ci fossero. Abbiamo, però, grande difficoltà nelle risposte. Da una parte, perché noi non ci siamo mai dedicati ad una riflessione comune, come Lega per l'ambiente, sulla crisi istituzionale. Questo anche per il timore di non voler fare i tuttologi. Preferiamo porre dei limiti alle nostre attività, ai nostri campi di intervento, anche per evitare improvvisazioni. L'unico percorso che abbiamo avviato attraverso incontri seminariali negli ultimi mesi è un tentativo di verificare la crisi istituzionale dal punto di vista delle questioni ambientali. Ci siamo posti il problema dell'applicazio­ne delle leggi, del sistema dei controlli, del funzionamento del parlamento e degli altri organi dello stato in rapporto alle po­litiche ambientali e agli interventi in campo ambientale, alla formazione delle leggi. Abbiamo cioè cercato di ritagliare una cosa su cui noi avevamo dei dati da cui poter partire per costru­ire un ragionamento. E' un discorso ancora molto aperto. Credo che, anche se non vi è alcuna posizione formale assunta dalla Lega per l'ambiente, indubbiamente si pongano come centrali entro questa crisi delle istituzioni: la questione dell'auspicato mag­gior peso del voto, occorre cioè poter scegliere sulla base di opzioni chiare, di maggiore trasparenza e di maggiore efficacia del voto, riconfigurando il ruolo dell'elettore, del cittadino; e infine c'è in gioco un problema molto forte di autonomia della macchina amministrativa dal sistema politico.

 

 

La doppia crisi e le risposte precarie

 

Da questo punto di vista tutta la questione della trasparenza, dell'accesso all'informazione, costituisce per noi il primo capi­tolo. Il cittadino deve, cioè, avere tutti gli strumenti per ac­cedere sia all'apparato amministrativo che alle istituzioni del paese. Per questo abbiamo salutato con interesse le riforme sui comuni, sugli statuti comunali e sulle procedure amministrative, perché rappresentano, anche se in forma non ottimale, dei cambia­menti importanti: strumenti per favorire la partecipazione, il controllo dei cittadini.

Nel caso dei referendum noi siamo stati sempre favorevoli, e quindi anche promotori dei referendum, tanto su scala nazionale che su scala locale. Si tratta per noi di uno strumento molto u­tile perché consente di dare la parola ai cittadini su alcune questioni, insieme alla possibilità di intervento, consultivo o anche decisionale, da parte dei cittadini. Le ultime esperienze che abbiamo consumato sui referendum abrogativi, che hanno avuto esito negativo, ci hanno reso però più cauti. Purtroppo, ho l'im­pressione che le risposte siano molto difficili, perché oggi strumenti che fino a qualche anno fa potevano sembrare forti al fine di contrastare la partitocrazia e di dare più potere ai cit­tadini, rafforzando la democrazia diretta, si sono logorati, nel senso che o li cavalcano gli attori di quel sistema politico, op­pure, se sono attori politici esterni a quel sistema politico, quest'ultimo fa orecchie da mercante e non li considera. Quindi, si tratta di strumenti che non funzionano più. Il problema di rapporti tra cittadini e istituzioni si configura come una doppia crisi, perché la gente delega la propria rappresentanza. E' scon­tenta di come è rappresentata, ma tende a delegare sempre di più. I fenomeni di associazionismo e di partecipazione coinvolgono soltanto parte della società, ma la gran parte dei cittadini è uscita dall'impegno civile o politico diretto e delega col voto, essendo disgustati da quelli che hanno delegato. Però, nonostante la disapprovazione, la gente non si attiva facilmente in altre forme di agire politico. Ci troviamo, quindi, in una fase molto difficile, in cui anche le risposte diventano più difficili. La mia fiducia nei referendum quattro o cinque anni fa era decisa­mente maggiore rispetto a quella attuale. Mi sembrava, cioè, che vi fossero molte cose che potessero rappresentare uno scossone. Oggi sono molto più perplessa. Non credo all'autoriforma del si­stema politico e non vedo energie sufficienti dall'esterno per produrre cambiamenti di questo genere. Questo anche perché ho constatato di prima persona come la stessa esperienza verde si sia immediatamente logorata nel rapporto con le istituzioni. Di fronte abbiamo le Leghe, che ci fanno paura, ma non solo. C'è Or­lando che decide di andare in parlamento e che rappresenta il problema del soggetto politico che diventa immediatamente sogget­to politico elettorale, illudendosi di poter portare così la sua diversità e contaminare l'istituzione con questa. Si tratta di un'illusione a cui io non credo, anzi temo molto il processo op­posto, cioè di essere contaminato da, perdendo energie vitali e innovative, risucchiate dal sistema politico. Quindi, personal­mente, credo di non poter pensare di cambiare il mondo; che la Lega per l'ambiente sia più consolidata, più diffusa, più in for­za sul territorio, è forse per noi oggi l'obiettivo più corretto rispetto al come si riforma questo paese.

 

 

Per un’assunzione realistica di responsabilità politica

 

Le forme tradizionali di impegno e di attività, come si potevano conoscere qualche anno fa, riscuotono sempre minori adesioni.

La gente è sempre meno disponibile ad impegnarsi in certe forme. Vi sono modi diverse di impegno, con caratteristiche diverse, che comportano un maggior coinvolgimento delle persone. Ad esempio, riscuote maggior successo in termini di partecipazione volontaria una campagna di pulizia delle spiagge che non una riunione o una manifestazione in termini tradizionali. Se, invece, la manifesta­zione assume caratteri particolari, come quella che abbiamo orga­nizzato tempo fa a Roma sul problema del traffico, la partecipa­zione è decisamente elevata, perché la gente trova un modo piace­vole di dire la propria opinione nei confronti di determinate questioni. Quindi, questo tipo di manifestazioni rappresentano anche un modo diverso di stare insieme, in cui l'impegno politico non ha più quelle caratteristiche punitive di un tempo, per cui la tensione ideologica, o ideale, o religiosa, era così forte che più c'era il contrasto e più si era gratificati nel senso della propria battaglia.

Inoltre l'ambito in cui interveniamo non ci piace considerarlo specialistico, perché riteniamo l'ecologia come un punto di vista sul mondo che, senza inglobare ogni cosa, attraversa comunque molte questioni. Non è definibile come una specializzazione, ma è più complessa e dà strumenti di elaborazione e di proposta su campi molto ampi, dagli aspetti internazionali ai rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, alle questioni economiche, alle questio­ni di ordine filosofico, e via dicendo. Dentro questa caratteri­stica più di complessità che di specialismo, viviamo una diffi­coltà come associazione in cui è cresciuta l'esigenza di avere al nostro interno e di attivare all'esterno competenze sempre più qualificate. Mi viene da ridere se penso a certe riunioni del passato della Segreteria nazionale della Lega per l'ambiente in cui c'era una particolare animosità quando si discuteva del pro­blema dei rifiuti. Si trattava di riunioni in cui i problemi tec­nici erano importanti, ma la questione diventava poi elemento di discussione del vertice politico che doveva decidere se la propo­sta dell'associazione nel campo dei rifiuti dovesse essere l'una piuttosto che l'altra, e che tipo di iniziative si dovesse co­struire per andare avanti, e via dicendo.

Ci è insomma molto chiara l'esigenza di crescere, di qualificarci sul piano delle competenze a largo spettro per quanto riguarda l'ambiente. E' molto meno chiara, nel senso che non ci siamo po­sti il problema, quale deve essere la figura del dirigente poli­tico, anche se tutti ne avvertiamo l'esigenza: che doti deve ave­re? Chi è? Come si aggiorna, si forma? Lo stesso concetto di agi­re politico è meno preciso rispetto a quanto poteva essere negli anni Settanta. Io stessa sono segretaria generale dell'associa­zione e il mio tempo di lavoro è diviso, mescolato fra l'andare all'incontro col ministro Ruffolo per il piano triennale dell'am­biente, o alla conferenza stampa della Camera per prendere posi­zione a favore o contro determinate leggi, l'andare al convegno organizzato dalla Fondazione Agnelli sui cambiamenti climatici e la discussione e la costruzione del bilancio, il capire da dove prendere i soldi perché l'associazione possa continuare ad opera­re, l'affrontare il problema della ristrutturazione della sede che proprio oggi ci ha assegnato il Comune di Roma. Ancora, il mio compito può essere quello di decidere come vadano fatte le tessere, oppure mantenere i rapporti con i pubblicitari. Presso di noi gli elementi di direzione di una microazienda sui generis sono importanti tanto quanto i rapporti con i soci, con i nostri circoli, si avverte l'esigenza di avere competenze, quindi di qualificarsi, di aggiornarsi, soprattutto nel campo della comuni­cazione: come accedere ai mezzi di comunicazione di massa, come utilizzarli e come non farsi utilizzare da questi, e più in gene­rale con quale linguaggio, con quale forma di messaggio, con qua­le capacità comunicativa praticarli.

Indubbiamente, vi sono difficolta a capire cosa sia oggi un diri­gente della Lega per l'ambiente, anche se si intuisce che si tratta di trovare il modo di intrecciare l'elemento tecnico col politico, lo specialismo del proprio patrimonio culturale con la politica in senso lato.

 

 

La formazione come luogo della sintesi

 

Lo strumento principe per costruire queste sintesi passa per la formazione. E' una delle scelte che presso di noi, negli ultimi anni, è andata crescendo. Noi facciamo una serie di seminari nel corso dell'anno che sono sia di tipo organizzativo, quindi rela­tivi al problema del come far funzionare meglio l'associazione in rapporto agli obiettivi che si vogliono dare, sia di approfondi­mento e di aggiornamento con gli esperti del caso, su singole te­matiche. Si tratta di giornate in cui ci si incontra sulla base di un'organizzazione della discussione, e che facciamo piuttosto spesso, anche se mai in numero sufficiente, soprattutto per chi è impegnato nel territorio che ne ha grande bisogno, anche perché l'afflusso di informazioni e le occasioni per loro sono molte meno. Abbiamo anche sperimentato delle iniziative molto diverten­ti e anche efficaci, ma in forma solo artigianale, come le simu­lazioni. Ad esempio, si simula come dovrebbe funzionare un circo­lo nel momento in cui si presenta una vertenza ambientale sul suo territorio. Ciascuno di noi nella simulazione aveva una sua par­te: chi fingeva di essere il poliziotto, chi il pretore, chi l'industriale che aveva scaricato illegalmente la roba, chi il sindaco, chi il rappresentante dell'USSL, e così via.

Si è trattato di iniziative anche molto efficaci, perché in esse la gente si diverte molto di più che non nell'ambito di normali dibattiti, dove ci si deve limitare ad ascoltare e poi a dire la propria opinione. Inoltre, da queste simulazioni i problemi emer­gono concretamente, così come emergono le debolezze.

Si sentiva l'esigenza di avere un luogo con una sua autonomia e una sua finalità specifica, che fosse centro di aggiornamento, sistematizzazione e elaborazione di proposte dell'intervento in campo ambientale. Questo perché il settore è diventato un campo in cui se si vuole intervenire seriamente occorre avere degli strumenti di elaborazione molto raffinati. Ci siamo così resi conto che, a livello di associazione, non riuscivamo ad essere all'altezza di quel livello. Siamo nati come associazione per la battaglia contro il nucleare e, quindi, abbiamo avvertito subito l'esigenza di pensare a quali altri sistemi energetici si potreb­bero utilizzare, a come dovrebbero essere organizzati, a quali sarebbero i loro costi. Quindi, abbiamo ragionato su queste pro­poste, ma ad un livello in cui il nostro intervento diventava sempre più complesso, perché non si trattava solo di far rilevare che c'era anche l'ambiente, ma di misurarsi su questioni che di­ventavano molto più complicate. Per questo, diventava fondamenta­le una struttura che avesse finalità specifiche, perché noi non eravamo più in grado come associazione di rispondere a questa e­sigenza.

Abbiamo così costituito  un istituto di ricerche che si chiama Ambiente Italia e che, mentre all'estero rappresenta un'iniziati­va abbastanza consueta, in Italia non lo è affatto: in Germania questi istituti di ricerca sono finanziati in vario modo, da privati, dallo stato, da fondazioni ad hoc. Il nostro istituto di ricerca è sorto in maniera molto sobria, corrispondente alle scarsissime risorse economiche di cui disponiamo. Attualmente è finanziato esclusivamente da noi, ma cerca sempre di avere com­messe sempre nel campo della ricerca, non della progettazione.  In questo modo si cerca di ritagliare quella parte che ci consen­ta di poter ricercare senza committenza. La prima uscita esterna dell'istituto è stata l'organizzazione di un corso sulla questio­ne del conflitto ambientale, che è un terreno interessante anche rispetto alla ricerca. Il problema era capire come si governa un conflitto ambientale, come si arriva ad una decisione finale, dando degli strumenti per cui il conflitto non si risolva nel porre le barricate davanti alla discarica da una parte, e dal­l'altra favorire delle istituzioni impermeabili a tutto. Gli strumenti, invece, devono servire all'accesso alle informazioni per la popolazione e ad individuare i soggetti "neutri" che go­vernano la controversia.

L'iniziativa formativa più strutturata sono le Università verdi; nate all'inizio del movimento ambientalista, quindi nei primi an­ni ottanta, sul modello di esperienze del passato, come le Uni­versità del popolari, di prima acculturazione in campo ambienta­le. All'epoca, infatti, la gente non sapeva quasi nulla di ecolo­gia, di ambientalismo, e quindi si avvertiva l'esigenza di divul­gare questo tipo di cultura ad un primo livello. Nelle prime e­sperienze, gruppi locali hanno organizzato dei corsi cui parteci­pavano i grandi padri dell'ambientalismo. Questi incontri hanno avuto un certo riscontro, c'è stata un'ampia partecipazione da parte della gente. Si sono diffuse a livello nazionale, anche se non in maniera omogenea.

All'inizio in modo particolare al Nord, poi, in una seconda fase, quando cominciavano ad entrare in crisi quelle al Nord  si è ve­rificata una specie di seconda ondata dell'ambientalismo al Sud. Alcune di queste università sono ancora esistenti, ma si tratta di un fenomeno che si è molto ridimensionato, perché il livello di alfabetizzazione dopo un po' di anni era stato raggiunto ri­spetto al pubblico cui ci rivolgevamo, quindi la domanda era sce­sa.

 

 

 

Difficoltà e problemi dell'azione formativa

 

La più grande difficoltà è stata passare da un livello più sem­plice di formazione ad un livello più alto, ad una specie di scuola superiore in campo ambientale. Alcune esperienze si sono avute, ad esempio, a Milano, ma è stato più difficile istruire questi nuovi corsi, sia in termini di strutturazione, sia rispet­to agli utenti. Occorre poi tenere presente che una parte delle università verdi erano legate a noi, una parte a quei comitati e gruppi ecologici che poi si sono trasformati in liste verdi in seguito alle vicende elettorali e hanno smesso di occuparsi delle Università per dedicarsi appunto alla politica.

Il fenomeno è in esaurimento perché è diminuita la domanda, ma anche perché vi sono delle difficoltà a rispondere ad una domanda diversa, più elevata.

Per entrambi i motivi gli strumenti cui anche noi, come Lega per l'ambiente, abbiamo pensato, sono altri, meno artigianali delle Università verdi, quali, ad esempio, l'Istituto, che tra le sue attività contempla anche quella formativa.

Ma è anche un problema di costi; quando si passa dall'alfabetiz­zazione alle iniziative di qualità, anche se ci si rivolge ad un'area più ristretta, comunque i costi salgono.

In merito alle simulazioni cui si accennava prima, vi sono, in altri campi, delle persone che organizzano in maniera professio­nale questo tipo di stage,  ma questo comporta dei costi che per noi sono insostenibili.

E' un dato significativo che ci fa capire che se si avessero del­le strutture, dei centri in cui vi fosse una parte di attività gratuita perché rivolta ad associazioni non di lucro, la situa­zione cambierebbe. Dal punto di vista della formazione, in Italia vi sono delle iniziative sofisticate relative ad alcune profes­sioni, come per la formazione aziendale, manageriale, ecc., oppu­re vi sono delle piccole iniziative a livello artigianale. Non c'è, invece, la possibilità di accedere ad iniziative non appros­simative, ma neanche costose. Questo è un terreno in Italia dram­maticamente vuoto. Non ho le soluzioni per risolvere questo tipo di problemi, non so in che modo si possano attivare questi cen­tri, se il problema sia quello di spingere lo stato a mettere in piedi queste iniziative; confesso che la mia sfiducia nei con­fronti dello stato è tale che non credo sia questa la strada giu­sta da seguire. Ma, non so neanche in che termini pensare a forme di altro tipo in cui lo stato interviene indirettamente.

Più facile diventa pensare e costruire ottimi rapporti di colla­borazione non necessariamente istituzionali, ad esempio più che con le università con una serie di docenti, coi quali organizzia­mo già oggi iniziative, corsi, progetti in comune. Per quanto riguarda la nostra esperienza, l'università è un mondo abbastanza impermeabile (per altro, l'università è in un ritardo spaventoso sui nostri temi, un corso di laurea in ecologia è stato istituito solo due anni fa, a Venezia, ma è rimasto l'unico).

Lavoriamo moltissimo sulla scuola, ma, ancora una volta, spesso i referenti sono i singoli insegnanti, solo di rado la scuola nel suo insieme. Nella nostra associazione ci sono diversi insegnanti ai quali forniamo materiali di percorsi didattici. Proprio quest'anni è partita una campagna in collaborazione con l’Atlas (sempre per il problema delle risorse cui accennavo prima), in cui i materiali sono stati elaborati tutti da noi e l'azienda ci ha fornito i finanziamenti per poter diffondere tali materiali a tutti gli insegnanti delle scuole medie, che sono 120.000, dai quali ci stanno giungendo delle risposte molto interessanti, che già coinvolgono alcune migliaia di insegnanti che si sono impe­gnati a seguire i percorsi didattici da noi segnalati con le loro classi.

 

 

Associazionismo, formazione e ricerca

 

Sarebbero molto utili momenti di confronto, di studio, di iniziativa tra le associazioni democratiche che puntino ad uno sviluppo delle attività di formazione e ricerca all'impegno so­ciale e politico nel nostro paese. Noi siamo molto sensibili alla società civile organizzata. Sentiamo, cioè, il mondo associativo come uno degli strumenti che possono dare la forza alla società civile, e lo consideriamo come una scommessa su cui noi puntiamo, anche se è ancora tutta da verificare. Sentiamo che c'è un pro­blema di comunicazione all'interno di questo mondo. Gli scambi, il confronto sulle problematiche, sulle esigenze comuni non sono cioè molto diffusi, anzi sono piuttosto rari. Un incontro è più probabile nelle manifestazioni politiche, contro la mafia o a favore della pace, dove compaiono moltissime sigle, ma dove di fatto non c'è un confronto. A me, invece, interesserebbe confron­tarmi con altre esperienze che vivono problemi analoghi ai miei e capire se possono esserci delle proposte, delle indicazioni da individuarsi sul piano comune per poter dare strumenti all'esi­stenza di queste esperienze.

Credo però che se mettiamo assieme associazionismo, sindacati e partiti il cammino rischia di non avere esito positivo. Si tratta di mondi diversi e ho l'impressione che le sensibilità da una parte e le esigenze dall'altra, siano molto diverse. Quindi, è più costruttivo procedere per aree più omogenee. Che un'associa­zione per i bambini abbandonati, supponendo che esista, si con­fronti su questo problema con il Pds e con la Dc, non avrebbe senso, perché significherebbe partire da esigenze troppo diverse e lontane. Un confronto di questo tipo sarebbe più logico in un secondo momento, quando cioè fosse già presente una proposta, in merito alla quale questi soggetti possano divenire degli interlo­cutori validi. Il problema è che associazioni come i partiti e associazioni come la Lega per l'ambiente non vengono poste su di un livello paritario. E questo vale per tutto: non siamo allo stesso livello per ruolo, per poteri, per ogni cosa. Di consegu­enza, il terreno non può essere comune con i partiti e neanche con i sindacati. 


Intervista a Cesana, Movimento popolare.

 

 

 

Alle origini della crisi: secolarizzazione e stato debole

 

A me sembra che vi siano, molto schematicamente,  due coordinate entro cui leggere la crisi. La prima è il processo di secolariz­zazione che ha investito sia il mondo cattolico che il mondo co­munista, le due realtà popolari più ampie presenti in Italia. Per cui, la politica che era  all'interno di un principio ideale con delle valenze etiche, adesso lo è sempre meno. Oggi la politica è più un privilegio di interessi che non un privilegio di principi ideali. La nostra è, insomma, una crisi sostanziale, in cui poi occorre anche trovare delle nuove regole. Siamo cioè di fronte ad un popolo mutato, come se fosse avvenuta una trasformazione gene­tica. C'è quindi anche un problema di valori, perché in un popolo cattolico, certamente con un costume profondamente cattolico -il problema non è cioè qui quello di valutarne tanto la religiosi­tà-, quando questo è stato tolto la cultura laica non è riuscita a produrre un'alternativa dal punto di vista dei valori, se non con un carattere sostanzialmente negativo. Questo è il primo fat­tore che determina la crisi del rapporto tra la società e i partiti.

Il secondo fattore è che lo stato italiano è da sempre struttu­ralmente debole. E' debole come sua conformazione, come struttura per quanto riguarda l'equilibrio dei poteri tra la burocrazia, la politica, la giustizia. Inoltre, è più debole economicamente ri­spetto agli altri paesi con cui ci paragoniamo. Il primo fatto ha permesso l'esplosione del secondo. Fondamentalmente vedo in que­sti due fattori le ragioni della crisi attuale.

Un esempio a caso: la realtà sanitaria, che da tempo è sulle pri­me pagine dei giornali, per cose che per la verità sono sempre successe e che solo ora vengono sollevate. In Italia c'è una grossa preoccupazione intorno alla spesa sanitaria, senza tenere conto che a livello pro capite essa è un terzo di quella della Germania e metà di quella della Francia, meno della metà di quel­la degli Stati Uniti. Quindi siamo molto più deboli. Abbiamo di fronte certi modelli, rispetto ai quali noi siamo arretrati e non abbiamo dei riferimenti per poterli affrontare, perché la nostra struttura non corrisponde a questi modelli e politicamente siamo entrati in una fase di notevole rivolgimento.

Da paese cattolico siamo diventati un paese che cattolico non è più, siamo fondamentalmente un paese laico. Avevamo il più grosso partito comunista che è crollato. Abbiamo un modello di stato importato da quello francese, di tipo giacobino, ma  senza un'am­ministrazione conseguente. Tutte queste cose si pagano. Non sono cioè d'accordo nel contrapporre la società civile alla società politica, in quanto credo che, sostanzialmente siano la stessa cosa, e che piuttosto vi sia un deficit culturale e strutturale complessivo.

Altri ritengono che la mancanza di statualità nel nostro paese sia dovuta al fatto che noi abbiamo avuto due culture di base come quella cattolica e quella comunista. La cultura comunista, essendo internazionale e facendo riferimento a categorie essen­zialmente sociali, avrebbe portato a considerare lo stato in tono minore, una realtà cui non dedicare molta attenzione; la cultura cattolica, esaltando il discorso della persona e della società rispetto a quello dello stato, non avrebbe contribuito a far sì che nel nostro paese vi fosse uno stato come doveva esserci.

E' una prospettiva di analisi alla quale si possono eccepire mol­te cose, nel senso che la struttura dello stato italiano col cat­tolicesimo non c'entra molto. Si tratta di una struttura risorgi­mentale, che quindi ha modelli derivati dalla Rivoluzione france­se, proprio pensati per evitare al livello dello stato un plura­lismo sociale, come per esempio nei paesi anglosassoni. Questo tipo di stato  si è sviluppato anche sotto il fascismo. Per cui si è giustamente sottolineato che Mussolini aveva le caratteri­stiche culturali di tutto eccetto che del cattolicesimo. Ricordo che sorse un grosso scandalo quando il cardinale Biffi disse che il fascismo era la continuazione del Risorgimento, mentre questa affermazione, da un punto di vista culturale, è verissima.

La nostra è una situazione paradossale, perché la reazione  laica al cattolicesimo d'allora, ha fatto sì che lo stato liberale ita­liano fosse improntato da visioni statalistiche vicine a quelle marxiste, pur di evitare l'ingresso dei cattolici. L'esempio più macroscopico di questo è la scuola. Non ricordo precisamente l'occasione, ma un deputato liberale, agli inizi del novecento, quando si trattava di fare la riforma della scuola, disse che, secondo i principi liberali, la scuola doveva avere una caratte­ristica pluralistica, ma l'Italia era un caso particolare, per la presenza così sistematica e diffusa delle scuole cattoliche, per cui lo stato non poteva cedere la scuola alla società, perché al­trimenti la scuola sarebbe diventata cattolica. Questo ha deter­minato una paradossale convergenza tra liberalismo e marxismo, tra il pensiero laico, liberale, repubblicano, azionista, e così via, e il pensiero marxista, che poi si è estesa negli anni rug­genti, gli anni settanta, dalla scuola, agli ospedali, all'assi­stenza, a tutto. Questa è la crisi vera dello stato italiano. Senza dubbio, quelli che c'entrano di meno sono i cattolici, se non altro perché essi nel dopoguerra hanno dovuto comunque affi­dare certe funzioni a personalità liberali, hanno dovuto comunque fare una maggioranza con loro e hanno dovuto mantenere questa struttura statalista in minoranza, sostanzialmente, perché la Democrazia cristiana da sola certe riforme non le può fare, per­ché ha contro tutti.

 

 

Più società e più stato giusto

 

Noi abbiamo sintetizzato la nostra proposta nella frase più so­cietà, meno stato. Con ciò intendevamo dire che ci deve essere un’effettiva azione verso un modello di stato pluralistico. Per­ché questo avvenga è necessario che siano valorizzate risorse di fatto esistenti nel paese. Ci sono molte esperienze che possono essere sviluppate e fatte andare avanti. Facciamo degli esempi: la scuola è una di questi. Non esiste solo una scuola di stato, che spesso è in coma, ma esistono anche delle scuole libere che non sono in coma. Perché i genitori devono pagare due volte le tasse? Stesso discorso vale per gli ospedali, così come per i servizi prevalenti. Occorre, cioè, una vera apertura pluralistica dello stato. Questo è il primo passo. In secondo luogo, occorrono delle riforme anche molto semplici, che aggiustino un po' le co­se. Una di queste, è lo sbarramento al 5%, che è molto banale, ma mi pare una necessità se non vogliamo che la situazione esploda.

Quindi, da un lato rendere la società pluralistica nei servizi essenziali, cioè un concetto di pubblico che non sia coincidente con il concetto di statale; dall'altro lato, effettuare delle ri­forme molto semplici -e quella del 5% sarebbe già un contributo molto significativo-, che permettano alla situazione di raggiun­gere un maggiore equilibrio.

In realtà però, per essere giustamente intesa, la frase si prima dovrebbe essere: più società, più stato giusto, perché non è che ci voglia meno stato. Ad esempio, compito dello stato dovrebbero essere senz'altro garantire gli standard. L'organizzazione, anche pluralistica, dei servizi all'interno della società deve comunque adeguarsi a degli standard, per quanto minimi, fissati dallo sta­to, e lo stato li deve fare rispettare. Sia chi fa la scuola cat­tolica, sia chi fa la scuola liberale, sia chi fa la scuola mar­xista, tutti devono porsi all'interno di un minimo comune denomi­natore posto, verificato e garantito dallo stato come standard, altrimenti è l'anarchia. In secondo luogo, c'è il principio di sussidiarietà: lo stato deve intervenire laddove il livello pri­vato non ce la può fare o non c'è. Su certe esigenze fondamenta­li, come ad esempio le risorse energetiche, un paese come il no­stro ancora adesso non può fare a meno dello stato, semplicemente perché la nostra classe imprenditoriale è insufficiente, molto privatistica e sostanzialmente non forte. Vi sono due o tre mono­poli, come la Fiat, ma non c'è una classe imprenditoriale forte, e guai se tutto il governo delle strutture energetiche del paese cadesse in mano a questi. Sarebbe un disastro; ad esempio, in una situazione di recessione come quella che attraversiamo, c'è la tendenza a costringere lo stato a svendere. E' il problema delle privatizzazioni: sappiamo tutti che l'Alfa Romeo, venduta alla Fiat, non è ancora stata pagata, perché la Fiat la pagherà quando comincerà a guadagnare; così sulla Montedison c'è stata una spe­culazione di migliaia di miliardi. I privati stanno costringendo lo stato a svendere quello che ha e questo è sbagliato. Da un certo punto di vista sono d'accordo con Dahrendorf, non ci vuole uno stato minimo, ci vuole uno stato giusto e forte. Il principio di sussidiarietà e la garanzia degli standard sono due punti fon­damentali. In più, la struttura tipica che abbiamo noi, le parte­cipazioni statali, che hanno permesso la ricostruzione e lo svi­luppo del paese, devono essere tutelate. 

 

 

Formazione e partecipazione

 

Non si può disconoscere un’esigenza di formazione, occorre tut­tavia anche insistere affinché questa non rischi di essere a­stratta. Personalmente sono abbastanza annoiato da questo conti­nuo richiamo etico che, alla fine, non risolve mai nulla. I valo­ri sono sempre connessi con la loro radice ontologica, non sono mai a prescindere; per comprendere la radice ontologica di un valore bisogna partecipare con l'essere che produce questo valo­re. Quindi, non può essere razionale nel senso di razionalistico, ma razionale nel senso di ragionevole: partecipando, cioè, ad un certo contesto si comprende la verità di una certa posizione.

Il problema più che di formazione teorica astratta, è un problema di presenza, di possibilità di incontro e di coinvolgimento. La nostra preoccupazione, infatti, è che viga quel principio che è valso anche nei primi secoli, cioè la libertas ecclesiae, che questo soggetto si possa esprimere liberamente, perché la gente deve potersi incontrare, deve potersi coinvolgere. Questo è l'u­nico modo per fare esperienze di un certo valore fino ad esserne convinto, altrimenti non esiste un'altra possibilità. Questo non perché non si possano comunicare le cose razionalmente, ma perché la razionalità è qualcosa di diverso dal sistema di collegamento dei neuroni, è ragionevolezza, che assume consistenza partecipan­do a qualcosa, altrimenti non si capisce. Ad esempio, dopo un periodo in cui l'ospedale era nato come ospizio per i poveri, per gli ammalati, nel Rinascimento l'ospedale è fortemente decaduto. In seguito, è potuto rinascere grazie alla gente che si è messa a fare l'ospedale e a coinvolgere l'altra a gente, facendo capire che agire così era meglio che agire in altro modo. Questa è la logica entro la quale concepiamo una corretta formazione.

Per quanto ci riguarda, poi, noi abbiamo un'attività di formazio­ne sulla dottrina sociale cattolica, che è svolta da un'associa­zione che si riferisce al Movimento, pur non essendo del Movimen­to stesso. La scuola ha un'attività periodica, che si articola in tre o quattro incontri all'anno su tematiche pertinenti alle si­tuazioni contingenti così come emergono. E' un'attività con una sua organizzazione, elaborazione di contenuti, produzione di ma­teriali di studio, ecc.

C'è poi un istituto di ricerca, che è l'Istra. Anch'esso non è del movimento, ma fa riferimento ad esso, ed è punto di riferi­mento culturale per varie iniziative, declinate a diversi livel­li. Nell'Istra vi è un'attività di ricerca che riguarda diversi campi, quali la sociologia, la teologia, l'economia, la sanità, e così via. Naturalmente, si presentano difficoltà di vario genere, soprattutto nella ricerca dei fondi.

In questi ultimi anni la tendenza principale è stata verso la contrazione delle attività di ricerca e, per quanto ho potuto personalmente constatare, anche delle attività di formazione. Nel caso delle attività di ricerca interpreto il fatto in relazione alla contrazione dei fondi a disposizione; questi sono sempre i primi ad essere tagliati in una fase recessiva. Per quanto rigua­rda la partecipazione e l'attività di formazione, penso sia cala­ta a seguito del processo di secolarizzazione cui facevo riferi­mento all'inizio. Si parla molto di principi, ma in effetti non esiste un sistema di educazione popolare, e questo a tutti i li­velli, anche nelle parrocchie.

C'è cioè un bisogno profondo di queste attività educative, e si pone un problema di risorse, che però potrebbe essere facilmente risolvibile con l'esenzione fiscale per chi fa donazioni o inter­viene per questo tipo di realizzazioni, come in tutti i paesi civili. Solo da noi, se uno lascia un miliardo ad un ospedale, poi deve pagare le tasse. In questo modo non si riescono ad uti­lizzare le risorse private per delle attività che alla fine ri­sultano pubbliche. C'è un bisogno assoluto di queste iniziative, ma il modo per sganciarle dai partiti e dalla politica, è quello di aprire la possibilità di fondi privati. Altrimenti, queste iniziative saranno sempre legate alle uniche strutture che in Italia possono raccogliere soldi e farne legalmente quello che vogliono, che sono i partiti.

 

 

E' possibile uscire dalla crisi, ma è anche possibile una tragedia

 

Fare l'indovino è sempre difficile, ma, per quel che mi consta, la nostra è una situazione che potrebbe anche finire in tragedia. Bisogna ragionare considerando non solo i nostri problemi, ma il contesto internazionale. Non ci rendiamo conto, forse cominciamo ad accorgercene solo ora, della pressione dei paesi poveri sul­l'Occidente, che è destinata a divenire sempre maggiore. Inoltre, c'è la situazione dei paesi dell'Est europeo. Non dobbiamo poi dimenticare che la nostra è una struttura debole. Tutti questi fattori messi insieme rendono la nostra situazione veramente se­ria nel contesto internazionale. Il crollo del comunismo non in­dica la fine di un'esigenza di giustizia, che emergerà in altro modo, e l'obiettivo da percuotere siamo noi, i paesi ricchi, non altri. Questo fattore connesso con la strutturale debolezza dal punto di vista dei valori dell'Occidente, di fatto esistente, potrebbe portare ad esiti drammatici. D'altra parte, non si può dimenticare che delle risorse esistono e, quindi, volendo, si po­trebbe porre rimedio a questa situazione. Si dice che l'Italia è in crisi, ma di fatto è un paese ricchissimo di risorse umane. Certo queste risorse vanno mobilitate attraverso una partecipa­zione in prima persona e popolare. Per ora è una partecipazione minoritaria, ma mi auguro che non sia così in futuro, e in questo senso anche solo i tentativi per rovesciare certi rapporti di forza sono importanti. Le forze in campo sono molto differenti, perché, da una parte vi sono la grande stampa, la televisione, che vanno tutte massicciamente in una direzione precisa, forte­mente individualistica, per cui la libertà è intesa come rottura dei legami, indipendenza. In questo modo l'uomo che da solo as­sorbe il telegiornale e la televisione ritiene di pensare con la sua testa, mentre in realtà pensa con quanto ha sentito dalla televisione, o che legge sul giornale. Dall'altra parte, invece, la possibilità di verificare ciò che ha sentito, all'interno di una compagnia, sulla base di un'esperienza, che renda ragione della verità di una proposta, è un fatto obiettivamente minorita­rio. Questo è l'aspetto veramente preoccupante. Io mi auguro che questa situazione cambi. Se si può fare qualcosa per operare nella direzione di questo cambiamento, facciamolo.

Noi cerchiamo di votare Dc proprio per questo, per il suo carat­tere popolare. E' una valutazione che si basa sul discorso che abbiamo appena fatto. Sono perfettamente d'accordo sulla neces­sità dell'unità dei cattolici affermata dai vescovi, come scelta contingente non come dogma, per la gravità della situazione che loro stessi mi sembra che avvertano. Certo la situazione resta per moltissimi versi grave, anche all'interno della stessa e­spressione politica dei cattolici. Questo assunto del carattere popolare spiega allo stesso tempo perché noi ci terremmo molto che l'ex-Pci, il Pds, recuperasse la sua posizione di forza popo­lare. Siamo stati paradossalmente accusati di essere filocomuni­sti, proprio perché vorremmo che, una volta eliminati tutti gli aspetti negativi del passato, ciò che il comunismo aveva di vali­do, ovvero la politica come espressione di una realtà popolare e come espressione di solidarietà, permanga, ci auguriamo che per­manga. In questo modo, avremmo circa il 50% della rappresentanza politica, che sia all'opposizione o al governo è indifferente, perché è all'interno di una concezione popolare di cultura poli­tica che si esprime nelle istituzioni.


Beppe Lumia, Movi (Movimento volontariato italiano).

 

 

 

Pensare e praticare la democrazia consapevoli dei bisogni del paese

 

In termini generali si parla nel nostro paese di crisi di rappre­sentanza, di crisi di organizzazione del consenso, una crisi di governabilità. Bisogna però stabilire se questa crisi è una crisi in sè, al di fuori di altri aspetti che toccano valori, contenuti e processi sociali più ampi, oppure se è appunto una crisi molto più ampia, una crisi del pensare e del praticare la democrazia. Io penso che siamo dentro questo ampio filone. Oggi il nostro paese si avvia a vivere una transizione molto particolare, muore un vecchio sistema che ha avuto tante virtù e tanti vizi. Il gua­io è che in questa transizione si possono perdere le virtù e transitare con i vizi.

Una alternativa a questo tipo di transizione è quella di rispon­dere con una rottura, di cui nel nostro paese esiste una domanda, spesso molto ambigua, contraddittoria, sicuramente non riconduci­bile ad uno schema buono-cattivo (società civile buona, sistema istituzionale cattivo), a delle semplificazioni rigide e mani­chee. Ci sono però già degli elementi che cominciano a distin­guersi: da questo punto di vista, bisognerebbe immaginare una fase di transito, che veda la possibilità di far esprimere sog­getti nuovi che nel frattempo si sono evidenziati e che nella tradizionale rappresentanza del sistema politico incentrato sulla forma partito, seppure nella sua versione riformata, non trovano spazio.

Mi riferisco al nuovo associazionismo, alle nuove forme di volon­tariato. Si deve pensare ad una costituente molto più ampia di quella che si fece nel '48, che fu affidata allora necessariamen­te alla forma partito perché deboli erano lo stato e la società civile. Se ciò non accadrà, inevitabilmente andremo incontro a delle risposte di tipo autoritario o, comunque, a dei correttivi deboli quali possono essere delle giuste e necessarie riforme istituzionali, che tuttavia non vanno a toccare la radice molto profonda e corposa su cui bisognerebbe agire. Mi chiedo insomma  perché il volontariato, l'associazionismo impegnato nel'ambien­talismo, nelle cooperazione Nord-Sud o nelle imprese cooperative di economia sociale, perché tutti quei soggetti che hanno un'e­sperienza straordinaria di merito, di valori, di contenuti, deb­bano delegare tutta la loro esperienza esclusivamente alla forma partito, o a quelle forme di movimento che basano il proprio agi­re esclusivamente sul meccanismo della rappresentanza elettorale. E' un interrogativo che noi ci dovremmo porre.

Un'idea potrebbe essere quella di provare a definire delle forme di legittimazione più di tipo sociale, in cui questi vari sogget­ti abbiano la possibilità di proiettarsi direttamente anche sul piano politico. Essi dovrebbero cioè essere anche soggetto poli­tico in sè, non solo in supporto, ad esempio, ad un movimento am­bientalista presente anche dentro le istituzioni. Bisognerebbe appunto studiare delle forme molto più articolate da questo punto di vista.

Un approccio capace di interagire col dato politico e il dato i­stituzionale potrebbe avviarsi inoltre attraverso una seria ri­flessione sul bisogno di comunità presente nel nostro paese. Spe­sso questo bisogno di comunità si veste in modo contraddittorio e ambiguo e trova delle espressioni un po' premoderne come la ap­partenenza all'etnia, fenomeni localistici. Bisognerebbe invece puntare, non tanto su un decentramento del tipo di politica fatto oggi a Roma nei confronti delle regioni, della provincia, dei comuni fino ai vari quartieri, che alla fine si riduce a un pote­re di certificazione o alle piccole manutenzioni, ma piuttosto pensare ad ipotesi che presuppongano forme di autogoverno. Piut­tosto che il decentramento, quindi, una fonte della politica che parte a ridosso della vita dei cittadini e che via via, a cerchi più ampi, si allarga e diventa fatto più globale. Questo è un esempio molto importante di possibilità di risposta ad una doman­da di rottura, che raccolga il meglio della nostra tradizione democratica e nello stesso tempo sia capace di produrre delle profonde trasformazioni.

Allora, per vivere una diversa fase costituente del nostro paese che abbia memoria rispetto a quello che si è fatto nel '48 e nel­lo stesso tempo sia in grado di produrre scarti virtuosi democra­tici e non autoritari, c'è bisogno di mettere in campo valori, e quindi una nuova etica della responsabilità. Occorre anche comin­ciare a rivedere le regole elettorali, affinché diano sempre la possibilità di un'ampia partecipazione, magari anche con una sem­plificazione della rappresentanza politica, senza però appunto passare a delle forme che riducano la complessità e la ricchezza della nostra partecipazione democratica. C'è bisogno che il con­senso elettorale si possa anche esprimere nei confronti dei con­tenuti programmatici, che tengano conto del desiderio di comunità in termini di autogoverno e non di decentramento.

C'è inoltre un ulteriore bisogno da salvaguardare, quello di in­terdipendenza. Bisogna sempre accompagnare ad un bisogno di comu­nità, da gestire in modo diverso da come lo si è gestito sinora, un bisogno di interdipendenza, che sia in grado di legare le for­me di comunità a una capacità di governo dei processi più com­plessi. Nel nostro caso anche in una transizione del nostro paese tra un'area mediterranea, che si sta ridefinendo, ad un'Europa, anch'essa in mutamento.

Da questo punto di vista sarebbe interessante riflettere sul ca­rattere regionalista del nostro paese. Il livello regionale sem­bra un buon livello, in quanto a ridosso di un bisogno di comuni­tà da gestire in modo nuovo e in quanto luogo di possibili inter­dipendenze che hanno un carattere molto più complesso e che biso­gna sviluppare in tempi brevi; sul versante soprattutto politico e sociale, più che su quello della interdipendenza economica. Quest'ultima benché abbia delle difficoltà grandi ad attuarsi, usufruisce già di un linguaggio, ha delle pratiche, ha dei luoghi dove potersi esprimere. Mentre invece l'interdipendenza politica è ancora molto debole, quasi esclusivamente legata allo stato-nazione. Lo stesso è per la dimensione sociale, basti pensare che a livello europeo l'unica espressione ne è stata la carta dei lavoratori, delle figure quindi garantite, mentre le nuove forme di povertà e di emarginazione non hanno trovato cittadinanza.

Questo bisogno di interdipendenza potrebbe, insomma, essere tema da affrontare in un'ipotesi di studio a livello regionale, a un livello che non si legittima più semplicemente per una specifici­tà solo etnica o storica relativa al passato, ma in grado anche di legittimarsi rispetto all'evoluzione che si sta avendo nel nostro contesto più globale e internazionale. Bisogno di interdi­pendenza e di comunità, che oltre ad una riflessione sulle rego­le, che si sta sviluppando in maniera anche abbastanza interes­sante, ha bisogno di riflettere un po' di più anche sui soggetti e sui valori.

Allora, dicevamo: vi sono tanti soggetti nuovi, sono semplicemen­te degli elementi introduttivi a una partecipazione politica, un dato pre-politico, forme di gestione di pezzi di stato sociale non funzionanti e troppo burocratizzati? O sono qualcosa di dive­rso, luoghi dove si può esprimere anche una forma di legittima­zione politica, e allo stesso tempo luogo di costruzione del tes­suto etico comunitario in cui far vivere l'interdipendenza nella sua dimensione sociale, a volte solo come tessuto etico, altre volte come tessuto organizzativo anche di tipo economico. Su que­ste dimensioni noi stiamo riflettendo molto, non solo in riferi­mento al nostro paese. Perché quando hai una crescita , uno svi­luppo sociale che richiedono maggiori forme di democrazia, di autogoverno, questo porta alla necessità di reinventare la comu­nità entro la quale si opera.

 

 

Centralità del bisogno di formazione politica

 

Il bisogno di formazione è fortissimo, per poter riflettere col­letivamente su questi processi; anche se non vi sono molte risor­se, la formazione deve diventare dato permanente, oserei dire quasi dato costitutivo della nuova cittadinanza. Se dovessi modi­ficare la nostra costituzione metterei: l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro e sul sapere, come il pane e il companatico, sottolineando lo scarto virtuoso che tiene conto della nuova ora e nello stesso tempo la arricchisce delle nuove esigenze.

E' vero che il nostro paese è molto povero di centri di sapere ed elaborazione politica di carattere nazionale, che vanno senz'al­tro sviluppati, ma in un momento come questo, in una fase di transizione in cui il sistema non tiene, bisogna incrementare di più l'aspetto formativo della cultura politica; siamo in una fase in cui c'è una transizione di tipo radicale, che coinvolge a tre­centosessanta gradi sfere sociali e di relazione. Dunque, bisogna accrescere la cultura politica attraverso la diffusione dei cen­tri di sapere, facendo in modo che la formazione diventi elemento prioritario. Essa  deve diventare l'elemento costitutivo per acquisire la cittadinanza, oltre al lavoro. La formazione deve diventare elemento costitutivo dell'appartenenza alla comunità, per acquistare quella cittadinanza sostanziale che regge la dina­mica sociale, il patto sociale e la possibilità di innovazione in un paese.

Questo discorso va a toccare il nostro sistema formativo più ge­nerale. Bisogna immettere in esso la formazione di tipo sociale e politico, altrimenti avremo una collocazione debole della richie­sta di far crescere la cultura politica. Dobbiamo farla crescere non perché esiste un buon meccanismo di rappresentanza che dob­biamo spiegare e rispetto al quale acculturare un'ampia fascia di cittadini, ma perché al contrario la formazione politica deve diventare una risorsa permanente, costitutiva della mia cittadi­nanza e anche della nuova cittadinanza, sia dei nuovi soggetti sociali, sia della ridefinizione dei soggetti della rappresentan­za politica, come i partiti, come i nuovi movimenti elettorali stessi o i sindacati in alcuni casi. Questo è l'obiettivo: la formazione dato permanente della cittadinanza.

Da questo punto di vista non bisogna avere nostalgia di grossi centri di formazione, di grossi apparati di formazione che, a cascata, diffondono sapere nella cultura politica, ma bisogna pensare ad una formazione permanente, una formazione anche di tipo politico-culturale, radicata nel contesto comunitario e nel contesto dell'interdipendenza, capace di essere abbastanza ricca, complessa e organizzata a un livello regionale e interregionale. Se allora la formazione è importante per questa fase di transi­zione e per il futuro, bisogna prevedere la formazione come sta­tus del cittadino, dei gruppi, delle istituzioni e dei soggetti politici più classici. Da questo punto di vista, è bene che un livello di formazione e di ricerca attenga autonomamente a tutti i vari soggetti e quindi che non si preveda un soggetto estraneo deputato alla formazione, ma che l'istituzione sia in grado di produrre essa stessa formazione. Lo stesso vale per l'associazio­nismo e il volontariato o altri soggetti tra cui, anche per moti­vi politici, le varie forme di movimento. Un certo livello di formazione deve appartenere a tutti i soggetti, perché si è vera­mente protagonisti consapevoli e progettuali se si ha una buona capacità di formazione e anche di ricerca.

Noi nel volontariato stiamo lavorando molto su questa ipotesi, cercando di determinare una formazione e una ricerca che parta però dalla nostra esperienza. Il volontariato non è un soggetto ideologico oppure un soggetto etico a priori, un soggetto proget­tuale a priori, ma è una realtà che fa esperienza di condivisio­ne, che vuol ricostruire le relazioni di comunità e vuole anche contribuire al rinnovamento dell'interdipendenza. Per questo ci è più facile, ad esempio, lavorare molto sul livello regionale; ho visto che anche altre realtà di volontariato stanno operando in questo senso, perché ci consente di unire il lavoro per realizza­re nuove relazioni di comunità, con la possibilità di gestire la dimensione di interdipendenza.

Naturalmente, poi, c'è una ricerca, una formazione d'eccellenza per la quale si possono prevedere dei centri particolari, che non devono però essere sostitutivi, semmai complementari. Da questo punto di vista sicuramente per il terzo sistema, cioè per quel sistema che non è privato e che non è neanche stato, che è invece associazionismo, volontariato e cooperazione sociale, si possono prevedere dei luoghi dove poter appunto fare un tipo di ricerca di eccellenza che sia di supporto alla formazione dei circoli ordinari. Finora c'è stata una forbice fra queste due dimensioni, della formazione diffusa e della ricerca; nella nostra esperienza di volontariato la formazione spesso veniva fatta a ruolo, e la ricerca era un momento asettico di lettura. Invece, noi vorremmo che ricerca e formazione fossero un dato permanente e anche molto diffuso. Noi lavoriamo affinché la ricerca sia un dato permanente dell'attività di un gruppo di volontariato, che prima di fare un progetto deve riuscire sempre a posizionarsi nel campo della ri­cerca; un tipo di ricerca più di intervento, meno accademica, più legata ai casi di vita, connessa all'agire sociale. In questa direzione sta crescendo un bisogno molto forte, che nello stesso tempo però si deve legare a una ricerca anche più complessa e che deve trovare anche dei luoghi dove il privato sociale non sia semplicemente soggetto studiato, ma sia anche soggetto che sa interrogarsi, verificarsi e interrogare altri livelli quale quel­lo istituzionale, quello del mondo delle imprese o di altre real­tà, le quali contribuiscono nel nostro campo a definire condizio­ni di emarginazione, oppure viceversa condizioni di solidarietà.

 

 

L'impegno formativo del Movi e la sua evoluzione

 

Come Movi c'è una lunga storia di impegno formativo, anche perché il Movi ha dall'origine al suo interno un gruppo di formatori che negli anni settanta hanno operato nel campo delle politiche so­ciali, quando tra gli operatori pubblici si cominciava a definire un nuovo impegno sociale. Allora la formazione fu immediatamente una dimensione importante, sia di legittimazione nell'impegno sociale, sia come un momento essenziale dell'intervento concreto di gestione dei servizi sociali. Noi abbiamo ereditato questo carattere sperimentale della formazione. C'era il filone dell'E­nauli, un ex ente inutile di cui era presidente Luciano Tavazza, che interveniva sui bambini orfani e di guerra; avendo l'ente sperimentato un'operazione di deistituzionalizzazione, tutti gli operatori che lavorarono al suo interno si trasformarono in ope­ratori sociali attraverso un'opera di formazione, allora ancora tutta spontanea o poco organizzata.

Un secondo filone con cui il Movi si è intrecciato alla sua na­scita, è quello della formazione a stimolo cislino, anche se ciò non avvenne proprio in forme dirette:  in quella fase in Cils si sviluppò un sistema formativo che andava a legittimare per la prima volta il meccanismo della rappresentanza sindacale; non era più solo la condizione lavoro o la tessera, ma anche la formazio­ne il criterio di legittimazione nella selezione dei quadri. Così l'esperienza Movi è stata arricchita anche da alcuni che proveni­vano dal Cenarca, una struttura della Cisl di Carniti creata per attivare processi economici e di autoresponsabilizzazione della comunità, che sviluppò un forte intervento formativo.

Un altro intervento  che ha stimolato molto la formazione Movi è quello degli operatori che si sono confrontati sul tema della psicologia di comunità. Questo è stato un filone formativo molto interessante, che ha trovato diverse figure che si sono formate alla scuola della Francescato e che poi piano piano hanno contri­buito ad arricchire il cammino del Movi.

Un ulteriore filone proveniva direttamente da esperienze di ma­trice associativa, dall'Agesci, dall'Azione cattolica, da  espe­rienze, cioè, in cui la formazione è un elemento portante. Io stesso vengo dall'Azione cattolica, dove si utilizzava una meto­dologia, una pedagogia, soprattutto nell'agire con i ragazzi, nel gestire le dinamiche di gruppo, nell'organizzare attività di ani­mazione, in cui la formazione era veramente essenziale e perma­nente e quindi anche questo ha arricchito un po' la formazione Movi.

In seguito si è cominciato a creare una serie di esperienze gio­cate a due livelli:  siccome il Movi è un movimento che collega diversi gruppi di volontariato, ci toccò da subito il compito di sviluppare un'idea moderna di volontariato, che superasse nell'a­rea cattolica, la visione assistenzialistica dell'impegno e della carità, e insieme superasse, anche nella cultura laica di sini­stra, la visione di un volontariato come figura debole o, comun­que, come figura da leggere all'interno della categoria lavoro e, quindi, di lavoro nero. Si è così sviluppata tutta un'azione pro­mozionale culturale nei confronti dei gruppi che si impegnavano nel volontariato al fine di sviluppare l'idea moderna di un vo­lontariato che rimuove le cause dell'emarginazione, che intervie­ne a responsabilizzare la comunità e a trasformare le istituzio­ni. In questo contesto vi era un impegno fortissimo di formazione di base, fondata soprattutto sulle motivazioni al volontariato. Questo è stato in questi anni il livello che ha caratterizzato un po' ovunque l'impegno del Movi.

Attualmente l'asse dell'impegno del volontariato si sta spostando dal momento della promozione, e quindi della consapevolezza di cos'è il volontariato, delle caratteristiche che deve acquistare un volontariato moderno, alla definizione di un soggetto che co­mincia ad essere strutturato e che si pone in relazione con la comunità, con una maggior esperienza, tenendo conto di tutti i meccanismi della interdipendenza con le istituzioni. Da questo punto di vista, la formazione cambia anche veste e comincia ad assumere una dimensione un po' più progettuale. Non più una for­mazione solo alla motivazione, ma una formazione in grado di co­involgere tutti i vari soggetti con cui entra in rapporto il vo­lontariato. Quindi una formazione insieme agli operatori pubbli­ci, una formazione anche più di eccellenza e non solo di base, per sviluppare dinamiche attive di coinvolgimento della comunità, di gestione dei meccanismi dell'interdipendenza, di rapporto con le istituzioni, e quindi una formazione non solo gestita all'in­terno del volontariato, ma che comincia ad aprirsi. Se all'inizio i livelli erano immediatamente di base, adesso il livello che più si va assestando è quello regionale, proprio perché la regione, da un lato intercetta il bisogno di comunità e fa in modo che questo bisogno di comunità acquisti una veste nuova e non sia semplicemente localismo, separatezza, appartenenza, e quindi dal­l'altro, intercetta il bisogno di interdipendenza in modo che questo bisogno permetta di superare il carattere semplicemente locale, permettendo di raggiungendo un'appartenenza più ampia. Accanto anche al fatto che tutte le dimensioni politiche e socia­li sul piano più istituzionale si giocano proprio a livello re­gionale, stiamo lavorando perché si rafforzi la collocazione del­la formazione a livello regionale.

All'interno della nostra azione formativa, siccome abbiamo tan­tissime richieste, c'è un problema di sintonia fra finalità e mo­tivazione: è rischioso porre in relazione chi vuol fare un'espe­rienza di volontariato con quello che poi è la realtà concreta del volontariato, e quindi si cerca di evitare un  possibile im­patto del tutto sproporzionato tra le attese e la realtà. Stiamo quindi sviluppando questa fase della corretta motivazione all'ap­proccio, all'esperienza di volontariato. Tutto ciò è gestito a livello cittadino, al massimo provinciale, con corsi brevi, di circa dieci incontri, modulati mediamente intorno ad una frequen­za bisettimanale; si utilizzano tutte le metodologie più avanza­te; non sono previsti solo momenti di docenza e trasmissione di conoscenza che lasciano il partecipante come contenitore, ma an­che momenti giocati sulla partecipazione in dinamica di gruppo; nelle diverse forme della relazione, scambio, laboratorio, eser­citazione, favorendo tutta la gamma della partecipazione e della formazione attiva.

Un altro livello di formazione si sta sviluppando superando piano piano la formazione per categorie. Prima, in una fase in cui si dovevano definire più i volti dell'emarginazione, si organizzava­no momenti di formazione sui temi dell'handicap, dei minori, de­gli anziani, degli immigrati. Adesso invece si tenta di superare l'approccio per categorie, per assumerne  uno che tenga conto della comunità che crea emarginazione, e quindi si va ad agire in essa cercando di attivare dinamiche nuove per rimuovere le cause dell'emarginazione. Stiamo tentando proprio la dimensione più trasversale, lavorando nel territorio, con le risorse e i poteri del territorio, studiando come interagiscono i processi di inter­dipendenza, come nel territorio si possano sviluppare dinamiche positive; questa è l'attività di formazione che si sta sperimen­tando più recentemente. Anche questa viene fatta con un'attività formativa che solitamente avviene durante l'anno, quindi con mo­menti sempre modulati a seconda delle esigenze ma ben struttura­ti, sempre programmati e ben definiti anche nel momento della verifica.

Momenti forti poi sono anche i momenti estivi che si sono svilup­pati soprattutto nel Sud. Si tratta mediamente di una settimana di formazione, attraverso corsi residenziali, strutturati a li­vello regionale, interregionale, giocati molto sul ruolo del vo­lontariato come soggetto relazionale che interagisce  con altri soggetti della società civile. Questa è una peculiarità che ab­biamo sperimentato in questi anni.

Un altro livello di formazione, sia a livello regionale che in­terregionale, sono stati i corsi biennali permanenti per volonta­ri. Si tratta di un programma biennale svolto durante i fine set­timana rivolto ai responsabili dei gruppi. Contemporaneamente, vista la necessità di creare un sistema formativo e visto che, normalmente, il sistema formativo appartiene alla comunità, noi stiamo evitando di creare gruppi di formatori simili a portaerei che si spostano nelle varie regioni, favorendo, invece, la crea­zione della formazione come momento permanente all'interno della comunità, quindi nelle realtà provinciali e regionali. Per questo si avverte l'esigenza di avere un momento di formazione dei for­matori. Si tratta di un impegno in via di sviluppo, con delle programmazioni regionali e biennali.

In conclusione credo si possa affermare che rispetto ad altre as­sociazioni le quali stanno pure cercando di incrementare l'atti­vità formativa, il Movi ne ha fatta parecchia e fin dall'inizio. Ci ha mossi la consapevolezza che la formazione è un momento strategico rispetto alla vita del movimento: in un primo momento ci permise la promozione di un'idea modello del volontariato, in un secondo momento, quella di un volontariato in relazione al territorio. Quindi, per noi la formazione è stato l'ingrediente per riuscire ad avere consapevolezza dei vari momenti e per ac­compagnare e governare la crescita del movimento che è stata ab­bastanza veloce, se si considera che nel '75 ha cominciato a muo­vere i primi passi, solo nel '78 si è formalizzato e adesso rag­giunge quasi mille gruppi. E' stata una crescita molto forte, per quanto molto selezionata e molto governata anche dal momento for­mativo.

La nostra formazione non ha mai operato al livello dell'integra­zione organizzativa, cioè di formazione all'appartenenza all'or­ganizzazione. Bisogna considerare che il dirigente medio del vo­lontariato è figura del tutto atipica rispetto al dirigente asso­ciativo classico, o del sindacato o del partito, perché il volon­tariato nasce come momento di condivisione e non di autorappre­sentazione della realtà e quindi la nostra formazione è poco proiettata sui meccanismi interni, ma molto immediatamente spen­dibile nella realtà. Nonostante questo abbiamo costituito delle realtà formative  che ci hanno aiutato tantissimo nella nostra formazione interna e che ci hanno accompagnato. Storicamente, ad esempio, la Fondazione Zancan ha avuto un ruolo fortissimo, pur non essendo struttura di volontariato, ma avendo un rapporto stretto, fisico, programmatico e progettuale con esponenti del volontariato. Noi, come Movi, abbiamo promosso l'osservatorio meridionale a Reggio Calabria, formato da figure con una base partecipativa sul versante dell'organizzazione interna del Movi ed anche di altre realtà del volontariato, come momento in cui si potessero organizzare liberamente alcune fasi della formazione, soprattutto di quella strategica o di eccellenza. E così si stan­no attualmente creando altre strutture a livello regionale: a Milano, ad esempio, abbiamo creato un centro studi regionale, promosso all'interno del Movi, capace di raccogliere stimoli dal contesto sociale più ampio. Il Movi solo di recente ha creato una Commissione Nazionale Formazione, una struttura che si occupa delle esperienze formative che vengono gestite da realtà esterne al movimento, che non seguono le dinamiche democratiche e di in­tegrazione interne, ma che, nello stesso tempo, vivono l'espe­rienza del volontariato, sono contaminate dai valori, dalle ten­sioni e dalla progettualità di esso, dando contemporaneamente a noi uno stimolo ulteriore.

La formazione in una fase più avanzata non è più formazione al ruolo, all'emancipazione attraverso il lavoro, come avveniva fino ad alcuni anni fa, quando c'era un problema di alfabetizzazione, di superamento di sottosviluppo e quindi occorreva la formazione come veicolo alla modernizzazione. Oggi la formazione è all'in­terno della crisi della modernizzazione, quindi deve diventare un momento permanente della comunità locale e il problema del dentro e fuori si pone sempre in rapporto alla comunità. Non vi è sol­tanto un volontariato committente di servizi per utenti, che ri­chiede di conseguenza una formazione per gestori di servizi, per l'acculturazione dell'utente, ma occorre una formazione all'azio­ne nella comunità. Da questo punto di vista, allora, anche le agenzie esterne devono porsi in relazione a questo nuovo obietti­vo. Noi ad esse ci appoggiamo non per delegare pezzi di formazio­ne, ma per sviluppare insieme dinamiche più ampie di formazione del volontariato come soggetto del pubblico e della normalità della comunità.

E' con  queste modalità che ci affianchiamo a strutture come, ad e­sempio, la fondazione Zancan, e accanto a questa, anche ad altre tre strutture più recenti create dal Movi: un centro studi a Mi­lano; Paideia, un'associazione di consulenza e di formazione pro­mossa anche con altre strutture in Campania per l'intero territo­rio meridionale; e infine l'Osservatorio Meridionale con sede a Reggio Calabria. Insieme a queste, se ne stanno creando molte altre in ogni regione: in Veneto, in Puglia, in Sicilia, in Basi­licata, e così via. Si tratta di strutture che fanno formazione e anche ricerca. Nella stessa linea vorrei ricordare anche la Fon­dazione italiana per il volontariato, sorta di recente, con sede a Roma. Non è una struttura di movimento, di organizzazione, ma è una struttura esterna che va a supporto dei movimenti e dei col­legamenti del volontariato. Costituirà un ulteriore elemento di stimolo e di scarto, soprattutto a livello nazionale.

 

 

Il vincolo dell'esecutivo sulla società civile: un limite da superare

 

Purtroppo tutta questa vivacità e capacità di iniziativa formati­va trova un pesante limite; il lato più manifesto di questa si­tuazione è dato dal problema dei finanziamenti pubblici per que­ste iniziative, ma io penso che più in generale si tratti di un problema che nel nostro paese può essere definito nei termini di mancanza d'autonomia dall'esecutivo. Noi abbiamo un meccanismo in cui la società civile nella sua articolata realtà, soprattutto nella dimensione associativa, di volontariato, di struttura di formazione e di ricerca non profit, dipende troppo dall'esecuti­vo. Non esiste ancora una forte autonomia, legittimata istituzio­nalmente della società civile. Per quanto essa sia forte, per quanto cresca, non riesce ad esprimersi al meglio, perché dipende troppo dall'esecutivo. Nello stesso tempo, vi è un sistema che non riconosce neanche alle istituzioni un'autonomia rispetto al­l'esecutivo. Un'esecutivo che prevarica sull'istituzione, preva­rica nello stesso tempo sulla società civile.

Alcune volte  dico che susciterebbe scandalo, se qui, in Italia, fossimo ancora nelle condizioni di un sistema in cui l'esecutivo controlla la magistratura. Ma anche se ciò non suscita uguali proteste, è altrettanto scandaloso rispetto alla società civile organizzata. Noi dobbiamo spezzare questo vincolo. Diverrà allora semplice conseguenza che le istituzioni possano legittimare, dare risorse alla società civile organizzata, senza che questo passi attraverso la mediazione del sistema politico e partitico. Questo è un primo punto molto importante.

In secondo luogo, la formazione da noi è sempre stata sottovalu­tata o delegata al sistema formativo classico di alfabetizzazio­ne, mentre per il resto è stata lasciata al privato profit, so­prattutto negli ultimi anni con la modernizzazione, dopo la crisi degli anni settanta, quando la formazione è stata gestita diret­tamente dal sistema delle imprese. Il sistema sociale, invece, non ha avuto alcun sostegno nel campo della formazione. Noi do­vremo batterci perché nel sociale vi sia piena legittimità della formazione, e dovremo fare in modo che il sistema pubblico sia rilanciato e che questo possa entrare in rapporto più libero e più progettuale con le organizzazioni della società civile.

Detto questo, siccome non esisterà mai un sistema pubblico neutro e bisogna sempre evitare una dipendenza diretta, è importante che anche il momento dell'autofinanziamento per tutte le organizza­zioni non sia limitato solo al mantenimento, alla gestione del­l'organizzazione. Bisognerebbe andare a vedere nelle varie asso­ciazioni, nei vari gruppi, come le risorse che si accumulano at­traverso l'autofinanziamento vengono spese, in che misura per l'autogestione e in che misura per la formazione. Siccome di so­lito si tratta di risorse limitate, vanno tutte al mantenimento  dell'organizzazione. Se parallelamente aumentassero le risorse pubbliche non pilotate né mediate dal sistema politico e dal si­stema partitico, e l'autofinanziamento da parte della società ci­vile crescesse, favorendo la possibilità di avere risorse in esu­bero rispetto all'aspetto gestionale, la formazione potrebbe ac­quistare incidenza sia all'interno sia in relazione ad altri sog­getti.

Nel nostro caso i corsi di formazione attualmente vengono finan­ziati e  realizzati in maniera volontaria, quindi comportano co­sti bassi in termini di progettazione, di docenze, di tecnologia appropriata necessaria. I partecipanti pagano una quota che va a coprire le spese di gestione della sede e le altre spese fisse. Per alcuni corsi, invece, si sono utilizzati contributi pubblici di diverso tipo, sia da parte dell'ente locale, sia da parte di altri enti. Si tratta di contributi diversi che vanno dalla di­sponibilità di una sede ad un sostegno economico vero e proprio.

Volendo tirare le fila di tutto quanto si è detto, posso afferma­re che per quanto riguarda la formazione si è creata una situa­zione che nel suo complesso si sta evolvendo. Per favorire una crescita ulteriore forse dovremmo avere un sistema politico un po' più maturo, in grado anche di produrre formazione; un sistema di partiti che si alleggerisce, ma che contemporaneamente, sia in grado di produrre sapere e formazioni; un sistema pubblico e am­ministrativo che fa sua la formazione come risorsa strategica; infine, un sistema di formazione politica all'interno della so­cietà civile che in questo momento rappresenta il livello strate­gicamente più importante e da rafforzare.

Una azione in tal senso potrebbe soprattutto scindere l'equiva­lenza partito = politica, per cui se muore quel tipo di organiz­zazione totalizzante che ha sinora avuto la forma partito, muore la politica. Bisogna fare in modo che  la politicità si diffonda sempre più e che la forma partito si possa assottigliare come ruolo e come presenza nella società civile. Invece, spesso, come sembra avvenire in altri paesi europei, il pericolo è che ad un ritiro della forma partito corrisponde una spoliticizzazione del­la realtà politica. Bisogna evitare proprio questo passaggio.


 

Luciano Tavazza Fondazione del volontariato

 

 

 

Democrazia bloccata, democrazia strozzata

  A proposito della crisi politica del nostro paese, gli studiosi parlano di democrazia bloccata, la gente di democrazia strozzata. Questo per definire una situazione in cui quando le forze miglio­ri, in particolare all'interno del mondo giovanile che si aggrega intorno all'associazionismo, tentano di passare dalle prime forme di aggregazione, di impegno nel sociale, a forme più intense, di impegno dal sociale-politico al mondo dei partiti, si trovano continuamente respinte o non accolte, se non entrano in queste strutture con una mentalità di parte anziché con una mentalità di servizio. E sono talmente respinte e emarginate, da avere un senso di strozzatura tra carica etica messa a disposizione e loro impegno; forze migliori che molto spesso tornano indietro e rifluiscono nell'associazionismo, nel volontariato e in altre forme cooperative, perché li ritengono vi siano gli unici spazi in cui non è violata la loro libertà.

Questo provoca un fenomeno gravissimo. Non tanto la disaffezione al politico, quanto la sensazione che sia impossibile fare vita di militanza di partito senza essere venduti a qualcuno e senza entrare in un sistema in cui la burocrazia ha la meglio sui contenuti della vita di partito.

Avviene cioè che in presenza di un grosso invaso etico prodotto dall'associazionismo, dal volontariato, dalla cooperazione, spesso anche dai patronati, un invaso che potrebbe essere usato come i laghetti di montagna per dare acqua, non c'è nessuno che apra il rubinetto e quest'acqua rista­gna e finisce per diventare una forza etica che si applica invece alla famiglia e a canali di intimità, perché non può avere  degli sbocchi sulla struttura e sull'ansia di mutamento che, normalmen­te, l'associazionismo e il volontariato creano nei soggetti   Provenendo  dal mondo del non-profit e tentando di esportare  i suoi  valori nell'altro mondo, perché si ritengono i valori por­tanti di qualsiasi impostazione, si riceve l'impressione di esse­re accolti, nell'ambito politico, come dei ragazzini che non san­no vivere, perché le cose che si dicono sono utopia e non possono assolutamente incidere sul concreto. L'unica rivoluzione possibi­le,  invece,  è proprio questa utopia nel concreto, ma  al  primo problema nodale da affrontare non si comincia neppure a ragionare su ciò che è lecito fare, la risposta è: questo è l'obiettivo e ad esso bisogna arrivare.

Questo cinismo rimane, anche per gli uomini migliori dei singoli partiti, un dato non transitabile.

E' vero che l'uomo di  par­tito non è né il profeta, né il moralizzatore; ma per me significa non poter sperare nel paese se non ci si può mettere d'accordo su un piano etico, penso alle evidenze etiche di Bobbio, entro il quale  credenti e non credenti possano formulare un'intesa.  Gli stessi problemi, seppur sotto altre forme, li ritrovo in  diversi campi,  segno  che non si tratta solo di una questione  limitata all'orizzonte specifico della politica, ma più in generale è problema che investe lo stile di vita della nostra epoca Ad  esem­pio, mi chiedo, come mai non sia riuscito a trasmettere nei miei figli - e ne ho sei ­ quella carica ideale che io ho vissuto dalla Resistenza in avanti, pur avendo costruito un tipo di vita fami­liare  fedele a quei valori. Ma, quando i miei figli parlano con me, pur non essendo loro dall'altra parte, mi dicono che sono un uomo giusto dalla parte sbagliata. Il che vuol dire che ricono­scono  la trasparenza dei valori, ma ritengono che questi valori non siano applicabili in questo momento, perché il tessuto  politico è talmente cambiato, è diventato così rozzo, che non è in grado non solo di applicarli, ma neanche di percepirli. Ho la sensazione di battermi da solo e di essere velleitario. E questa sensazione non appartiene solo a me, ma a migliaia di persone. Penso  alle scuole di politica del mondo cattolico, cui io ap­partengo; personalmente le ritengo le scuole dell'impotenza. Sono le scuole del principio generale in base al quale bisogna costru­ire la città a misura d'uomo, ma cosa vuol dire la misura  d'uomo oggi  per una città? A questo non si arriva, si sta sempre a  li­vello di principi generali Si va avanti con il messaggio sociale della Chiesa: ma cosa vuol dire il messaggio sociale della Chiesa se poi nella pratica politica non si è conseguenti? Sui  principi generali siamo tutti d'accordo, ma oltre non si va.

 

 

La coscienza politica del volontariato e la domanda di formazione al sensus rei pubblicae

 

Per quanto riguarda il mondo del non-profit, la coscienza del volontariato è mutata fin dal 1975, e con essa tutta l'ottica im­plicita del mondo della formazione ad essa connesso, quando da una parte la Caritas italiana, in particolare per l'impulso dato da Mons Nervo e da Paolo VI, e dall'altra le pubbliche assisten­ze, cioè il mondo di sinistra, hanno cominciato a riflettere sul ruolo del volontariato all'interno del paese. Erano avvenuti due fatti molto importanti che avevano aperto questa discussione Il primo era il '68, che aveva portato  alla scoperta che tutto è politica non che la politica è tutto, che è follia e che ha portato al partito armato, cioè che ogni atto che facciamo ha un versante politico. Quindi, nell'agire, ci si deve chiedere a che parte politica si serve, anche se le intenzioni sono quelle del servizio dell'uomo. Il secondo fatto era il Concilio Vaticano II, con una Chiesa che si rivisita e che, in particolare nell'insegnamento di Paolo VI, comincia a dire che il primo gradino dell'amore non è la carità, ma è la giustizia. E' una Chiesa che, attraverso la Gaudium et spes, vorrebbe essere la Chiesa capace di accogliere con privilegio la sofferenza degli emarginati. Questi due detonanti sono molto diversi, ma creano una miscela esplosiva nel mondo cattolico, la scoperta che tutto è politica e che quindi ogni atto deve essere rimeditato dal punto di vista della funzione politica, mette in crisi profonda il volontariato. Il volontariato comincia, cioè, a chiedersi quale funzione politica abbia avuto nei primi settant'anni del secolo. Per essere oggettivi, la sua funzione è stata di contenimento del dolore della maggiore patologia sociale che abbiamo incontrato, ma sempre come atto riparatorio. Nessuno, però, si è chiesto come deve essere aggredito il sistema che produce questi mali. Dal '75 in avanti, con la scoperta che tutto è politica, i gruppi incominciano a domandarsi quale ruolo giocano. Cominciano a chiedersi se il loro occuparsi dei poveri fa sì che i politici si occupino ancora meglio dei ricchi. Questa consapevolezza era presente anche prima del 1975, ma non in forma così netta Essa diventa invece, in quell'epoca, motivo di meditazione nel gruppo e si scopre nella Caritas, che ha aiutato molto questo processo, che o il volontariato ha una dimensione politica, oppure non può neanche essere considerato volontariato, tutt'al più va pensato come assistenza e beneficenza. Allora nasce la necessità di nuovi processi formativi, perché il mondo cattolico è molto pronto alla beneficenza e all'assistenza, ma è del tutto non preparato all'impegno politico. E' impreparato a capire che la vita dei partiti deve necessariamente svolgersi in una certa maniera, perché se non si svolge in quel modo anche il nostro lavoro è del tutto marginale. Nello stesso tempo, si deve formare una persona che abbia ben chiara l'idea che l'obiettivo del volontariato non è il contenimento, ma è il mutamento dell'esistente. Mutamento che deve avere le priorità per le fasce deboli della popolazione. A questo punto nasce il problema di dare all'operatore del volontariato, ad esempio, una disposizione a studiare il territorio e a cogliere dal territorio le esigenze, le attese, le risorse esistenti e le risposte che sono state date a queste esigenze dal pubblico e dal privato. Questo per domandarsi oggi: dov'è la più alta lesione dei diritti di cittadinanza? E lì ristabilire i diritti. Ma, ristabilire i diritti significa assumere un volontariato che corre su un binario, finalmente, non più sulla monorotaia della sola generosità e dedizione. Un binario che è composto di testimonianza e rimozione delle cause. La rimozione delle cause implica la dimensione politica, perché non è possibile attuarla nella casa del volontariato, ma bisogna cercare un rapporto nuovo con le istituzioni, con le forze del terzo settore, occorre creare una strategia delle alleanze.

Nasce da tutto questo il bisogno di impostare una formazione politica nuova che faccia capire al cattolico che, innanzitutto, non nasce credente, ma nasce cittadino. Rispetto al dettato costituzionale, nel momento in cui fa volontariato, egli è innanzi­tutto cittadino o è solo volontario? C'è il rischio della doppia ipocrisia, di vivere, cioè una giornata in cui, come cittadino, sono come tutti gli altri, e quindi posso comportarmi in maniera scorretta, poi, alle cinque del pomeriggio divento solidale nella mia associazione. Se non si ha una visione politica del volontariato, si può vivere la propria avventura come credente facendo la buona azione quotidiana, invece che la scelta di vita della giornata, che è una cosa diversa. La scelta di vita della giornata si basa su principi etici, che possono essere di radice laica o di radice laica religiosa o, ancora, di radice solo religiosa. Se è una scelta di vita, comporta una scelta di impegno politico vissuto in momenti diversi, ma con un'unica etica. Da qui sorge la visione di una cittadinanza attiva. La definizione del volontario che demmo nel '75 è quella di una persona che, dopo aver adempiuti i suoi doveri di carattere familiare, sindacale, politico, aggiunge una donazione, una disposizione alla comunità per la sua crescita di intelligenza, di mezzi, di tempo, a seconda di ciò di cui dispone. Ma non ci deve essere una separazione.

Tutto questo richiede, ovviamente, una formazione diversa, che la catechesi non dà, perché essa dà il sensus ecclesiae, ma non dà quasi mai il sensus rei publicae. Bisogna allora costruire una sensibilità che ci ribadisca continuamente la nostra doppia appartenenza.

 

 

Per un moderno volontariato: la formazione

 

Queste attività sono state fatte e sono state gestite da quelli che sono maturati ad un volontariato moderno. Se oggi analizziamo i 12-13.000 gruppi di volontariato attualmente operanti in Italia, in generale, scopriamo un serpente con una testa che è quella del volontariato moderno, il meglio delle Pubbliche assistenze e delle Misericordie, che non supera il 40% del movimento di volontariato italiano. C'è poi un corpo centrale che si trova nella zona del guado, dal riparatorio al moderno Infine, c'è una coda ancora profondamente ancorata al mondo della beneficenza e dell'assistenza e che dice che il volontariato è buono solo se è cristiano, perché chi non è cristiano non può fare pienamente volontariato. Si tratta, ovviamente, di frottole culturali che implicano la morte del pluralismo. Nella misura in cui questo corpo prende conoscenza del nuovo e della funzione di mutamento del volontariato, la formazione cambia. L'obiettivo della formazione diventa quello di formare una persona che, innanzitutto, vede i nuovi rapporti con lo stato e comprende che la battaglia contro l'emarginazione non si può condurre da soli, uscendo da un'autarchia, da una sovrastima del volontariato, per arrivare a comprendere che il volontariato è un soggetto fragile che diventa importantissimo quando ha due funzioni: collante, animatore del terzo sistema non -profit; alleato delle istituzioni, pur mantenendo la sua originalità, nella lotta contro l'emarginazione Infatti, una lotta condotta solo dal privato sociale o dal volontariato è perdente.

Questo significa cambiare cultura, perché la tradizione italiana voleva la concorrenza tra il privato e il pubblico, dove il pubblico non era mai umano, dove c'era una totale disistima  del operatore pubblico. Tutto ciò si ritorceva immediatamente contro il povero che veniva meno difeso, meno aiutato proprio a seguito di questo clima di separatezza culturale che rendeva non credibile l'operato del pubblico e del tutto marginale l'operato del privato sociale. Penso che oggi quasi tutto il volontariato avverta l'esigenza della formazione, ma non credo che più del 40-50% dei  gruppi oggi sia arrivato alla formazione nuova di  cui parlavo. Senz'altro, il 40% di essi è giunto alla consapevolezza della necessità di questa nuova formazione. Quanto poi al fatto di promuovere attività formative che corrispondano a questo nuovo modello, non potrei esprimermi con certezza, perché il passaggio da momenti di formazione giustapposti, com'è nella tradizione ad esempio con l'uso delle ferie estive, spesso dedicate alla formazione - a iter di formazione, cioè ad un programma formativo, è  a fase più difficile. 

L'esigenza di formazione ha comunque portato all'organizzazione dei convegni di Lucca sul volontariato, che hanno scadenza biennale e affrontano sempre tematiche culturali. Personalmente, sono stato uno dei promotori del Centro Nazionale di Lucca, proprio perché si avvertiva l'assoluto bisogno di unire le forze di laici, laicisti e forze ecclesiali, per riflettere su alcuni fenomeni di fondo. Da qui è nata anche la collana delle Dehoniane, ormai composta da sedici volumi, e intitolata Volontari perché?, ideata per seguire in particolare, anche se non esclusivamente, i convegni di Lucca; per affrontare, ad esempio, il problema  della formazione nel '78, il problema della comunicazione  nell'80, e tutti i grandi problemi che investono il volontariato; per non affrontarli con una cultura del tutto insufficiente di fronte alle trasformazioni sociali in atto In questo contesto bisogna anche ricordare i momenti di riflessione organizzati dalla Fondazione Olivetti a partire dal 1980: ad esempio un anno fu dedicato allo statuto dei volontari, al progetto di giungere ad una legge simile allo statuto dei lavoratori, che poi è sfociato nella proposta di  legge quadro sul volontariato presentata nel 1984 ed approvata dal parlamento ben sette anni dopo. Questo ci da un'idea del ruolo dei momenti di riflessione, ma anche dei tempi di maturazione ed approvazione di una proposta. 

Insomma, è il cambiamento di prospettiva che ha portato ad un'attività di riflessione e formazione. Alla base sta un  avoro di autoriflessione sulla propria esperienza. Coloro che non maturano si fermano a questo livello; coloro che invece maturano, iniziano a comparare la loro autoriflessione con quella dei movimenti vicini; è così che si sente il bisogno di dar vita ad una serie di seminari. Penso, ad esempio, a quelli promossi  dalla Fondazione Zancan, una delle cui importanti funzioni è stata quella di offrire, nell'arco di 25 anni, ad aree culturali e di impegno diverse, la possibilità di incontrarsi in estate, per tre mesi di seguito, con corsi diversi, a Malosco, in provincia  di Trento, per riflettere sui vari problemi, tra cui anche il problema del volontariato.

Così anche la sociologia ha cominciato ad occuparsi di queste tematiche e a svolgere una riflessione sul volontariato. Quando Cesareo a Milano, Ardigìò a Bologna, Cotturri a Bari, ecc., incominciano a riflettere su questi problemi, abbiamo dei sociologi, spesso uniti a pedagogisti e a esperti di formazione, che incominciano a riflettere sul volontariato e ad esaminarlo nel suo ruolo storico all'interno della comunità italiana. Una riflessione sul volontariato, che però segue un'autoriflessione partita dal volontariato.

Così nascono anche un'infinità di attività in cui questa riflessione si diffonde: momenti estivi  campeggi, campi di lavoro, settimane di studio, settimane di confronto e di esperienza.

Le vacanze di Natale e le vacanze estive diventano i due momenti in cui la gente, libera dal lavoro,  si mette a riflettere, a studiare e a pensare il nuovo, perché il fatto più formativo nel mondo del volontariato è l'anticipazione. In termini profetici, trasferibili anche al mondo laico con piena comprensione, possiamo dire che il volontariato ha una sua natura profetica, intendendo con questa definizione il fatto che, storicamente, come ricordava Peccei, un uomo certamente di cultura laica, il volontariato è una sorta di antitossina che la società civile genera ogni volta che viene colpita da un fenomeno di disgregazione.

Nasce il problema dell'Aids? Immediatamente, all'interno della società civile, sorgono delle aggregazioni che si pongono di fronte a questo nuovo problema Nasce la questione dell'obiezione di coscienza: Guzzini va in carcere per difendere questo principio; così anche per la riforma carceraria, e così via. Solo dopo anni di incubazione il politico, nel senso dell'uomo di Montecitorio, accoglie la spinta che viene da Muccioli e dal gruppo Abele, che, all'inizio, vengono considerati dalla classe politica come degli utopisti illusi. Dopo qualche anno, però, alla classe politica arriva l'input ed essa deve mediare questa realtà nata nella società civile, dandole una veste che abbia valore per tutti, anziché lasciarla come esperimento di parte Non vi è  una legge sociale di questo periodo che non nasca dalla società civile, dal volontariato, mentre Montecitorio sigla con funzione di notaio e di mediazione ultima, in genere non accogliendo completamente le esigenze che la società gli pone. Di fronte alla necessità di affrontare il nuovo è necessario muoversi attraverso un iter formativo e di ricerca e non con una serie di incontri giustapposti. Questi si hanno tutte le volte che i gruppi di volontariato anziché capire la storia la subiscono. E' ciò che avviene quando nasce un problema del quale, per mancanza di attenzione e formazione, non si era avvertito il sorgere. Ci si riunisce per affrontare un problema che ì già scoppiato, proprio perché la formazione non è stata capace di coglierlo allo stato nascente, ma solo quando esso è diventato patologia. In questo momento, ad esempio, occorrerebbe che i gruppi si ponessero, con un processo formativo intenso, di fronte al problema di chi emigra dal Terzo mondo. Ciò significa studiare questo problema considerando che ciò che ci troviamo di fronte è l'avanguardia di qualcosa che capiterà in Europa, che è dato dall'addensarsi nel Mediterraneo di milioni di persone che cercano una nuova condizione di vita. Se questo è vero, l'educazione  del volontariato deve cominciare a puntare sul pluralismo, la tolleranza, la molteplicità delle confessioni religiose, la necessità dell'accoglienza dei nuovi venuti nelle città. Non si può continuare con l'idea di fare un incontro domenicale dedicato agli extracomunitari perché è scoppiato un fatto luttuoso. Questa è la vecchia tecnica di persone senza formazione che, generosamente, dinanzi a delle patologie, reagiscono e fanno del lavoro. Oggi questo non è più possibile. Fare incontri giustapposti significa non avere un progetto. Il fatto nuovo del volontariato, che non deve snaturarlo, ma maturarlo, è l'assumere progettualità e imprenditorialità. Ormai non si può andare avanti nella lotta all'emarginazione, se non con dei progetti. Dinanzi all'aumento e al sorgere delle nuove forme di povertà nasce non tanto il problema di occuparsi delle singole prestazioni o di moltiplicare le opere assistenziali, quanto quello di un volontariato impegnato sulle politiche sociali Perché se non si impegna in questo campo, il volontariato non fa altro che moltiplicare i servizi per non aver pensato a quel settore che è in crisi. Ad esempio, non basta sostenere con una grande battaglia la legge sul volontariato, perché la grande battaglia deve essere diretta alla finanziaria; perché è lì che si decide la ripartizione delle ricchezze dello stato che poi consentiranno ai comuni di svolgere o di non svolgere la politica sociale Mi interesserà la legge sul volontariato, ma il discorso si deve concentrare sulla rimozione delle cause, deve diventare di politica sociale .Tutto questo implica la necessità di un iter formativo, di un iter di studio I risultati si vedono perché sono ormai tre anni che le quindici associazioni più importanti di Italia, all'aprirsi  della finanziaria, si collegano e producono un documento di critica su di essa. L'iniziativa è nata dalla Caritas e ad essa ci siamo uniti tutti come Consiglio dei presidenti delle associazioni del volontariato, per analizzare entrate, uscite, risorse e priorità, e per indicare che quello era il campo principale nel quale impegnarsi in una battaglia. Qui ci vuole gente preparata, che anche se non ha una preparazione personale, come specialista, può trovare lo specialista che sia in grado di condurre i vari studi, di carattere economico, o sui servizi, in relazione ai vari aspetti considerati. Occorre gente che abbia in mente questa strategia e la formazione  deve dare questa impostazione. Ciò non vale solo per i quadri nazionali, ma anche per i quadri intermedi, che devono essere consapevoli, ad esempio, della necessità di un'alleanza costante con i sindacati, affinché nei contratti collettivi di lavoro le fasce deboli siano tutelate. Altrimenti abbiamo uomini che si occupano della carità tutta la vita senza risolvere i problemi che hanno davanti

 

 

Una strategia ampia per la formazione

 

Avverto soprattutto la necessità di lavorare a largo raggio, dal momento che da parte di quasi tutti i partiti sono state abbandonate le attività formative interne. In passato esistevano all'interno dei vari partiti dei grandi appuntamenti, con seri approfondimenti per i loro militanti, che oggi non si fanno quasi più. Si pensi a cosa ha significato Frattocchie per il Pci o la Camilluccia  per la Dc. Questi, secondo me, erano momenti di riflessione alti, che creavano anche grandi tensioni etiche, perché non si può affrontare, ad esempio il problema degli emigrati extracomunitari da un punto di vista meccanicistico pensando solo alla previdenza, in quanto esso comprende una componente altissima di problemi di varia umanità. I partiti hanno abbandonato l'attività di formazione, scordandosi del problema di come si forma oggi un pubblico servitore, nel senso sì di un uomo di partito, ma che abbia in testa un'idea di bene comune; di un concetto che, purtroppo, è stato talmente ripetuto e consumato, senza mai scendere dal bene comune ai beni comuni più specifici, così da rimanere una cosa strana, astratta. Questa figura non si forma attraverso la sola vita di sezione, che anzi, non a caso, a conosciuto un'atrofizzazione. Proprio perché i partiti hanno abbandonato il gusto per la parte più sapida della loro funzione secondo la Costituzione, che senza formazione non è realizzabile, e affinché non succeda che la politica sfoci in un disperato pragmatismo, è necessario che vi siano delle scuole di formazione all'impegno sociale e politico La riduzione della politica a puro pragmatismo non è per nulla cosa nuova, è nelle cose se non si provvede, non è data dalla perdita di una purezza etica incontaminata, che non c'è mai stata, ma dalla perdita di un impegno culturale, formativo, che deve essere continuamente rinnovato Carlo Carretto nel 1953, quando era presidente dell'Azione cattolica, a Natale mandava in regalo ai politici dei libri da leggere, convinto com'era che non leggevano niente e che andavano avanti a braccio. Questo è vero per tutti i partiti, è nelle cose, e anche quando si fa formazione si mandano spesso alle scuole quelli che disturbano da qualche altra parte, perché la formazione è un'attività dove non si esercita potere e dove si raccolgono solo grane, perché quando si comincia a fare una critica all'interno su nuove scoperte fatte sei fritto. Una volta anche il sindacato svolgeva una notevole attività in questo campo, attività che si è molto ridotta o impoverita come formazione all'impegno sociale e politico. Si rende quindi necessario che la società civile continui a studiare. Non nel senso puramente teorico, ma con un processo intrecciato di ricerca e azione, che deve essere la modalità di formazione  non solo per il volontariato, ma per tutte le componenti sociali che vogliono affrontare i problemi di restituzione ai cittadini dei diritti costituzionali. Mi pare, ad esempio, che il limite di oggi delle scuole cattoliche sia quello di istituire corsi di principi generali, che non vengono quasi mai agganciati a riflessioni su esperienze, avvio di progetti, preparazione di progettualità. Si ha l'impressione che sia necessario annunciare l'importanza del sociale. Ma, a mio avviso, quest'annuncio non basta più se non si ha la forza di accompagnare questi soggetti, dopo i corsi, ad esperienze nel sociale. Perché questo avvenga occorre che il partito, il sindacato siano pronti ad accogliere nelle loro strutture queste persone che hanno dimostrato disponibilità, donando tempo. Questa è concretamente la descrizione del problema della democrazia strozzata. Mi pare che ormai dovrebbe nascere una strategia più ampia. Un mondo cattolico che fa formazione e che ha da essere preveggente, deve ormai pensare che è un fallimento quando s'incontrano delle persone in una città e si parla loro del volontariato per tre sere. Alla fine, la gente domanda, cosa dovrebbe fare, dove dovrebbe andare, se volesse fare concretamente qualcosa. Non basta indicare la presenza di tutti i movimenti di volontariato esistenti, ma è necessario, ad esempio, consegnare un documento in cui si specifichino tutte le occasioni presenti in quella città, sottolineando che il passaggio dal teorico al pratico è l'ingresso in una di queste occasioni. Se io fossi un responsabile di queste scuole, di un modo a cui io tra l'altro appartengo, aprirei una scuola di formazione nella misura in cui strutture o gruppi manifestassero la loro disponibilità ad accogliere queste persone in base alla loro vocazione e ad immetterle in un ciclo che traduca le cose che sono state dette in un'esperienza di vita. Infatti, se alla fine del corso la gente non s'impegna concretamente, perché è ostacolata dalla strozzatura, non solo abbiamo creato dei nuovi frustrati, ma probabilmente non potremo più contare su queste persone. Per questo le scuole dovrebbero essere più pensate nel quadro di una strategia di rinnovamento, e non solo d'annuncio. A parte questi discorsi, comunque, è senz'altro necessario sensibilizzare la società civile su queste problematiche, il grande buco che abbiamo davanti, io penso sia di carattere culturale, ma di una cultura, che come ho detto, s'intreccia con l'azione. In questo senso non credo che la cultura faccia cambiare la personalità, ho conosciuto uomini di una cultura splendida, ma anche di grande egoismo, credo comunque che essa costituisca uno stimolo a ripensarsi continuamente.


 

Fiorella Farinelli, Cgil

 

 

 

Quale concezione della vita e dell'azione sindacale? Capacità politiche e competenze.

 

Per un lungo periodo la formazione sindacale tradizionale è ruotata attorno ad una cultura di carattere ideologico, di orien­tamento marxista, oltre ad alcuni saperi disciplinari considerati come strumenti di base per fare il sindacalista: una strumenta­zione prevalentemente di carattere economico, ma anche giuridico e storico, nel senso della storia del movimento operaio. Accanto a ciò vi è sempre stata una formazione agli strumenti del mestie­re vero e proprio, attinenti cioè alla contrattazione, con le specificità date dai settori in cui ci si muoveva. Bisogna dire che sto parlando della Cgil, non del sindacato in generale, per­ché la Cisl ha una storia diversa e interessante; loro, ad esem­pio, hanno subito meno discontinuità rispetto a noi.

Ad un certo punto, questo schema, almeno per quanto riguarda la formazione ideologico-politica, è venuto meno: perché era meno compatto il patrimonio ideologico cui riferirsi, e perché il sin­dacato ha inizato a pensare che non era poi questo l'elemento decisivo della formazione sindacale, che cioè fossero più impor­tanti altri obiettivi formativi, molto più a ridosso del mestiere e molto meno legati alla formazione politica nel senso ideologico del termine. Lo schema che è venuto deteriorandosi non è stato però sostituito da un altro altrettanto trasparente e visibile su cui ci sia stata una discussione nell'organizzazione, per capire effettivamente quali erano le domande formative e gli strumenti necessari per fare il sindacalista.

Per cui vi sono tante attività diverse in termini di contenuti per quanto riguarda la formazione sindacale. Alle spalle, però, c'è un ostacolo che ha a che fare con la concezione della politi­ca sindacale e della politica tout court. Si tratta della convin­zione, magari non dichiarata, ma forte, che per fare politica a livello dirigente e a livello intermedio, sia sufficiente il sa­per fare politica, cioè l'arte della mediazione, l'arte del rap­presentare i bisogni, l'arte di contrattare. Quindi, si pensa che sia sufficiente avere le conoscenze di governo delle situazioni, con una sottovalutazione delle competenze, cioè del fatto che oggi non si è più in grado di fare politica senza dei saperi mol­to specifici e molto precisi rispetto ai problemi di cui ci si occupa e che sono molto diversi fra loro. L'idea del sindacalista che si forma rappresentando i bisogni del contesto di appartenen­za e, a partire da lì, fa carriera, passando attraverso i più diversi rami dell'organizzazione, implementando le sue competenze dal punto di vista delle capacità di governo dell'organizzazione, delle capacità di mediazione politica, delle capacità politiche, è ancora un'idea prevalente nelle stesse politiche organizzative. Di conseguenza, si viene spostati da un settore ad un altro, per ricoprire ruoli di dirigenza, nel giro di un mese. Si passa dalla scuola all'industria, dai chimici ai meccanici, dalla ricerca ai chimici, perché l'idea è che quello che conta nel quadro, quello che conta in un dirigente, è la capacità politica non meglio de­finita, con una sottovalutazione fortissima della strumentazione tecnica. Non che non venga considerata la capacità tecnica, spe­cifica di un settore, ma, in qualche modo viene considerata se­condaria rispetto all'altra. E' un po' ciò che accade per il go­verno, per cui uno va a fare il ministro senza alcuna preparazio­ne specifica sul contesto, tutto viene affidato ai suoi collabo­ratori i quali hanno una continuità di lavoro, quando ce l'hanno, in quel settore specifico, gli spiegano la cosa e lui si assume la titolarità delle decisioni politiche, sulla base di un sapere masticato, elaborato da altri che gli viene proposto. Naturalmen­te, tutti sanno che all'interno di un'organizzazione c'è chi sa fare il contrattualista e chi lo sa fare meno; o chi ha una com­petenza specifica nel settore industriale e che, quando viene trasferito al pubblico impiego,  talora, prima che incominci a capire qualcosa, passano degli anni, e viceversa. Non è un caso, però, che non siano mai stati previsti dei percorsi formativi di sostegno che accompagnino la mobilità dei quadri. Io stessa, de­signata alla segreteria nazionale, ho chiesto di seguire le poli­tiche formative che conosco bene; ma poi mi hanno dato le politi­che territoriali, mi sono così ritrovata con le questioni degli appalti, della casa, ecc., che non conoscevo assolutamente e sul­le quali dovevo andare a contrattare. Di conseguenza, si è sotto­posti all'affanno dell'apprendimento rapido, non sistematico, in situazione, nel corso delle riunioni stesse. E' una cosa pazze­sca, ma tutto questo non è solo il risultato di inefficienze e di disorganizzazione, ma anche dell'idea che, una volta fatto l'ap­prendistato (perché c'è sempre una prima volta in cui ti sei al­zato a parlare e hai conquistato le tue masse) tutto avviene qua­si fisiologicamente, per cui si impara sempre di più ciò che ser­ve per fare politica, ciò che serve per contrattare, ciò che ser­ve per organizzare un patrimonio di saperi intorno, e questo ba­sta. Qui c'è un vizio, dunque, che non riguarda solo il sindaca­to, ma che riguarda proprio l'idea della politica, che è giusta­mente contestata da pezzi della società oggi, in un momento in cui è evidente che i saperi sono lo strumento per misurarsi con problemi complessi, per risolvere i quali non bastano i valori, posto che ci siano ancora.

Noi discutiamo molto su chi ha la titolarità della contrattazione a livello aziendale: se ce l'ha anche il sindacato provinciale, oppure se l'intera titolarità della contrattazione debba averla l'organismo sindacale eletto dai lavoratori nell'azienda. E' vero che, dal punto di vista democratico, è quest'ultimo che deve avere tale titolarità. Ma, sorge un problema: poniamo che i lavoratori eleggano nel consiglio tutti operai, escludendo impiegati o ingegneri o quadri alti o ricercatori, come si può pensare che un organismo di questo tipo sia in grado di reggere dei livelli difficili e alti di contrattazione con le direzioni aziendali, se non sa abbastanza? Basta rappresentare i bisogni per essere in grado di contrattare o, visto che parliamo di codeterminazione, di livelli più alti della contrattazione, è necessario avere forti competenze? Senz'altro è necessario avere forti competenze, e se non ne ho all'interno del consiglio d'azienda, farò come i padroni, pagherò, cioè, dei consulenti, che porterò con me in sede di contrattazione. Personalmente, ritengo che le competenze servano alla democrazia.

 

 

Essere sindacatoe essere scientifici

 

Bisogna anche tenere presente che da noi la cultura, e soprat­tutto nella sinistra, è particolarmente connotata in senso umani­stico-retorico.

Di fatto nel sindacato il lavoro di studio e riflessione è addirittura disincentivato; nel senso che il lavoro intellettuale richiede dei tempi, richiede lo stacco dall'attività politica normale e se un dirigente o un quadro lo fa, in qualche modo, rischia di non trovare lo stesso posto che occupava prima. E' considerato un originale un dirigente o un quadro alto del sindacato che stacca per un mese per ragioni formative. Noi cominciamo a fare queste proposte di formazione sistematica, ma, in generale, più i dirigenti sono alti e meno seguono questo tipo di attività, considerate incompatibili con l'affanno, il presenzialismo necessari per non essere puniti all'interno di organizzazioni di questo tipo. Chi ha tempi diversi di conciliazione tra la politica e l'acquisizione di saperi viene punito, non arriva in alto. Arriva in alto chi è capace di stare nel luogo giusto al momento giusto, chi prende sempre la parola, chi fa dichiarazioni alla stampa, chi va in televisione, chi, in definitiva è dentro al sistema consumistico dell'informazione. Ovviamente, se parli con Bruno Trentin, con molta lucidità lui ti spiega che oggi il sindacato è out, e che i primi drop-out sono i sindacalisti, che non tengono i livelli alti di contrattazione, perché non ne sanno abbastanza, che tutte le ipotesi di livelli più densi della contrattazione, di codeterminazione, richiedono uno sforzo formativo straordinario nell'organizzazione e, quindi, anche una selezione dei quadri basata su ciò che sanno e su ciò che sanno fare. Trentin è consapevole di queste cose, perché lui stesso è un intellettuale, ma l'organizzazione non è questa, la cultura prevalente non è questa, i modi concreti con cui si selezionano i quadri e si costruiscono i percorsi di carriera non sono questi.

Le ragioni di questa situazione sono molte. Innanzitutto, il trascinamento di vecchie culture, che all'interno delle organiz­zazioni conta moltissimo. Poi, il fatto che la cultura della si­nistra è più dichiarativa che operativa, trova cioè sempre degli intoppi quando dal dire si passa al fare, quando deve tradurre le intuizioni o le convinzioni generali in politiche organizzative, in politiche di gestione, di governo dell'organizzazione. E poi, perché, per quel che riguarda la Cgil, è ancora molto forte il sistema di reclutamento dei quadri tramite le componenti. Di con­seguenza, viene semmai affidato alle singole componenti di sce­gliere chi va avanti, magari tenendo conto anche delle conoscenze di merito, delle capacità culturali, delle strumentazioni com­plessive e non soltanto delle abilità necessarie alla politica. Però le componenti ragionano secondo determinati criteri. Non ci sarà mai una componente che, rendendosi disponibile per lei il posto di segretario generale dei chimici, siccome non ha un qua­dro con un'esperienza o con competenze sufficienti, non manda nessuno. Questo non aiuta, nel senso i percorsi di carriera sono fortemente determinati da interessi diversi da quello di mettere l'uomo giusto al posto giusto. Si potrebbe però, pur tenendo con­to di questa intelaiatura, ancora presente e che, secondo me, durerà ancora a lungo, usare la formazione sindacale come una strumentazione compensativa. Quindi, trasferire qualcuno da un settore ad un altro, tenendo anche conto delle componenti, ma solo dopo che abbia usufruito di un sostegno formativo, solo dopo un periodo di tempo in cui sia aiutato nell'acquisizione dello specifico in cui si dovrà calare. Questo passaggio ancora non c'è, perché Il trascinamento delle culture tradizionali è sempre molto forte, non si può pensare che logiche prevalenti da sempre in un'organizzazione, possano sparire da un momento all'altro perché  si dichiara la fine delle componenti. Così come continua a prevalere la concezione secondo la quale si è bravi indipenden­temente dalla formazione sistematica. Si ritiene che la full-im­mersion possa bastare, ma una formazione non sistematica, solo in termini di full-immersion, oggi non è più sufficiente. Si tratta di una cosa superata, che forse un tempo ha funzionato, anche se i migliori politici sono quelli che hanno saputo prendersi il tempo di studiare.  

 

 

La formazione permanente e l'esperienza delle centocinquanta ore

 

Noi stiamo facendo delle esperienze molto significative di formazione contrattata  con le aziende. Abbiamo, ad esempio, fatto degli accordi in base ai quali una parte della formazione si cogestisce a livello d'impresa. Si tratta della formazione relativa alle questioni del lavoro, alle scelte produttive e tecnologiche possibili. Ovviamente partecipano i rappresentanti dell'impresa che espongono le loro posizioni; cosa che va bene, a patto naturalmente che vi siano anche i sindacalisti e che il corso non si esaurisca solo in questo. Si sono create delle situazioni molto difficili, in cui una parte dei sindacalisti, ma non i quadri interni, hanno contestato questi accordi, sostenendo che l'impresa stava convincendo i nostri. C'è, cioè, paura a confrontarsi con gli altri e una totale sfiducia nelle proprie capacità di esprimere il propio  punto di vista.

Questa paura non è così facile da spiegare, ed è per questo che mi riprometto sempre di studiare la storia delle politiche formative della Cgil. Le ragioni di questo comportamento affondano in pagine di storia lontane od anche più recenti. Basti pensare all'organizzazione del lavoro della grande fabbrica manifatturiera, di un punto forte dell'insediamento sindacale: negli anni settanta, con la distruzione dei sindacati di mestiere e dell'operaio specializzato, gli operai alla catena di montaggio non avevano bisogno di conoscenze specifiche. In quegli anni si è consolidata l'idea che il terreno  della formazione professionale era un terreno altro, dei padroni, non dei lavoratori. Addirittura questa diffidenza nei confronti dell'acquisizione di saperi professionali alti da parte dei lavoratori derivava dalla convinzione che tale acquisizione costituisse una sorta di tradimento della classe. C'è un bel libro sui lavoratori studenti uscito negli anni settanta che ben rappresenta questo punto di vista; la prefazione è di Vittorio Foa, che per altro in genere ha sempre compreso i processi di emancipazione, anche quelli individuali.

Quest'atteggiamento ci spiega la gestione sindacale delle  centocinquanta ore, concepite come un'opportunità per rafforzare la cultura operaia, come strumento di controllo o di contestazione o di trasformazione dell'organizzazione del lavoro. Quindi, non utilizzo delle centocinquanta ore per la formazione professionale, ma per il rafforzamento di una cultura operaia antagonista; e cioè utilizzo delle centocinquanta ore solo per il recupero della formazione di base, della scuola dell'obbligo, vista del resto giustamente come elemento di cittadinanza.

Quando il sindacato, negli anni ottanta, si troverà di fronte a processi di ristrutturazione che causeranno licenziamenti di massa, si troverà sulla difensiva, perché l'ipotesi iniziale del rafforzamento della cultura operaia verrà ridotta all'osso; così ha finito per mollare tutto. In quella situazione, ciò che serviva era un livello professionale più alto degli operai che si trovavano in gravi difficoltà e la loro riconversione a linguaggi diversi: perché il passaggio dal lavoro manuale alla catena alla digitazione, comporta essenzialmente un mutamento di linguaggi. Il sindacato avrebbe potuto sfruttare questo momento per portare avanti un discorso di formazione professionale, di acculturazione dei lavoratori. Non l'ha fatto, alimentando oggettivamente quel sistema spaventoso, ormai prevalente in Italia, in base al quale i soldi non vengono spesi per la formazione, che facilita la riconversione professionale, i processi di reimpiego, ecc., ma per gli ammortizzatori sociali.

Noi e i padroni abbiamo giocato tutti gli anni ottanta, e per certi versi continuiamo ancora, considerando la riqualificazione professionale come un fatto patologico e non fisiologico. I padroni non riducono semplicemente gli operai, eliminano la parte che considerano obsoleta dal punto di vista professionale, sostenuti dal danaro pubblico attraverso gli ammortizzatori sociali, attraverso prepensionamenti e cassa integrazione. Nel frattempo vengono assunti nuovi lavoratori, che sono più giovani e che hanno più elevati livelli di scolarità. Non importa la formazione professionale, ma una più alta scolarità, che garantisce una disponibilità maggiore al riciclaggio professionale, all'apprendimento di nuove professionalità. Il sindacato, dunque, ha perso questa grande occasione: aveva lo strumento delle centocinquanta ore per passare dal rafforzamento della cultura operaia antagonista alla gestione delle politiche formative e non lo ha fatto. Il sindacato, cioè, non è stato in grado per tutti gli anni ottanta di gestire  politiche attive del lavoro, alimentando questa situazione italiana, che è drammatica, per cui tutti i casi di personale in esubero vengono risolti attraverso l'utilizzo degli ammortizzatori sociali.

Adesso il sindacato capisce che questo meccanismo non funziona, per cui è più sensibile alle politiche formative, ma il tempo perso è stato enorme. Nel frattempo, inoltre, le aziende hanno compreso che la risorsa umana è fondamentale e investono sempre più in formazione, ma scegliendo  manager e  professional, investendo invece pochissimo nella formazione della manodopera a bassa qualificazione. Questo, sia perché sperano che continui a funzionare il sistema degli ammortizzatori sociali, sia perché, effettivamente, i bassi livelli di scolarità insieme all'età non più giovane richiedono interventi formativi che necessitano di competenze professionali molto sofisticate dei formatori, come l'esperienza francese dimostra, e quindi maggiori risorse che il sistema formativo italiano non dà alle imprese. Inoltre, in Italia la maggior parte delle imprese è costituita dalle piccole imprese che non ha forze proprie e si pone il problema se valga la pena di investire in formazione di operai che, in particolare i più giovani, si fermano il meno possibile nelle imprese.

 

 

Formazione sindacale e formazione professionale

 

Questo problema della formazione professionale è in realtà strettamente legato a quello della formazione sindacale. Infatti, Bruno Trentin, che ha capito tutto questo, dice che la formazione sindacale oggi ha una grande parte che coincide con la formazione professionale. Con ciò egli intende dire che una parte della formazione sindacale dei nostri quadri è formazione professionale nel senso di comprensione del contesto in cui si opera. Formazione sindacale e professionale per una parte quindi tendono a sovrapporsi. Attualmente, invece, ci troviamo in una situazione in cui vi è un grande scarto tra l'azienda che capisce che deve investire, però sceglie di farlo sui  manager e sui  professional e il sindacato che invece deve cercare di rimontare, con grandissime difficoltà. Non si deve però pensare che si tratta di un problema solo italiano, anche se il nostro a differenza di altri paesi europei manca completamente di una struttura di formazione permanente. Qualche settimana fa abbiamo incontrato dei sindacalisti francesi della Cfdt che ci presentavano problemi simili. In Francia vi è una strumentazione di formazione continua, contrattata e sostenuta dalla legge con un sistema di risorse abbastanza significativo. Quindi le regole, i soldi, il sistema di incentivi per le imprese ci sono, ma anche loro hanno ammesso di avere dei problemi, perché tra i loro stessi sindacalisti continua ad essere presente l'idea che la formazione professionale è interesse dei padroni e non dei lavoratori  e poi perché il quadro sindacale in azienda è a sua volta a basso livello di scolarità, non ha una strumentazione tecnica sufficiente per contrattare le politiche formative per sè e per gli altri e, di conseguenza, la contrattazione a livello di azienda è molto debole e spesso le scelte non sono contrattate, ma fatte unilateralmente dalle imprese.

In questo momento stiamo tentando una nuova trattativa con le associazioni industriali. Insieme vorremmo chiedere al sistema pubblico italiano di mettere in campo un'offerta formativa, anche rispetto al lavoro, non solo rispetto alla prima formazione, perché in Italia a differenza che in Rft, in Francia e nel Regno unito, non esiste nulla sulla formazione permanente. C'è una situazione di forte anomalia del nostro paese rispetto ad altri, che hanno visto nella formazione o uno strumento di politica attiva del lavoro molto prima di noi, e di conseguenza hanno costruito un adatto sistema di regole e finanziamenti. Da noi la formazione nel Mezzogiorno per i giovani disoccupati, i progetti sociali, sono forme mascherate di sostegno al reddito.

La stessa vicenda degl'Ecap è esemplare rispetto a tutti questi problemi. Gli Ecap, gli enti di formazione professionale sorti nell'ambito della Cgil, nascono da una delle componenti del movi­mento operaio e sindacale, dal seme solidaristico e  mutualisti­co, che gestisce in proprio servizi per l'emancipazione della sua gente. Questo è uno dei pezzi del movimento sindacale in tutta Europa. In Italia quest'intervento nella formazione si è meno sviluppato, anche se di fatto il movimento sindacale ha gestito, la Cgil con gli Ecap, interventi formativi, non solo dei suoi iscritti, ma anche di settori di lavoratori.

Però negli anni settanta gran parte degli Ecap sono stati cancellati, tranne alcuni che hanno resistito: nell'emigrazione all'estero, uno enorme in Sicilia, alcuni in Emilia, uno in Veneto. Questo è avvenuto perché l'antagonismo si è legato in quel momento allo statalismo, l'altra componente fondamentale della cultura della sinistra. Non a caso per la Cisl non è stato così. La Cgil, invece, ha una solida cultura del pubblico: è lo stato che deve fare tutto. Il sindacato non deve  gestire in proprio: deve fare la lotta perché sia il pubblico ad occuparsi di queste cose.

Ora, sotto altro nome, gli Ecap stanno ricrescendo come agenzie formative, job service. Al  loro interno l'organizzazione, senza dirlo, senza fare cose vistose, mette in piedi delle iniziative; talora in forma consortile con i padroni, talaltra in forma trilaterale padroni-sindacati-regioni, talaltra ancora in proprio, facendo progettazione di pacchetti formativi che poi vengono acquisiti dal pubblico e dalle imprese. Quindi, senza dirlo, si sta riformando una rete di attività in cui si eroga direttamente un servizio formativo.

 

 

Autofinanziamento e risorse pubbliche

 

Certo che lo sviluppo delle attività di formazione sindacale pone un problema di risorse, essendo insufficiente l'autofinan­ziamento. Si pone cioè innanzitutto il problema di un eventuale ricorso a risorse pubbliche. Ma la questione delle risorse pub­bliche, e cioè dell'utilità so­ciale dell'attività sindacale e di un suo sostegno, non è mai stata del tutto risolta in Cgil. Quan­do negli anni settanta ha cominciato a prevalere la concezione dell'autonomia sindacale, essa si è accompagnata a un'idea del sindacato come soggetto con­flittuale, se non antagonista: qual­siasi richiesta di sostegno sarebbe stata vissuta come un qualco­sa che poteva limitare l'au­tonomia del sindacato. Ad esempio, qualche anno fa mi capitò di andare a sostituire a Bruxelles una compagna che non poteva andar­ci. Non sapevo quasi nulla dell'or­dine del giorno. Sapevo solo che si sarebbe discusso di azioni di sostegno da parte della Co­munità europea alla formazione sindaca­le, intesa anche come for­mazione professionale. Mi sentii a disa­gio, perché si svolgeva in quel luogo una discussione tra i sin­dacati europei in merito alle modalità, alle quantità e alla ca­nalizzazione di quel sostegno. Io, invece, avevo un mandato asso­lutamente rigido, che diceva che la Cgil non era interessata a quel problema, in base ad una con­cezione del sindacato come sog­getto autonomo conflittuale, anta­gonista, che quindi non chiede l'aiuto pubblico, sotto qualsiasi forma.

Senza più ridiscutere quest'impostazione, noi ora accediamo ai fondi della Comunità europea insieme agli altri sindacati per progetti di formazione sindacale o di formazione sindacal-profes­sionale, su nuove tecnologie, nuove modalità organizzative, ecc. Queste iniziative vengono portate avanti senza che più nessuno sollevi obiezioni, perché la dimensione europea e la necessità di rapporti tra sindacati ha fatto sì che superassero le diffidenze. Collaboriamo così con i sindacati europei su progetti comuni. Forse, in futuro, dovremo fare delle contrattazioni transnaziona­li per i gruppi multinazionali. E' quindi giusto che ci confron­tiamo sui modelli organizzativi, sulle alternative tecnologiche, ecc., e di conseguenza condividiamo dei percorsi di formazione finanziati dalla Comunità.  Non c'è stata mai, però, su questi temi una vera discussione che abbia coinvolto l'organizzazione nei momenti decisionali importanti, nelle conferenze di organiz­zazione o nei congressi. Ciò si è verificato per una forma di adattamento a un qualcosa rispetto a cui non si poteva neanche dire di no.

Soltanto ora cominciamo a discuterne. Il nostro statuto dice ancora oggi che il sindacato è un'organizzazione che si autofi­nanzia, ma questo è vero solo fino ad un certo punto, perché in realtà fanno parte dei nostri budget di categoria e confederali una serie di altre risorse: una parte è costituita dagli esoneri o dai distacchi sindacali, in cui o i padroni o lo stato pagano. Vi sono accordi nel pubblico impiego o nei grandi gruppi privati, che consentono distacchi totalmente retribuiti; mentre in base allo Statuto dei lavoratori in qualsiasi impresa si possono otte­nere distacchi, che danno diritto alla conservazione del posto di lavoro e che di fatto sono parzialmente retribuiti, perché in questi casi non vanno versati contributi previdenziali. Accanto a questa dei distacchi, vi sono poi altre risorse esterne. Non pen­so solo ai gettoni di presenza nei consigli di amministrazione, ma soprattutto a tutte le attività di servizio che organizziamo e per le quali otteniamo risorse pubbliche: non solo i patronati come l'Inca, ma anche i centri di informazione per i disoccupati, i centri di orientamento per i giovani, i centri di orientamento e di accoglienza per gli handicappati, centri emigrati e così via.

Si tratta di forme di finanziamento consistenti. Tant'è che ora che cominciamo a ridiscutere delle risorse e della compatibilità tra autofinanziamento da delega e risorse esterne, emerge che una parte consistente delle attività dell'organizzazione è in realtà finanziata per via indiretta, attraverso risorse che provengono dall'esterno . Quindi bisogna discuterne, si potrebbe accedere a forme più trasparenti e più regolate di finanziamento per quelle attività sindacali alle quali si riconosce un ruolo sociale: così potrebbe essere per le attività di ricerca e di formazione, come avviene per i sindacati francesi, che godono di un finanziamento appositamente mirato. E' meglio infatti, avere delle risorse tra­sparenti, mirate a obiettivi specifici, quindi anche controllabi­li nell'uso, piuttosto che avere una quantità di contributi, la cui dimensione sfugge, le cui logiche non sono sempre trasparenti e che pongono l'organizzazione in una situazione di dipendenza dall'esterno, senza regole e certamente diseguale nei diversi luoghi dell'organizzazione, perché non tutte le strutture hanno le stesse chance. Sarebbe forse meglio, allora, riconoscere che la stampa sindacale, le attività di formazione per i lavoratori, le attività di ricerca, sono tutte attività riconducibili ad un ruolo sociale, al di là della sigla sotto la quale vengono svol­te, e ottenere, quindi, dei finanziamenti trasparenti e mirati. Di fatto però questa discussione è ancora al livello degli stimo­li, delle suggestioni, siamo ancora molto indietro.

 

 


 

Sviluppo e autonomia della formazione e della ricerca nel sindacato

 

Io spero in una crescita dell'attenzione in Cgil sui problemi formativi. I limiti collettivi, di fatto, sono molti; non a caso le nuove esperienze formative che stanno emergendo non hanno sta­tuti all'interno dell'organizzazione. Invece gli Ires, i centri di ricerca sorti nell'ambito della Cgil, sono istituti con statu­ti autonomi, finanziati dall'organizzazione e dall'esterno; è una forma di tutela rispetto alla tentazione che l'organizzazione ha sempre di avere un rapporto strumentale con con il lavoro di ri­cerca. Ma cosa si intenda poi per funzione strategica della ri­cerca e quali sia la trasmissione dei risultati della ricerca nel corpo grande dell'organizzazione è tutto da vedere; perché la ricerca senza la formazione rischia di non servire.

I livelli di consapevolezza rispetto a questi e ad altri problemi, tutti attinenti alla riforma della politica, nel corpo grande dell'organizzazione, sono molto diffusi. Una parte dell'organizzazione, in genere rappresentata dai quadri più a ridosso dei problemi, ha maturato una buona consapevolezza della necessità di modernizzazione della politica, quindi dell'uso dell'informazione, della formazione e della ricerca come parte decisiva di questa modernizzazione. Poi, però, se si guarda alle riunioni importanti dell'organizzazione si vede che esse sono ancora essenzialmente fondate sulla sola comunicazione orale. Nei seminari, normalmente, viene fatto pervenire ai partecipanti materiale relativo al tema in oggetto, vengono magari presentati lucidi e grafici. Così si vede che si produce una comunicazione dove si decanta la cultura del credo e del comizio: si è così più attenti al contesto del problema esaminato, più problematici, meno unilaterali. Nel momento della discussione politica tutto questo scompare totalmente e vi è una relazione introduttiva di un'ora e quaranta, con un sistema di trasmissione, salvo il microfono, che risale ai tempi in cui il sindacalista saliva sul tavolino posto in mezzo alla piazza, da dove faceva il comizio. La maggioranza degli interventi attengono alle convinzioni, ai credi e alle opinioni politiche, alle manovre da fare, e rarissimamente sono sostenuti da dati di fatto; questo non significa necessariamente che chi interviene non si sia fatto delle convinzioni sulla base di dati di fatto, ma non li cita, non li socializza. tutto viene espresso nel linguaggio del credo e dello schieramento politico. Questo è sufficiente per capire come i modi tradizionali utilizzati ancora oggi per fare politica sono un ostacolo rispetto ad altre consapevolezze che, invece, stano crescendo. Quindi, nel momento politico alto, il livello di comunicazione utilizzato è quello del comizio.

Così l'Ires nazionale per un anno è andato avanti sulla questione dello Smig, attraverso ricerche, studi di sistemi, ecc., poi interviene Trentin in un'intervista e spiega che lo Smig sarebbe una spaventosa iattura per ragioni politiche. A questo punto, l'Ires smette di lavorare su questo tema, Giovannini, il presidente dell'Ires, si dimette; nessuno reagisce e si ha un pezzo di elaborazione che è circolato nell'organizzazione, ma siccome la massima autorità politica ha sgomberato il campo da questa proposta, definendola come nemica del ruolo tradizionale del sindacato, e così via, la cosa finisce lì. Anche perché l'Ires non ha un ruolo di comunicazione,  non ha un ruolo di formazione dei quadri, ma svolge semplicemente attività di ricerca: pubblica i risultati e la cosa finisce lì, perché non c'è quello che le aziende chiamano ingegnerizzazione.

L'organizzazione, insomma, fa tappo con le sue modalità tradizionali. Queste resistenze si rompono ai livelli più decentrati dell'organizzazione e, qualche volta, perfino nei quadri più marginali rispetto a quello che viene considerato il centro della politica. Lì si trovano spesso dei livelli di conoscenza, di consapevolezza, e così via. La situazione, comunque, è contraddittoria, perché io vedo tesori di consapevolezza, nel senso di cultura riformista, di modernizzazione, di cambiamento dei riti e dei linguaggi, in molte parti dell'organizzazione, però c'è un tappo che è formato dalla burocrazia di quest'organizzazione, che è vastissima. E quando si entra nell'organizzazione, si finisce con l'omologarsi a questa situazione, anche perché se non lo si fa si viene emarginati.

Quindi, alla domanda su un possibile ruolo positivo del sindacato per quanto riguarda queste problematiche, si risponde soltanto dopo aver risposto ad una domanda più vasta: il movimento sindacale, all'interno di questo marasma generale, riesce ad avere un importante ruolo di rappresentanza di un pezzo di società che, in qualche modo, contrasta la tendenza alla dissoluzione, e contrasta la cultura del rifiuto dell'intermediazione politica e sindacale, che c'è, si spiega ma  può avere degli effetti devastanti. Non so se il sindacato ce la possa fare. Penso che vi siano dei passaggi politici proprio in questi giorni decisivi rispetto a questo. Ad esempio, se dovessimo andare incontro ad una nuova S. Valentino che allontana qualsiasi possibilità di costruzione di unità sindacale per molti anni e reinchioda ogni organizzazione in una sua identità, c'è da temere per la Cgil. Possono dunque emergere grandi difficoltà. Possono vincere delle tendenze, già presenti, all'autorefernzialità.

Oggi, la democrazia non vive senza una consapevolezza che si basa sulla conoscenza dei fatti, delle tendenze, delle evoluzioni, delle trasformazioni. Se questo manca, dopo non c'è che il ricorso allo schieramento, all'ideologia, che tiene insieme i soggetti. Sono sempre stata convinta che la conoscenza, non solo nel senso di livelli alti di scolarizzazione, ma nel senso di avere gli strumenti per interpretare ciò che avviene e ciò che probabilmente potrebbe avvenire, è una condizione assolutamente necessaria per la vita democratica. Tanto più ora, non solo perché siamo in una società complessa. Pensa ai flussi migratori e ai pericoli legato ad essi della paura da non conoscenza, alle reazioni di rigetto, di paura della gente di fronte ai diversi, agli altri che vengono. Qui, la conoscenza in senso ampio, la conoscenza per la comunicazione, per lo scambio, per la intercultura è fondamentale. Quindi, conoscenza perché se non c'è più il soggetto forte, in grado di interpretare le cose e di compararle con altri per costruire delle idee, il richiamo alle ideologie nel senso deteriore del termine diventa inevitabile. E le ideologie non si sa quali saranno.

Esiste senz'altro un problema di valori oggi. Non vi è dubbio che una gran parte della società italiana è rimasta unita grazie alle ideologie o alle idee, verificate poi in una pratica sociale. Oggi non possiamo più contare come prima su queste cose. L'immagine del comunismo per i ragazzi d'oggi è il muro di Berlino che crolla, è la confusione dell'ex Urss, è piazza Tia­nanmen. Questo è l'immaginario collettivo presente nelle nuove generazioni. Quali saranno le ideologie collanti delle generazio­ni nuove? Secondo me, lo strumento della conoscenza e della con­sapevolezza è decisivo. Ho paura della presa di forza di ideolo­gie che non condivido. Penso al lepennismo, oppure alla paura dei diversi, o l'idea dell'ognuno per sè. Persino la religione mi spaventa se è pensata come strumento di appartenenza. Quindi, è necessaria una strumentazione politica diversa, che abbia a che fare con le possibilità di esercizio della democrazia, perché non ci sia la babele delle lingue e la reciproca incomprensione. Per­ché non si decide, e si rischia di non essere in grado di sce­gliere e di esercitare i propri diritti democrazia, al di là del voto, se non si hanno strumenti propri di orientamento e di auto­orientamento.

 


Intervista a Coccilovo. Segreteria nazionale Cisl.

 

 

 

Crisi istituzionale e crisi delle culture politiche

 

La crisi ha manifestazioni alle quali è possibile in parte porre rimedio sul versante di una nuova ingegneria di tipo istituziona­le, riguardante i sistemi elettorali e la formazione delle rap­presentanze politiche nelle istituzioni, il rapporto fra politica e funzioni amministrative, una ridefinizione del ruolo dei parti­ti che eviti fenomeni di invadenza, che hanno concorso ad alimen­tare la crisi istituzionale stessa.

E' indiscutibile, però, che il problema è anche in una crisi delle culture politiche di riferimento. Questa crisi non tocca solo i soggetti politici tradizionali. E' anche  andata in crisi la cul­tura politica diffusa, condivisa, che si esprime in termini di condivisione di valori e di interessi, di assunzione di responsa­bilità. Valori come la democrazia, la libertà, il rispetto della persona, la solidarietà, la giustizia, devono essere ridefiniti concretamente, in rapporto agli interessi e alla loro composizio­ne, quindi con un criterio di scelta che consenta di distinguere ciò che è giusto fare da ciò che non è giusto fare.

Ciò significa che se oggi tutti siamo un po' cassa di risonanza della crisi dei soggetti della vita istituzionale, che investe in particolare i partiti politici dei quali denunciamo i limiti evi­denti e la caduta di eticità, nello stesso tempo avvertiamo meno la crisi della cultura politica diffusa e siamo in ritardo nel­l'assunzione di una autoresponsabilità della società civile. Que­sto scarto finisce con l'impoverire la partecipazione della so­cietà civile alla definizione di una nuova cultura politica, ai valori e agli equilibri di riferimento. Quindi, chi vorrà aggre­dire la crisi istituzionale, che si evidenzia anche come crisi di democrazia, dovrà certamente operare sul versante dell'ingegneria istituzionale, ma non potrà non porsi il problema di come tornare ad alimentare un circuito di formazione, di cultura politica, che per essere efficace deve coinvolgere robustamente non solo i pro­tagonisti costituzionalmente considerati deputati all'azione po­litica, ma anche quelli che troppo passivamente sono considerati solo referenti e che, pur all'interno di ruoli e missioni diver­si, sono altrettanto protagonisti: i soggetti sociali.

Questi vanno intesi non solo come singoli, ma anche come organiz­zati nei corpi intermedi, nei grandi soggetti collettivi, come le organizzazioni sindacali; le associazioni produttive; quelle del tempo libero; gli stessi partiti, il cui ruolo va ridefinito ri­spetto a quello che tradizionalmente si è consolidato nel paese; insomma tutte le esperienze attraverso cui, in termini colletti­vi, si supera un impegno e un interesse esclusivamente individua­le e si lavora alla costruzione di un interesse comune, o alla tutela di un interesse particolare, che comunque deve essere sem­pre inscritto in una logica di interesse e di sintesi generale.

 

 

Dalla formazione all'identità, all'assunzione di responsabilità politica

 

Per fare questo occorre superare il ritardo nella definizione e anche nella pratica attuazione di strategie di intervento forma­tivo da parte dei grandi soggetti collettivi politici o sociali. Il ritardo è anche dovuto alla necessità e alla difficoltà di verificare molto criticamente la propria identità e il proprio ruolo.

Bisogna quindi pensare ad interventi formativi che non si limiti­no alla trasmissione di saperi consolidati o all'aggiornamento di un quadro di conoscenze, si devono sperimentare ipotesi di ricer­ca come una vera e propria scelta strategica. Quindi, se l'ipote­si di partenza è che il ruolo dei soggetti intermedi deve essere tale per cui in parte continuano a riproporre specificità, e in parte a condividere finalità dichiaratamente politiche, allora le attività formative devono essere diverse da quelle tradizionali. Per il sindacato, soprattutto per quello confederale, si pone il problema di rinunciare ad essere solo soggetto di tutela, per divenire anche soggetto di governo degli interessi sociali e del­la complessità sociale, culturale e politica; orientato da alcuni valori di riferimento, ma capace nel contempo di condividere un ruolo che fino a ieri veniva assegnato ad altri. Il gioco dei conflitti sociali e della tutela degli interessi era un gioco dialettico, all'interno del quale il sindacato tutelava interessi di parte, affidando ad un terzo soggetto, che era per definizione il soggetto di governo, la definizione e la composizione della sintesi. Questo era anche permesso da un assetto di valori ideo­logicamente organizzati. L'ideologia è uno schema di riferimento che semplifica l'organizzazione del consenso, della partecipazio­ne, della militanza; nasce dalla diffusa  condivisione  di valori semplici, legittimati da condizioni omogenee di riferimento sul piano della condizione sociale, dei bisogni scoperti, e come tali meritevoli di tutela, e delle priorità che si stabiliscono tra i bisogni. Ma, a un certo punto, questa omogeneità di riferimento è stata scardinata, anche per il successo di una lunga battaglia democratica, che ha fatto maturare  un onere di responsabilità e di ruolo dei cittadini e dei lavoratori, che diventa anche un'as­sunzione di responsabilità e di ruolo delle formazioni sociali attraverso cui la loro azione e il loro impegno si organizza. Resta, quindi, la tutela specifica, restano i compiti di contrat­tazione per quanto riguarda il sindacato confederale, ma tali compiti vanno inevitabilmente inscritti all'interno di una fun­zione dichiaratamente politica e non meno politica di quella che viene svolta all'interno delle aule parlamentari. Questo per dire che le attività di formazione a questo punto presuppongono un impianto che possa consentire un aggiornamento e una riqualifica­zione di conoscenze e capacità  da utilizzate nell'impegno sinda­cale, in rapporto con l'organizzazione del ciclo produttivo. Non per essere subalterni agli interessi padronali, ma per stabilire un rapporto con l'attività di impresa, l'organizzazione del ciclo produttivo, le compatibilità di carattere economico generale, all'interno delle quali si confrontano punti di vista, interessi, funzioni, ruoli differenziati ed anche conflittuali. Nell'impresa si svolge l'attività produttiva  che crea la ricchezza nazionale,  con interessi distinti, ma anche comuni a tutti i cittadini. Que­sto presuppone conoscenze sulle attività di impresa, comparteci­pazione ad un orizzonte di saperi di cui sino a ieri potevamo fare a meno; è necessario un affinamento delle capacità di con­trattazione e di negoziazione aziendali all'interno di un'analisi del ciclo produttivo, delle compatibilità di carattere macroeco­nomico, non solo di carattere nazionale o settoriale, ma anche sovranazionale. Tutte queste conoscenze interrogano il ruolo del sindacalista.

 

 

Una formazione per andare oltre la cultura dello scambio

 

Oltre a questo c'è anche l'esigenza da parte del sindacato di ri­definire alcuni punti di riferimento, come quello della solida­rietà che è molto più difficile da declinare quando si è consape­voli di rappresentare interessi adulti, di cittadinanza non più ignorata o addirittura negata. Valori come la solidarietà; come il rispetto delle libertà individuali, non tanto da enfatizzare ma da comporre con l'interesse generale; come il pluralismo, la tolleranza, comportano l'esigenza di ridefinire una serie di scelte che poi orienteranno la politica del sindacato e della base che il sindacato interpreta. Questo compito non è più sem­plificato da un catechismo o da un'ideologia di riferimento. Lo stesso riferimento a valori che ci sembrano sopravvivere a quella che è comunemente nota come crisi delle ideologie, ad esempio i valori tipici della dottrina sociale della Chiesa: il ruolo e il valore della persona, hanno comunque bisogno di una lettura che consenta al cattolico, e non solo al cattolico, di declinarli e di viverli con coerenza in un impegno che è dichiaratamente lai­co, cioè applicato al governo della società e delle sue contrad­dizioni.

E' facile, per esempio, essere solidali quando questo si accompa­gna al riconoscimento che vi sono alcuni interessi che in termini di forza prevalgono nettamente sugli altri, è la solidarietà del forte o del ricco nei confronti del povero o del debole. Se inve­ce mi trovo di fronte ad interessi egualmente riconosciuti, al­lora occorre un'etica molto razionale, non semplicemente di ca­rattere morale, che devo costruire in riferimento ad elementi di conoscenza, di equilibrio politico, di sintesi nel governo della complessità. Si può decidere che, sul piano della politica redi­stributiva e dei redditi, occorra contemperare le aspettative delle diverse categorie di lavoratori con l'esistenza di interes­si primari e condivisi da tutti, come quelli di risanamento del bilancio pubblico o di rientro dell'inflazione. Si pone allora il problema di un'equità che convinca la gente a sentirsi partecipe di un progetto, all'interno del quale va superata la sensazione diffusa che la proposta dei soggetti di governo non sia equa, perché immotivata razionalmente, perché dà più a qualcuno e meno a qualcun altro, anche se entrambi sono nella stessa condizione.

Questo è il riferimento di cultura politica da adottare, che met­te in discussione il rapporto di scambio tradizionale tra le sedi della soggettività politica e quelle deputate ad interpretare gli interessi. La cultura dello scambio ha scatenato fenomeni degene­rativi  e devastanti nel costume politico nazionale, ha corpora­tivizzato le rappresentanze politiche, le ha legate ad interessi di segmento e rese lontane dalla percezione dell'interesse gene­rale; così come la cultura dello scambio può  rendere corporative le rappresentanze sociali. Se infatti ci si chiude all'interno della tutela degli interessi di parte, si chiede alla sede poli­tica, già a partire dalla dimensione sociale, un rapporto che in realtà è di tutela e di scambio, senza essere più legittimati a farlo, perché non si tratta più di interessi talmente ignorati che il tutelarli è di per sè un'operazione di giustizia.

Si scoprirà, così, che occorre una medesima cultura politica per chi vuole assumere ruoli di amministrazione della cosa pubblica nelle assemblee elettive, e per chi svolge il proprio ruolo al­l'interno di un soggetto collettivo intermedio come il sindacato. Se manca questa cultura politica, si può scoprire che spesso il rappresentante nelle istituzioni scavalca il soggetto sociale proprio sul piano della tutela particolaristica, è lo scambio lottizzato degli interessi. Questo è il meccanismo con cui il sindacato ha avuto a che fare quando, ad esempio, ha esercitato funzioni contrattuali in area pubblica con controparti che lo scavalcavano sul piano della condiscendenza o della tutela parti­colaristica e corporativa.

Anche in questo senso, il confine fra una formazione legata al ruolo specifico e una formazione politica, tendono a sovrapporsi.

 

 

La formazione come occasione di ricerca sul cambiamento

 

Tutto questo significa ricerca e costruzione di un patrimonio di conoscenze che consenta di reinterpretare il proprio ruolo. Come qualunque attività di ricerca, significa anche aprirsi al con­fronto con punti di vista, organizzazioni, competenze e conoscen­ze diverse; la cui verifica di omogeneità con l'identità di orga­nizzazione è meno decisiva rispetto al passato, perché le identi­tà e i ruoli strategici e organizzativi sono molto più in discus­sione, sono molto più senza confini. E' molto più importante og­gi creare un'occasione, un esercizio permanentemente orientati alla verifica, all'aggiornamento e all'organizzazione critica del proprio ruolo.

Tra l'altro, la dinamica del cambiamento si è talmente accentuata che quel sapere diffuso, che diventa abito di organizzazione, non è più concepibile come qualcosa che continuerà ad andare bene per un lungo periodo. Questo pone il problema della formazione perma­nente, che è anche  ricerca permanente. La ricerca è riflessione critica, razionalizzazione di sperimentazioni che vanno modellan­do i comportamenti sociali. Non nasce, quindi, come ipotesi affi­data ad una casta, così come la politica non è più affidabile ad una casta: anche dove si fa negoziazione si sperimenta. La nego­ziazione presuppone input che derivano da uno sforzo di ricerca, costruita sulle stesse esperienze negoziali. Nella formazione non si possono quindi trasmettere saperi chiusi, frutto di un'attivi­tà di ricerca separata, occorre che essi vengano confrontati cri­ticamente con l'esperienza; evidenziando così ritardi e problemi aperti, su cui ricerca e sperimentazione negoziale devono ritor­nare. Si tratta di un circuito a ciclo continuo, all'interno del quale le sinergie sono molto più importanti che non l'astratta definizione dei ruoli separati.


 

La vicenda sindacale Cisl e l'azione formativa

 

C'è stato un periodo, che coincide con la stagione fondativa del sindacato confederale alla nascita della  repubblica democratica, in cui l'attività formativa proposta dal sindacato, e per quanto ci riguarda più direttamente dalla Cisl, si è caricata di compiti surrogatori della formazione scolastica, a cui vaste masse di cittadini non avevano avuto accesso per condizioni familiari e esigenze di lavoro. In parte, questo è stato il ruolo del Centro studi Cisl di Firenze, ne è nato un gruppo dirigente quasi auto­didatta, che attraverso questa opportunità di formazione e di studio, finalizzata alla formazione di un gruppo dirigente del sindacato, ha completato un propio iter scolastico personale. Oggi l'estensione  della scuola dell'obbligo, l'integrazione di strati popolari sempre più ampi nel sistema scolastico nazionale, consentono anche agli strati ultimi della popolazione l'accesso all'istruzione di carattere più elevato, pur nella consapevolezza dell'esistenza di condizioni di emarginazione pericolose e dram­matiche su cui occorre ancora intervenire. Questo scarica il cir­cuito formativo d'organizzazione di compiti surrogatori.

Per quanto riguarda la nostra esperienza, più si sono arricchiti i compiti del sindacato, più si è fatta forte la necessità di differenziare un circuito formativo che ieri, intervenendo su bisogni elementari, forniva da un lato  una  cultura di carattere generale più solida di quella che il soggetto non si era potuto costruire attraverso l'accesso al circuito scolastico, e dall'al­tro, abilità più semplificate, riferite essenzialmente all'eser­cizio della contrattazione, alla tutela dell'interesse, e in ter­mini molto rivendicativi. Oggi le cose non stanno così e noi ab­biamo bisogno di rendere sempre più articolata e sofisticata la formazione sindacale; che deve essere riferita ai diversi ruoli che si svolgono in un'organizzazione che è grande, radicata e complessa e che ha  figure di sindacalisti con un livello di i­struzione mediamente più elevato rispetto a quello di un tempo e che sviluppano il loro lavoro a partire da dove si è esaurito il compito delle strutture scolastiche.

I ruoli sono sempre più specifici nell'organizzazione: alcuni sono prevalentemente di carattere organizzativo, altri sono rife­riti all'erogazione di servizi alla propria base associativa, altri sono più di carattere negoziale; alcuni riferiti alla redi­stribuzione del reddito, altri al funzionamento dello stato so­ciale nei suoi grandi aggregati o all'organizzazione del territo­rio. Occorre, quindi, una struttura formativa che consenta una conoscenza più approfondita delle problematiche di settore.  Que­sta è più una formazione di consolidamento al ruolo di sindacali­sta, in rapporto a incarichi specifici.

C'è poi esigenza di una formazione più dichiaratamente riferita all'aggiornamento dell'identità. Si tratta di una formazione di tipo più politico. Essa riguarda anche gli scenari complessivi in cui si inscrive l'azione del sindacato: quindi la dimensione sem­pre più sovranazionale che concorre ad alimentare ruoli, culture, interessi, la dimensione delle libertà e del pluralismo, della tolleranza, ecc. Ci troviamo in  una società di tipo multirazzia­le, che pone compiti di integrazione, non solo di rispetto cultu­rale delle diversità. Costruire ipotesi di integrazione non si­gnifica solo accettare la diversità dell'altro, ma anche metterla a confronto con la propria. Sulla base di questi problemi cer­chiamo di costruire ipotesi formative che non si presentano e­sclusivamente con questi intenti, ma che costituiscono una specie di tessuto comune all'interno dei percorsi di cui parlavo prima. Sono i momenti in cui rivisitiamo la nostra storia, il quadro di valori, di identità e di ruoli che hanno consentito all'esperien­za sindacale di consolidarsi e oggi di mettersi in discussione per assegnarsi compiti diversi. Ciò significa che attraverso una lettura in controluce, questo riferimento ai valori e alle cultu­re viene evidenziato in rapporto alle difficoltà nuove che incon­tra il sindacalista nello svolgere le attività tradizionali di tutela. Penso a che cos'è oggi la rappresentanza, a quali sedi devono vedere un ruolo di intervento politico, a cosa permette non solo di rinnovare un patto di adesione ai valori, ma anche di ridefinirne il contenuto e i confini. Noi non facciamo esperienze di formazione politica e culturale che si costruiscono per intero intorno a questi interrogativi; ci sforziamo però di far penetra­re queste questioni all'interno dei percorsi che prima definivo.

Infine, vi sono dei percorsi di socializzazione all'organizzazio­ne, una formazione di accostamento, che tende a presentare l'or­ganizzazione al lavoratore-iscritto. E' un intervento formativo di carattere elementare, ma molto diffuso; che serve a tenere il passo con un turn-over sempre più dinamico, talora anche schizo­frenico, soprattutto ai livelli di militanza iniziale all'interno del sindacato, che ci permettono di legare l'organizzazione ai luoghi di lavoro, di creare momenti di condivisione e di identità in termini culturali e politici. Sono le situazioni in cui  co­mincia a svilupparsi di un impegno di base sul luogo di lavoro, quando si accende o si rinnova un patto di adesione al sindacato, quando si prende la tessera non solo per essere tutelati, ma an­che per partecipare ad organizzare la tutela, senza aver ancora iniziato a salire quei livelli dell'impegno sindacale che richie­dono una formazione di consolidamento al ruolo del sindacalista a tempo pieno. Tutto ciò sottolinea la complessità dei momenti formativi.

 

 

Problemi e prospettive dell'azione formativa

 

Tutta questa attività formativa costa moltissimo e presenta il rischio, non solo della duplicazione degli interventi, ma che essi abbiamo come destinatari possibili coloro che sono già inte­ressati e non, come esigerebbe un lavoro di innovazione organiz­zativa, coloro che si ritiene debbano partecipare a queste espe­rienze in relazione al ruolo specifico che devono svolgere. Il problema maggiore è quello di coniugare tale complessità con una strategia formativa in cui i livelli di responsabilità delle di­verse strutture che fanno il sindacato non si sovrappongano in modo schizofrenico, ma ci portino ad una rete di interventi che consenta di produrre un modello di formazione permanente. Questo è il compito più difficile, rispetto al quale so che di attività formativa se ne fa molta, so che stiamo cercando di razionaliz­zarla, ma non sono in grado di dire che la si fa al meglio. Pro­babilmente, è più consolidata la percezione del rilievo strategi­co dell'attività formativa, che non una prassi e un comportamento organizzativo che a questo destini tutte le risorse  necessarie con priorità rispetto ad altri interventi ed esigenze di spesa, e  al riparo di gelosie di struttura che disperdono il nostro inter­vento.

Un'eventuale sostegno pubblico alla formazione all'impegno socia­le e politico, così come avviene in altri paesi, è un'ipotesida verificare. Occorre innanzitutto pensare a momenti di confronto tra le esperienze in atto, vedendo se si può determinare una con­vergenza su ciò che è più opportuno evidenziare nel rapporto con gli organismi pubblici, anzitutto con i responsabili istituziona­li al più alto livello, a partire quindi dal governo nel suo com­plesso o dal ministero della pubblica istruzione. La prima cosa, su cui verificare una convergenza è su su quale ipotesi si vuole aprire un confronto con i livelli istituzionali.

L'ipotesi di partenza non deve essere tanto quella dell'opportu­nità di una copertura finanziaria per gli interventi formativi di soggetti collettivi che rispondono essenzialmente ad un interesse proprio; dando per scontato che questa rappresentanza di interes­si particolari, concorre indirettamente ad alimentare un plura­lismo democratico di cui non si può fare a meno. Si deve partire dall'affermazione che il ruolo di questi soggetti sociali è di­chiaratamente politico, che concorre, insieme ai soggetti tradi­zionalmente considerati come politici, i partiti e le rappresen­tanze nelle sedi istituzionali, al raggiungimento possibile dei fini dell'azione politica, che sono il governo del bene comune.

E' un intervento formativo che resterebbe poi da definire nei suoi modelli, nei suoi strumenti di attuazione, nei suoi standard di riferimento; rispetto ai quali controllare poi le responsabi­lità che si assumono i soggetti sociali, in rapporto all'interes­se collettivo, generalizzato, politico, che non può non essere parte integrante delle finalità di intervento dello stato.

Non è dunque sufficiente che l'uomo di governo chieda al soggetto sociale, una preliminare auto-assunzione di responsabilità, se non riconosce preliminarmente che già questo significa svolgere un ruolo politico; se quindi non riconosce che quest'intervento formativo ha esattamente lo stesso valore di quello svolto dalle istituzioni scolastiche; perché questo è uno zoccolo irrinuncia­bile per definire la condizione di cittadino, perché questo con­tribuisce a definire lo status di cittadinanza all'interno di uno stato democratico, di un cittadino che partecipa all'autogoverno della collettività.

Riconoscere questo ruolo politico e quindi un interesse istitu­zionale, significa riconoscere le esigenze di un intervento che porrà altri problemi, di carattere finanziario, di strumentazio­ne, di controllo o di indirizzo da parte di chi eserciti una re­sponsabilità di governo, tutto tranne la negazione del dovere di questo intervento, che è la condizione in cui si opera oggi in Italia. Ritengo che oggi si dovrebbe costruire un'ipotesi di con­fronto e vertenza. Prima ragioniamo sulle motivazioni che la sor­reggono, poi passiamo alle quantità. Altrimenti si darebbe la sensazione di aggredire le casse sempre più vuote dei dello sta­to, per aggiungere un altro capitolo di spesa ad altri che, al di là delle dichiarate velleità, poi sappiamo non essere indirizzate al meglio. Costruiamo un livello preliminare di confronto sulle esigenze, assegniamo ad un momento successivo la definizione del­le quantità e delle modalità. Questa è anche l'unica possibilità di successo, secondo me, che si ha in questo momento nel paese per costruire questo capitolo di esperienza. 


Intervista a Giuseppe Cotturri, direttore del Crs

 

 

 

La crisi istituzionale italiana è parte di u processo più vasto

 

Tutti gli stati moderni in questo secolo hanno costruito il loro ordinamento politico interno sulla base di un vincolo, costituito dal loro  inserimento nel quadro internazionale. Questo rapporto  nazionale-internazionale, costitutivo dei sistemi politici contemporanei, non viene mai messo in luce. Quando lo si fa è solo nell'ambito della polemica politica. Penso alla denuncia della «sovranità limitata o dimezzata», fatta in Italia dalle sinistre, e che faceva riferimento ai condizionamenti del blocco occidentale, in particolare della potenza americana, attraverso interventi sui governi, ma anche su apparati segreti; oppure da destra si è spesso accusato i comunisti di subordinazione all'Urss. Se, però, parliamo della crisi delle costituzioni politiche bisogna andare oltre il livello della battaglia e della polemica, ed analizzare come si è costituito l'ordine mondiale e come esso ha perso il suo equilibrio con la fine del bipolarismo. Dobbiamo poi guardare alla ricerca di un nuovo ordine mondiale che è in atto e che cerca di attribuire un ruolo nuovo a organismi come l'Onu, che comprende tutte le nazioni del mondo, ma ha una struttura di governo elitaria e non democratica. Al suo interno, infatti, vi sono nazioni di serie A e di serie B, con il diritto di veto riservato ad alcuni membri del Consiglio di sicurezza, e così via. La crisi delle costituzioni quindi, e non a caso, non è solo interna agli stati, ma investe anche organismi internazionali o sovranazionali.

Ciascun stato nazionale, inserito in questo sistema, ha poi una sua storia e sue distorsioni. Quella italiana è che non si è mai potuta interamente sviluppare la democrazia politica, intesa come scelta popolare libera di cambiare chi ci governa, perché nei momenti più critici, quando le sinistre sembrava stessero avanzando, sono intervenuti sempre pesanti condizionamenti, o nella forma di strage, o nella forma di atti di terrorismo, o nella forma di drammatizzazione delle condizioni economiche internazionali per imporre una sorta di vincolo e determinare l'indirizzo di governo in un senso. Questa vicenda ha quindi colpito il meccanismo fisiologico del ricambio. Su questo una parte della cultura politica ha focalizzato l'attenzione, sottolineando il problema del blocco, della mancanza  ricambio. Ma non è solo questa questione che caratterizza la situazione italiana. L'altra è che grazie ad un movimento operaio originale, pluralista ma fortemente legato alla tradizione socialista e a una visione marxista della necessaria dinamica tra le classi e della democratizzazione dello stato, si è andata determinando una forma di partecipazione politica che si è costantemente allargata e riprodotta in modi diversi.  In fondo, il nocciolo di questo era già nella Costituzione: quando la definivamo progressiva intendevamo dire che il cammino della Costituzione segnava anche la crescita di soggetti nuovi, non solo i partiti, ma accanto ad essi anche altri soggetti. E' così cresciuta una cultura democratica. Penso al ruolo dei giuristi democratici nel difendere e rilanciare la Costituzione; penso ai movimenti per i diritti e, naturalmente, penso al movimento sindacale, ai nuovi movimenti che si sono sviluppati dagli anni sessanta ad oggi. Si è così avuto lo sviluppo di soggettività politiche non riconducibili e non organizzabili nelle forme classiche dei partiti. Il conflitto fra questa crescita politica della società e la capacità di risposta delle istituzioni rappresentative, ha reso evidente l'esistenza di una crisi dell'istituto della rappresentanza. Il partito di massa non ha avuto la capacità di contenere e di assorbire tutte queste spinte, ed è stato spesso messo in difficoltà, se non in crisi. Non è però immaginabile che queste nuove soggettività siano riassumibili in forme organizzate. Per definizione, esse sono ad ondate, hanno una grande capacità espansiva, ma anche una mancanza di tenuta. Di conseguenza, soprattutto negli anni settanta, si sono create altre forme fondate non sul primato dell'organizzazione, ma su quello della partecipazione volontaria, puntuale, riferita a singole sensibilità e temi. Configurare un ordinamento politico che tenga conto di queste due forme, quella strutturata e organizzata, che mira a sboccare nelle sedi istituzionali per dare rappresentanza, e quella che rifiuta di fungere da canale di scorrimento verso forme rappresentative, ma si costituisce come presenza politica permanente nella vita sociale, e quindi anche con una dialettica verso le forme storiche rappresentative; configurare un sistema che contiene queste due cose e le organizza  è la grande sfida delle riforme istituzionali di cui si discute da tempo. Non a caso il sistema parlamentare in Italia è stato messo in crisi dalla comparsa di un istituto di democrazia diretta, il referendum. Da quando nel settantaquattro vi è stato il primo referendum, è stato tutto un rincorrersi di iniziative di questo tipo per creare schieramenti trasversali ai partiti su singole materie, e per portare all'ordine del giorno di un'agenda parlamentare vecchia, rigida e sclerotizzata, problemi di cui si sentiva l'urgenza sociale.

La crisi che si vive in questo passaggio, mi riferisco agli anni novanta, si  innesta su questi due elementi di cui ho parlato: da un lato la crisi nei sistemi di integrazione mondiale, dall'altro la crisi specifica dei paesi a movimenti espansivi di partecipazione democratica.

Oltre a questi due dati, si rendono visibili altre due questioni. La prima è che nella crisi dell'ordine mondiale si sta registrando, per quel che riguarda l'area regionale europea, una forte spinta alla costituzione di un soggetto politico europeo nello scenario mondiale: è il tema dell'integrazione e dell'unificazione politica. All'interno di questo vi è anche uno spostamento dell'asse strategico: dall'alleanza subalterna degli stati europei con gli Stati uniti ad un'autonomia rispetto a questi, e alla costituzione di un'Europa attorno ad un baricentro forte, che in questo caso è la Germania. Si stanno riclassificando su questa scelta strategica le forze presenti nei diversi paesi e anche i ceti politici nazionali. Il ceto politico italiano, largamente segnato da quello che era stato chiamato il «partito americano», non a caso viene accantonato da questa ondata e messo fuori gioco. Dagli Andreotti ai Cossiga, dai Craxi agli Spadolini, è tutto un ceto politico che dell'alleanza atlantica ha fatto la sua scelta strategica e che ora è in difficoltà.

La seconda questione che si impone a ridosso di questo nodo della costruzione dell'Europa, è che in ogni caso la via delle collaborazioni delle classi dirigenti tramite gli esecutivi, è debole, non da solidità al processo. E' emerso, e ha poi fatto irruzione con il referendum danese e, in seguito, con quello francese, il tema del come i popoli sono investiti delle scelte. In Italia questo manca e questo è un altro capitolo delle riforme, da introdurre nel nostro ordinamento. Se vogliamo dare basi democratiche più ampie alle istituzioni, il rapporto nazionale-internazionale, che comprende la tematizzazione di quale Europa, non può essere sottratto alla necessità di un largo consenso. Del resto la via preferita dalle classi dirigenti europee di un'integrazione guidata dal potere dell'economia, dalla scelta del primato della moneta, della moneta unica, sta rivelando tutta la sua debolezza: con guerre di monete e processi disgregativi e non integrativi.

Quindi, credo che se dobbiamo leggere la questione italiana e la crisi che stiamo attraversando, occorre mettere insieme questi quattro ordini di problemi. Quest'ultimo, relativo alla via monetarista, riguarda poi un aspetto specifico dello stato moderno. La via monetarista vuol dire politica monetaria e non politica sociale e, quindi, tagli secchi, ributtando sul mercato tutte le questioni delle tutele sociali e dei diritti sociali garantiti dalla Costituzione. La quarta crisi è allora anche quella dello stato sociale. Un modello europeo di welfare esiste e ha soglie minime unificabili, difendibili, che possono essere proposte come modello agli Stati uniti o ai paesi in via di sviluppo. La competizione europea nasce dal proporre un modello sociale e politico più avanzato, oppure nell'avviare un conflitto economico in cui chi ha più potenza e potere vincerà Qui si pone una questione di civiltà, di scelta di modello di civiltà.

 

 

Ancora sulle peculiarità italiane

 

L'importanza di avere un quadro che guardi all'ordine mondiale, non elimina certamente la necessità di guardare alle peculiarità italiane; solo che se non vediamo questo movimento di fondo, non riusciamo neanche a capire la storia italiana, segnata da una maggiore debolezza delle classi dirigenti, del tessuto unitario e anche della costruzione dello stato unitario.  Ma anche nei fondamenti del patto costituente repubblicano c'è qualcosa di non risolto nell'accordo, che lascia margini di ambiguità. Su una serie di questioni fondanti non si è formato un consenso largo e una cultura politica. Del resto l'opera di criminalizzazione e di discredito verso la Resistenza da noi è iniziata subito, e non da parte di forze marginali; e il fatto che continui a tornare fuori periodicamente dice molto.

Noi abbiamo classi dirigenti ristrette che non hanno mai saputo dire, come invece diceva il conservatore De Gaulle a chi voleva che si processasse Sartre: «La Francia non processerà mai i propri Voltaire». Le nostre classi dirigenti hanno sempre proceduto attraverso cooptazioni e discriminazioni: o sei omologo con chi è al potere, oppure sei sempre in odore di eversione e puoi essere sospinto alla scelta eversiva, scissionistica, terroristica. Siamo cioè sempre su un crinale, in cui la democrazia non è mai stata interamente abbracciata, in particolare dalle classi dominanti. Nell'aver capito questo, penso all'analisi di Gramsci e all'azione di Togliatti, sta la parte più ricca del comunismo italiano, che gli ha permesso di legarsi alla storia nazionale, di fare della scelta democratica, radicale, universale senza riserve, la via dell'emancipazione dei lavoratori e delle classi popolari. E' questo che ha reso il Pci diverso, diventando contemporaneamente un pilastro della costruzione della democrazia in Italia e anche l'unico partito comunista che ha fondato sulla teoria della democrazia la propria diversità rispetto al modello stalinista, del socialismo dall'alto, che altrove si affermava. Per questo, nei fondamenti comuni di questo paese, se dovessimo discutere quali culture politiche hanno piena cittadinanza, io continuo a pensare che vi sia un'eredità nel comunismo italiano che ha fondato la democrazia, la Costituzione, lo stato sociale di questo paese. L'idea del patto fondativo e della lealtà ad esso deve essere recuperata, perché se non facciamo questo, e se lasciamo prevalere ancora per delle ragioni politiche immediate la caccia alle streghe, l'esorcizzazione del comunismo, della stessa parola e della tradizione, della memoria storica, ci apprestiamo alla costruzione di un ordinamento politico e sociale che manca tra i suoi fondamenti della prima regola: e cioè della piena cittadinanza  di tutte le idee in quanto democratiche nella loro diversità. Questa è una prima cosa, il primo cardine della cultura politica che dobbiamo mettere alla base di un rinnovato patto costituente: la memoria storica e la piena legittimazione di tutte le componenti che hanno avuto un'aderenza forte nella costruzione della nostra democrazia.

A seguito di questa discriminante, del tentativo di disconoscere la legittimazione a governare e a partecipare, si è avuta la costruzione di un ordine politico in cui l'oppositore non solo non ha legittimazione a candidarsi al ricambio, ma tendenzialmente non ha soggettività, deve essere spogliato della sua soggettività nella vita politica. Di conseguenza, il bisogno sociale vive come pura economia, passa attraverso il sindacato, ma anche attraverso le clientele, dal movimento comunista passava alla mediazione socialista ammessa al governo. Ma, il ruolo politico, la soggettività dell'opposizione è stato smantellato nei decenni, delegittimato. Con il blocco che si è introdotto, con la costante tendenza a cooptare e a integrare in un sistema che non aveva mai ricambio, si è svuotato il senso dell'opposizione, che è uno dei fondamenti della democrazia. Infatti, come esiste una maggioranza, deve esistere anche un'opposizione che ha poteri suoi, autonomi, visibili e riconosciuti, e non toccabili dalla maggioranza. Il controllo sui servizi segreti, sulla pubblica amministrazione, sulla spesa pubblica, sul comportamento del governo deve essere nelle mani dell'opposizione. Questa, invece, è stata la via di spegnimento di una democrazia reale, perché non si legittimava al livello della cittadinanza di base una cultura alternativa. 

Quindi, una cultura democratica deve riconoscere, salvo la scelta del rispetto della prassi democratica, la cittadinanza a ogni posizione e l'idea che si deve valorizzare la dialettica del conflitto e dell'opposizione come ruolo essenziale alla democrazia, da esprimere dentro le istituzioni e nella società con poteri politici diretti. La storia che ci sta alle spalle ha invece visto con la spoliazione del ruolo politico dell'opposizione e la cattura sul piano del bisogno, una prassi di distorsione costante. Questo è tipicamente italiano. Il canale principale della diffusione di questa cultura e della legittimazione di questa prassi è stata la costruzione di un sistema pubblico interamente infeudato al sistema dei partiti dominanti. Fino ad oltre la metà degli anni settanta ha prevalso questo meccanismo, che si è rotto negli anni ottanta, perché nuove potenze economiche hanno cercato di conquistare fette del mercato contestando il ruolo della politica sul terreno dell'informazione, della produzione e della gestione. Ma non si tratta di un libero mercato concorrenziale, bensì di un'oligarchia di potentati che prima hanno sostenuto le varie forze politiche -Craxi contro la Dc o viceversa-, ma che sostanzialmente tendono a scalzare il ruolo stesso della politica imponendosi esse stesse come dominatrici dell'opinione pubblica, del meccanismo e dei movimenti del mercato.

Un altro aspetto specificamente italiano è il fatto che, mentre negli anni della lotta per la democrazia vi è stata la centralità della politica, dello sviluppo della vita sociale rispetto alle sole ragioni dell'economia, con il fallimento di questa linea, con la sconfitta delle sinistre e con il prevalere dei fenomeni di ordine mondiale di cui abbiamo parlato, anche il caso italiano tende alla normalizzazione, nel senso di omologazione alle forme degli altri paesi occidentali in cui la politica ha un ruolo residuale ed è l'economia che domina. Questo spiega anche la parabola di figure come Berlusconi che da supporter di Craxi e Martelli, poi passano alla Dc ed ora si pongono al di sopra dei partiti; ed insieme ad altri, agli Agnelli di sempre, dice ai politici di farsi da parte, perché non c'è più bisogno di una politica così diffusa, così articolata, così pluralista, così frammentata oramai. La politica era, cioè, un «lusso» che le classi dirigenti si permettevano, una necessità imposta dalla lotta tra Est ed Ovest.

 Crollato l'Est questo bisogno e il suo pilastro, il sistema democristiano, non sono più sembrati necessari e ora c'è la spinta a liquidare tutto quel sistema in cui, insieme alla funzione anticomunista, si svolgeva anche la mediazione sociale, la costruzione di risposte a domande diffuse, oltre a quello che nelle forme del clientelismo e dell'assistenzialismo abbiamo conosciuto. Siccome sul piano della tenuta economica questo meccanismo non tiene più e ci impedisce l'inserimento nei meccanismi comunitari, bisogna liquidarlo, spezzarlo. Così gli industriali finanziano il referendum per la liquidazione del finanziamento pubblico ai partiti, sostengono la riduzione dell'intervento dello stato nell'economia, nel Mezzogiorno, ecc., e stanno sostenendo via via tutti i nuovi fenomeni, le liste, le spinte, i movimenti, che contestano e liquidano. Anche «tangentopoli», anche la riduzione di un grande problema dello stato, di come si governa e controlla, in questione esclusivamente di onestà, di denuncia del ladrocinio, è un altro aspetto della cultura politica dominante; non è così, è questa  cultura dominante che lo presenta così, perché dietro c'è la linea della liquidazione dell'intero sistema. Non si può presentare all'opinione pubblica tutti gli amministratori come ladri. Io sono a favore della riforma dei partiti, della restrizione del numero degli eletti, del controllo contro le rapine, i ricatti, le corruzioni, ecc., però non voglio buttare via con l'acqua sporca anche il bambino. Nella linea che si sta affermando, in cui «tangentopoli» sembra essere l'intero l'universo della politica italiana, io vedo una manipolazione che discende da una cultura politica. Quella paleoliberale, che ha sempre ritenuto la politica un fatto di corruzione dell'economia, è Pareto: qualsiasi domanda che non si esprime come domanda e offerta sul mercato, che si esprime come domanda politica organizzata e sostenuta dal governante, introduce nell'economia una distorsione, una corruzione del meccanismo pubblico. Dentro questa idea originaria della cultura delle classi dominanti italiane, che la politica è all'origine delle clientele, dell'assistenzialismo, c'è una idea antistatale, antidemocratica; che poi si smaschera da sola, perché l'industria privata italiana è cresciuta a partire dal secolo scorso all'ombra dello stato, ha sempre scaricato sullo stato le proprie perdite., gli chiede di risolvere i suoi problemi di ristrutturazione, usando la cassa integrazione, usa lo Stato per la sua accumulazione e per i suoi investimenti.

 

 

La democrazia come regime del confronto, del riconoscimento dell'altro e dell'apprendimento

 

Come si uscirà da questa situazione? Certamente bisogna assecondare processi che contrastino la frantumazione, sospingere anche le forze politiche a momenti di confronto e tendenziale ricomposizione, creando l'alveo in cui il fiume possa scorrere, in cui far rifluire i diversi rivoli di una storia così frantumata. Ma questa è semplicemente la parte relativa alle politiche di sostegno del processo, innanzitutto deve esistere il processo stesso. Devono, cioè, già esistere culture che lavorano in quella direzione, soggetti che si pongono questi problemi.

Trovo fondamentale, in questo senso, l'attenzione ai problemi di formazione politica, a partire dalle tare che ho cercato di mettere in luce; la scuola stessa è stata tenuta accuratamente fuori dal compito di formare una cultura di politica di base. L'educazione civica come conoscenza della Costituzione è stata introdotta  tardi e insegnata male, e tuttora è inesistente. I livelli di scolarizzazione obbligatoria ancora oggi nel nostro paese sono inferiori al resto d'Europa. Quindi noi dobbiamo sapere che in questa situazione la cultura democratica è negata dai processi formativi scolastici; anche perché all'origine di tutto questo c'è la diffidenza verso il fondamento storico politico di questa repubblica, verso la Resistenza, le culture e i soggetti che vi avevano materialmente preso parte, compresa la componente del movimento operaio e del Pci. Una lotta di delegittimazione che ha creato ignoranza, che ha steso un velo sulle vere caratteristiche culturali e di programma di quei soggetti reali. Inoltre ereditiamo una scuola costruita su un modello di pedagogia autoritaria, dove è confluita una cultura idealista laica antiscientifica che scende dall'alto e non sale dalla vita concreta; che si è congiunta a un modello in fondo clericale, tutt'ora presidiato dai ministri democristiani, nonostante le grandi novità che sono emerse nello stesso mondo cattolico negli ultimi trent'anni. Una scuola così non è un luogo dove si apprende a sviluppare un proprio processo individuale di crescita. La scuola è un terreno ricchissimo di formazione politica. La forma della scuola si trasmette nella struttura mentale dei discenti e può trasmette un modello aperto, progressivo, democratico; oppure un modello di dipendenza, di ordini e priorità, di autorità e gerarchie. La scuola è apprendimento, ma anche la democrazia è, secondo una definizione che mi piace molto, regime dell'apprendimento. La democrazia è quel regime politico che consente le correzioni, si oppone alle scelte tragiche e irreversibili, consente di rimediare agli errori, quindi è un regime politico fondato sull'idea della continua correzione in forza di un esercizio razionale continuo, di confronto, dibattito e correzione. La forma politica democrazia, che ha dentro di sè l'idea della crescita attraverso l'apprendimento, e la scuola, se è intesa come luogo di costruzione della personalità democratica e quindi capace di apprendere, devono andare insieme.  La scuola italiana, invece, è stata  costruita sulla negazione di una cultura aperta, del razionalismo non come astratto e rigido pensare ma come contraddittorio, come regola di verifica. Vi sono state censure, depistaggi, nascondimenti di intere tradizioni, arretratezza tra l'attualità e i programmi di formazione necessari a valutare il presente. Questo è un problema di fondo della cultura italiana.

Chi, in questo paese, ha costruito cultura politica democratica di base? Evidentemente con una scissione forte con le politiche istituzionali della scuola. Proprio i soggetti della democrazia e i partiti stessi con tutti quei difetti, quei contrasti tra di loro, quelle esclusioni; e insieme ai partiti e ai sindacati, quei movimenti di cultura cattolica, di cultura liberale o democratica, di cultura socialista o comunista, che hanno fatto da alone ai partiti fondamentali. E' in queste sedi che si è fondata e riprodotta una cultura della democrazia, ma con tutte le limitazioni e le deformazioni proprie dell'essere quel sapere necessario all'identità di quei soggetti, che ne motivava l'esistenza e ne riproduceva i difetti, le rigidità, l'essere nati contro altri e per distinzione e contrapposizione. Non esistendo una teoria che legittimava la propia posizione con il riconoscimento dell'altro, non si è legittimato alla base questo pluralismo; abbiamo quindi sì avuto un pluralismo effettivo e reale, ma costruito sull'idea che ciascuno delegittimava il suo interlocutore. E questa distorsione dentro l'unica cultura democratica che veniva prodotta e riprodotta, si è protratta a lungo.

Soltanto dopo la rottura degli anni settanta, dopo il tentativo di solidarietà nazionale, dopo momenti di catarsi nazionale tragici, come la morte di Moro, è cominciato un ripensamento dei fondamenti, e anche dei limiti, di questi reciproci divieti, sbarramenti, disconoscimenti di legittimità. Ma cultura prodotta a partire da quella grande crisi della coscienza nazionale, perché questo fu l'assassinio di Moro, sino ad oggi non ha ancora maturato una teoria non solo di fondamento comune, ma anche di costruzione positiva. Siamo ancora dentro ai movimenti di tipo referendario, c'è la proposizione di grandi bisogni di democrazia, ma non c'è la formalizzazione di un disegno. Il movimento referendario ha sollevato tante grandi questioni, ma non ha proposto il disegno di riforma corrispondente. E non è un caso che ora che si costituisce una commissione bicamerale per le riforme, il movimento referendario, peraltro tenuto fuori per errore, non sta lavorando per le riforme. Vuole ancora i referendum, si spacca su questo, ha paura dei lavori della commissione, è sospettoso, e non ha prodotto un disegno unificante. Se si va a verificare, si vede che all'interno dello stesso movimento referendario vi sono idee diverse di sistema elettorale; idee diverse di sindaco e di potere democratico di base; idee diverse sui modi della selezione del personale pubblico, attualmente determinata interamente dai partiti e che si vuole giustamente correggere, introducendo momenti di valorizzazione dei cittadini e dei loro comitati. Idee che però non possono neanche precipitare nella forma di nuovo notabilato in cui, distrutti i partiti, nascono persone prive di una legittimazione pubblica verificabile; con comitati di cui occorre sapere come nascono, con quali ruoli e interessi, con quali forme trasparenti o occulte si mettono a sostenere questi candidati. E' tutta una discussione da fare, nella quale si scopre che un movimento referendario così forte, non ha alle spalle la un progetto positivo comune, non ha una piattaforma comune di riforme. Questo disvela un altro punto di debolezza della cultura politica diffusa, perché manca la necessaria attenzione ai momenti di conclusione, di costruzione di sistema, di disegno unitario, coerente e organico. E' mai pensabile che possa uscire un nuovo sistema a colpi di maglio, a pezzi e bocconi staccati a morsi dal vecchio corpo. Che cultura politica è mai quella che pensa di costruire uno stato, un ordinamento sociale e civile, non proponendo, non confrontando il proprio disegno, senza un chiaro disegno di riforma? I limiti del processo riformatorio, le contraddizioni e le debolezze delle forze riformiste aprono la strada a questo, ma il referendum abrogativo così usato è un ricatto, non una costruzione. A meno che non si pensi che queste cose nascano come le statue di Michelangelo, togliendo dal marmo via via dei pezzetti, nella convinzione che tutto fosse già nel vecchio sistema. Io  non lo credo che già fosse tutto nel vecchi stato.  Questa è una tipica manifestazione di una cultura politica astratta, schematica, non propositiva, non costruttiva, che non vede le esigenze del sistema e della razionalità sistemica. Democrazia è razionalità.

 

 

La  cultura politica, i mass media e le ambivalenze della personalizzazione

 

Del resto queste tentazioni di nuovo notabilato e quest'emergere prepotente, e da tempo, di forme di personalismo diffuso nella vita politica, non sono una semplice riedizione del passato. Vediamo le cose nella loro ambivalenza: non c'è alcun dubbio che ci sono questi aspetti regressivi, ma questo è il portato non tanto di una regressione culturale, quanto dell'impatto forte della comunicazione televisiva. Siccome la televisione mostra la faccia di coloro che parlano e che governano, introduce un elemento di controllo diretto: se non sai parlare, se non sei convincente, sei tagliato fuori. Con la televisione si impone  capacità di comunicazione, visibilità, immagine. Si parla, giustamente, di spettacolarizzazione e il nostro sistema dell'informazione è dominato da questa cultura che sospinge in maniera nettissima verso la personalizzazione e la spettacolarizzazione. La personalizzazione è uno strumento concreto di restrizione dei problemi, ma anche delle domande, dei protagonisti. Quindi, non più il partito di massa con la sua complessità, con le sue diverse facce, come ce le trasmetteva recentemente Morettti con un film sul travaglio del Pci. Le televisioni oggi mandano in onda soltanto le facce di D'Alema, di Occhetto, ecc., che si sostituiscono ad un organismo collettivo. Si tratta di un meccanismo di riduzione, che ha dentro una spinta alla selezione forte, all'autorità, alla concentrazione, ma anche alla semplificazione, al controllo diretto. In questo processo vi sono le due facce da tenere presente per fare un'analisi ravvicinata e una critica della cultura politica che presidia al mondo dei media. E' lì, infatti, che troviamo servilismo all'autorità politica, semplicismo. Perché un Funari non può occupare per un'ora il video con la sua dentiera e poi pretendere che le persone chiamate a parlare di problemi veri debbano esporre quei problemi in mezzo minuto. Si sta arrivando a forme di leghismo televisivo, la cultura politica diffusa si proietta attraverso i media e si riproduce con difetti ulteriormente ingigantiti. Quello che si vede oggi sul video non è che la proiezione del sistema feudale Dc prima, della prepotenza socialista dopo, del leghismo che avanza oggi. Oppure, abbiamo il radicalismo alla Samarcanda, dove la piazza è finta, chi partecipa è stato appositamente invitato come pubblico urlante contro obiettivi prescelti. Non è così che si fa. Noi non abbiamo, dunque, una tradizione democratica, con cui possiamo inventare una televisione nuova. Dalla televisione ci ritornano, peggiorati, i nostri stessi difetti di storia di cultura politica. Questo è uno dei problemi centrali nella costruzione della democrazia, fa parte del tema della formazione politica. La televisione è la sola a fare formazione politica oggi. Televisione che, nell'arco di quarantotto ore, riesce a produrre innumerevoli risposte, senza sollevare problemi e senza costruire un processo di conoscenza e di apprendimento che richiede i suoi tempi. La televisione, invece, normalmente brucia i tempi e da risposte o con il principio dell'autorità, che può essere rappresentato dall'esperto di turno, dal presidente del consiglio, e così via, oppure semplificando attraverso scelte tipiche di questo giornalismo. In questo senso, è opportuna una critica sul modo di gestire i tempi dei processi formativi, le tematizzazioni, le linee di ricerca. Non esiste una presenza democratica capace di incalzare, di proporre e di condizionare uno sviluppo in quel senso.

La personalizzazione, però, nel sistema dei media introduce un altro elemento, e cioè che il pubblico, per quanto passivo, ha l'illusione di avere, e in parte ha, un controllo sul nominato sull'eletto, perché può spiare. Personalmente, ritengo che stiamo passando da una democrazia della partecipazione, quindi della mobilitazione attiva delle persone, alla democrazia del gradimento, in cui si può al massimo spegnere lo spettacolo se non lo si gradisce, e quindi ad una passivizzazione di massa, che però è vigile, informata, attenta. Pertini era amato, Craxi è odiato per la faccia che ha, e quindi questo elemento persona dobbiamo tenerlo presente. Indubbiamente la faccia è uno specchio dell'anima. Il mezzo buca, si vede come sei.

L'elemento personalizzazione comporta quindi in sè anche una domanda di controllo. La preferenza unica, addirittura il vincolo di mandato, è un domanda che ha un suo contenuto democratico. Dobbiamo sapere che poi c'è un risvolto di riduzione, di indebolimento, di creazione di localismi, però è un modo di selezionare un altro tipo di rappresentanza, radicata socialmente e localmente, diversa da quella fondata su patti interclassisti.

 

 

Il cammino del Crs

 

Rispetto alla vita intellettuale ho sempre pensato che si guarda troppo ad alcune élite, in realtà anche se si fanno proclami di democrazia si finisce per costruire un circuito ristretto, questa non è ancora la democrazia che io ho in mente. Nell'ambito della discussione relativa all'opportunità di istituire una scuola per élite piuttosto che per militanti di base, si è mossa per decenni la linea di discussione interna ai partiti e la linea dominante è sempre stata quella che tende a rivolgersi alla formazione dei dirigenti e dei quadri. I quadri come bassa forza, terreno di selezione della forza più elevata, mentre l'area larga, aperta, esterna, della militanza diffusa, della semplice sensibilità democratica, è stata toccata episodicamente, tangenzialmente. E' normalmente rifiutata, in quanto richiede un investimento straordinario, strutture, tempi e modalità non possibili al soggetto privato. Ma, se è questo è vero, allora occorreva moltiplicare l'iniziativa, affinché il soggetto pubblico, la scuola, facesse, per il bene generale, quell'investimento diffuso che invece non ha fatto. Non si può imputare all'organizzazione di un partito o di un sindacato di non investire largamente nella produzione della cultura di massa; ma allora bisognava ottenere delle politiche scolastiche che integrassero i due livelli.

Il Crs in forma embrionale ha affrontato questo problema, partendo dalla convinzione che la cultura che producevamo non doveva essere riversata nell'orecchio di un principe, non cercava il collo di bottiglia del dirigente di turno a cui dare consiglio. Non abbiamo inteso essere ufficio studi di partito, ma abbiamo sempre guardato a interi strati come referente ideale: la magistratura, gli avvocati, i sindacalisti, gli studenti, fasce di cultura politicizzata. Non so se ci siamo riusciti, forse l'associazione che abbiamo costituito poteva avere basi più ampie, questo è il limite dell'esperienza; ma questo era il nostro scopo, nella convinzione che proponendo a quei soggetti, l'aggiornamento, la riflessione, il confronto, il dibattito e l'elaborazione, si producono effetti diffusivi e persistenti capaci di retroagire e di influenzare il decisore di turno. Questo è lo schema che abbiamo seguito. A questo punto, abbiamo tentato di verificare se l'elaborazione prodotta in anni e anni di esperienza di centro studi, di formazione di quadri, poteva  servire come formazione di base, o meglio di primo livello di aggiornamento per una militanza diffusa. Abbiamo risposto a domande di corsi di formazione politica, nati un po' per imitazione di quelli analoghi proposti dai cattolici; ne abbiamo anche organizzati noi stessi e abbiamo sempre cercato di partecipare a momenti di dibattito, per verificare se la nostra elaborazione incontrava quella destinazione ideale e se la forma in cui la presentavamo funzionava; se, cioè, era capace di innescare processi di riflessione autonoma, ulteriori momenti di approfondimento e se penetrava nel corpo vivo di un movimento, di un partito e ci ritornava come problema dal decisore politico, sotto forma di domanda che ci veniva posta. Questa chiusura del cerchio in più di un momento vi è stata. Molte delle questioni da noi tematizzate, senza ascolto dai dirigenti del partito per anni, ci sono ritornate quando sono diventate tema comune diffuso. Solo ora si discute del percorso di riforme istituzionali, o dei poteri del referendum, di che tipo di Parlamento ci serve. Ora è arrivato il tema nelle aule del Parlamento, e anche le direzioni di partito chiedono risposte su questo punto, ma questo centro ne parla da quindici anni. Il nostro lavoro culturale ha camminato non sulle gambe del Pci o del Pds, ma di movimenti referendari, di iniziative dal basso, di associazioni di volontariato: in questi anni siamo stati la fonte da cui ha attinto costantemente la cultura di certo associazionismo, di certo volontariato, le linee di lavoro di molte esperienze politiche di base. Ora che quelle cose da noi diffuse tornano in campo tramite quei movimenti come esigenza di decisione politica, come tema posto all'ordine del giorno politico, ecco che il nostro stesso partito se ne accorge e rinnova il rapporto tipo servizio studi, per cui ci chiedono proposte, correzioni, revisione di testi legislativi, ecc. La chiusura del cerchio in questo senso c'è stata, ma dietro c'è un'esperienza che dura da più di quindici anni. Quando sono venuto qui, non c'era un centro studi, bensì un'etichetta dietro la quale si nascondeva un potere di iniziativa politico-propagandistica. Non c'era una segretaria, c'era un fattorino, c'era la possibilità di indire convegni, non c'erano ricercatori.

Ci si può anche chiedere, di fronte alla gravità dei problemi che sono venuti maturando, se dovevamo porre la questione del ruolo di associazioni come la nostra con maggiore forza , per noi e per gli altri. Innanzitutto c'è sempre una sorta di timidezza e di pudore nel proporre la propria esperienza come un problema della democrazia del paese. Sono convinto che abbiamo fatto la nostra parte, però c'è sempre un elemento di dubbio, se non di modestia. Detto questo, ha prevalso una lotta in cui o il potere politico, o il mercato, selezionano, mentre la riproduzione che noi auspichiamo attraverso un processo  democratico di crescita culturale richiede i suoi tempi, le sue strutture, la sua politica pubblica, anche i suoi soggetti privati. Questo tipo di iniziative sono sempre state conflittuali e spesso marginali, del resto non molto diverse sono state le esperienze nella Cisl e del mondo cattolico, perché il grosso delle risorse viene dato alle strutture di captazione del consenso, di addomesticamento, di circolazione di un sapere consolidato e santificato dall'autorità. Non bisogna mai dimenticare che chi cerca delle vie nuove è in conflitto con i potenti del suo stesso ambiente.

Del resto il tema della crisi del partito politico noi lo ponemmo con molta anticipazione. Se rileggiamo oggi il librettino di De Donato che raccolse le relazioni a un seminario che tenemmo nel 1981 (Il partito politico e la crisi dello stato sociale: un'ipotesi di ricerca), vediamo che lì si anticipava la crisi del Pci verificatasi dieci anni dopo. Quindi, il problema è stato posto, ma non basta una risposta intellettuale di progetto, scritta a tavolino, su come deve cambiare il Pci, lì contano la materialità e la soggettività. Quando si tratta di soggetti collettivi di quella portata, ci si mette dentro lacrime e sangue. Si può anche parlare di responsabilità morale di chi aveva visto questi problemi perché non ha girato di più il coltello nella piaga, anche se ha reso l'ambiente sensibile a questi temi. Sono convinto che non sia giusto affermare che la discussione non era stata incardinata sul giusto binario. Ad esempio, la proposta di costruire fondazioni ed associazioni autonome risale all'ottantadue, quando passa per il comitato centrale del Pci. Ci volle quella decisione per decidere di cominciare questo cammino, ma anche allora non ci si è mossi subito in quella direzione. Siamo diventati associazione nell'ottantacinque e solo allora si è visto che questo poteva essere un modo per organizzare diversamente la circolazione delle competenze, cogliendo una richiesta di partecipazione alla ricerca politica, rifiutando la linea del semplice assorbimento e della dipendenza. Quindi, abbiamo proposto qualcosa, e questo qualcosa oggi fa da modello o da campo di sperimentazione consolidata  alla proposta di riforma dei partiti che viene sull'incalzare dell'emergenza dei referendum, l'abrogazione del finanziamento pubblico. A cosa si fa appello nell'emergenza? Ad un modo di fare politica attraverso fondazioni culturali, che devono avere al centro come compito pubblico, non solo per gli iscritti ai partiti, quello di creare sapere democratico e la riproduzione di una società politicizzata. Dietro queste proposte ci sono battaglie e lavoro di anni, non è vero che la questione non fu posta. Non ha mai avuto le prime pagine, perché la politica è quel conflitto dove quelli che non hanno conseguito le posizioni vincenti e sono sotto attacco non devono apparire. Io so bene che dopo un'eventuale riforma di questo tipo in queste fondazioni per la cultura politica dei partiti si nasconderanno degli enormi carrozzoni di riqualificazione del vecchio personale, ma lì comincia un'altra battaglia: una volta che avremo costituito una forma nuova, dovremo lottare per affermare le priorità politico-culturali al loro interno. Non si tratta però di una forma nuova che nasce come un fungo e per virtù propria, in quanto dietro c'è tutta questa storia. Quindi, non direi che il problema non è stato posto, è stato posto ma non abbiamo mai vinto e ora diventa invece una necessità perché gli altri hanno alla lunga perso.


Maria Eletta Martini

 

 

 

Dalla crisi delle ideologie alla necessità di un rinnovato impegno culturale

 

Io penso che la crisi politica e istituzionale che sta attra­versando il nostro paese non  sia un problema solo nostro, perché noi subiamo tutti i contraccolpi di ciò che accade nel mondo. Ciò che è successo nell'Est europeo non è che non ci tocchi, così come quanto sta accadendo negli Stati uniti. La partecipazione iniziale alla nostra vita democratica, sin dalla Resistenza, è stata una grande ricchezza, ma adesso mostra i suoi limiti. Ab­biamo avuto delle presenze fortemente caratterizzate dal punto di vista ideologico, che hanno fatto da collante di fronte alle dif­ficoltà. Si pensi ad esempio a come i partiti, se non tutti alme­no i più importanti, facevano le loro campagne elettorali: per grandi temi e tesi, che la gente capiva. Tesi come quelle della sinistra che voleva portare la classe operaia al governo, oppure l'affermazione della libertà da parte della Dc, avevano una forza tale da assorbire o da mettere in secondo piano anche le diffi­coltà che di fatto esistevano .Quando si è perso questo punto di partenza, quando si sono smorzati gli entusiasmi, abbiamo inizia­to a riflettere, io ad esempio tra questi, e a pensare che la laicizzazione dei partiti, di tutti i partiti, era un grande suc­cesso: per la maggiore libertà che così tutti acquisivamo e per­ché non era giusto che le grandi idealità nascondessero o mettes­sero in secondo piano i problemi concreti, anche di tutti i gior­ni. Poi ci siamo accorti che non siamo stati in grado di realiz­zare un passaggio che non fosse, come di fatto è stato, dall'i­deologia al pragmatismo: in mezzo, cioè, ci doveva essere un pro­getto politico, che necessitava di un retroterra culturale. Tutto ciò ha prodotto un disastro; è una delle ragioni della frammenta­zione che vi è stata e che,  prima ancora che sociale, è politica.

In più si è verificato un fatto che è in sè positivo, ma che ha rotto il patto sociale sul quale si è fondata questa repubblica: le nostre democrazie sono sorte all'insegna del «tuteliamo i mol­ti dal potere dei pochi» e i molti appartenevano a classi sociali inferiori o con possibilità di successo inferiori. L'ascesa delle classi popolari al potere  è stato il più grande risultato poli­tico che noi abbiamo raggiunto. La solidarietà, che era alla base di quel patto sociale, si legava alla prospettiva di nuove  con­quiste, che sono state in buona parte raggiunte: attualmente ab­biamo nel nostro paese una grande maggioranza di persone che stanno tra il benino e il benissimo . L'ultima indagine sulla povertà parla di oltre otto milioni di poveri nel nostro paese; certo sono sempre tanti, ma di fronte a 56 milioni di abitanti sono una esigua minoranza, se guardiamo alle condizioni da cui siamo partiti dopo la guerra. Oggi, dunque, quel patto di solida­rietà legato al conseguimento di quelle conquiste si è logorato, mentre è conseguentemente cresciuto l'individualismo. C'è chi si ribella, e le leghe sono una manifestazione tipica di questa ri­bellione, anche se non l'unica, per difendere dei privilegi.

Così la cosa che mi colpisce di più è la frammentazione del sindacato. Già il sindacato è una parte, se al suo interno si suddivide ulteriormente ciò significa che la frammentazione ha raggiunto addirittura piccolissime cose. Quindi la caduta delle ideologie, alle quali non si è sostituita una politica cultural­mente ricca, e il pragmatismo, hanno indotto a credere che tutti i gatti siano bigi. Non è un caso che si passi da un'alleanza ad un'altra -penso agli anti locali- come niente fosse. Il Ministero degli interni dopo le ultime elezioni politiche dava in Italia 250 forme di maggioranze di governo diverse negli enti locali; c'è di tutto, con buona pace dei pentapartiti nazionali e delle alternative di sinistra. Questo indica che non solo non vi sono più le premesse ideologiche, cosa che mi sta anche bene, ma non vi sono più neanche quelle culturali, che invece dovrebbero es­serci. Da qui deriva quell'appiattimento che  stiamo vedendo, questa frammentazione sociale. I sindaci oggi devono prendere decisioni che vent'anni fa non dovevano prendere, ad esempio dove collocare le discariche dei rifiuti urbani. Quando il consiglio comunale decide la sede, sorge subito un comitato costituito da­gli abitanti di quel luogo che si oppone alla proposta. Se poi il consiglio comunale, con una nuova deliberazione, sceglie una nuo­va ubicazione per la discarica, ecco che sorge un nuovo comitato contrario. La difesa ad oltranza dei propri interessi, anche se non attribuisco un significato negativo alla parola interessi, con la mancanza di solidarietà, di ricerca di quello che la cul­tura cattolica chiama bene comune,  sono all'origine delle diffi­coltà che stiamo attraversando.

Il Parlamento nella decima legislatura non è vero che non ha lavorato, ha prodotto 900 leggi di cui un grandissimo numero sono quelle che in modo dispregiativo i parlamentari chiamano leggine, ma che tutti fanno e che sono la risposta ad interessi particola­ri. E' una decadenza della politica? Certo. La politica, avendo abbandonato le grandi idee, si è ridotta alla mediazione degli interessi, con il risultato che, siccome ci sono tanti interessi forti, chi ha interessi deboli viene regolarmente schiacciato. Ecco perché è finito, drammaticamente il patto sociale,  che fu alla base della Costituzione repubblicana, di questa repubblica e di questa democrazia. Paradossalmente, questo è anche un successo del benessere raggiunto che, però, ha spaccato tutto. Noi riu­sciamo a fare grandi show, come per la recente convention repub­blicana negli Usa, che sono una cosa drammatica: nessuno là ha parlato dei drogati, degli ispanici, ecc. Il problema, allora, è la mancanza di solidarietà nel benessere raggiunto. Poco prima delle elezioni Sartori diceva che non abbiamo più paure. Ed è vero. Questo accade perché la stragrande maggioranza delle perso­ne sa di possedere una casa, un lavoro, i mezzi finanziari neces­sari per vivere. Era il raggiungimento di questi obiettivi mate­riali che compattava la gente intorno alle grandi tesi all'inizio della nostra repubblica. Ovviamente, non rimpiango quella situa­zione, ma dico che la politica e, in senso più lato, la cultura di questo paese, non sono riuscite a proporre dei nuovi valori che si adeguassero alle nuove esigenze sociali. E' chiaro che così abbiamo scoperto che la decadenza è nelle istituzioni, ed è vero, ma non sono solo le istituzioni a non funzionare. La formu­la istituzionale non serve se non riesce a correggere queste co­se. Oggi si dice che la politica si è spostata al centro, ma per­ché essa ha una maggioranza che la sostiene. Secondo me, il pro­blema sta qui. Anche tutto il sistema del volontariato rischia di essere un fiore all'occhiello, se non si pone il problema della rappresentanza di coloro che sono socialmente e politicamente emarginati; non cambia nulla, se non si parte dall'idea che è contro questo vuoto culturale e di valori che bisogna muoversi.

 

 

La crisi dei partiti

 

I partiti hanno grandi colpe per quanto riguarda la crisi che stiamo attraversando, ma anche qui non bisogna semplificare. In un articolo di qualche giorno fa Cassese scriveva che la legge 142 sulle autonomie locali, una delle poche leggi importanti ema­nate in questi ultimi anni senso, dà un'indicazione culturale di fondo molto utile sulla distinzione tra gestione e politica, ma che, di fatto, la gestione, anche dei comuni, è ancora affidata agli stessi politici, o a persone scelte dai politici. Quindi, la divisione c'è sulla carta, ma di fatto non si realizza. Lo stesso fenomeno delle tangenti è opera di gestori locali. Noi abbiamo creduto, ed io tra quelli, che il decentramento, tanto politico quanto amministrativo, fosse una cosa molto importante, ma di fatto si sono ripresentati gli stessi errori. Anzi, si è accre­sciuto il numero delle persone che hanno creduto che facesse par­te del gioco della democrazia anche quest'abuso continuo e ripe­tuto.

Certamente, poi, questo fenomeno delle tangenti è divenuto più evidente in un periodo in cui vi sono delle difficoltà dal punto di vista della partecipazione democratica, in mancanza di con­trollo sociale. Delle amiche di una associazione di donne umbra mi raccontavano che nella loro regione, che indubbiamente è una regione ritenuta viva sul piano della partecipazione e ben ammi­nistrata, convocate dagli amministratori pubblici per dire il loro parere su un problema di asili nido, si sono trovate a par­lare davanti ad un registratore, e naturalmente loro si sono ri­fiutate di farlo. Se questo succede in Umbria, chissà dalle altre parti!

La crisi, insomma, è gravissima. Devono essere realizzate delle modifiche istituzionali: il nostro paese  è cresciuto ed ha biso­gno di cambiare d'abito. Ma per far questo occorrono delle visio­ni politiche d'insieme, e non frammentarie. Ricordo sempre un ragazzo che mi ha detto di aver votato per i Verdi perché è più facile. Effettivamente è più facile una scelta politica di carat­tere monotematico, poi però il Verde si troverà in Parlamento a dover parlare di pensioni, di sanità, ecc. La scelta monotematica è più facile perché così si evita la complessità dei temi, che esige uno sforzo culturale.

C'è poi chi sostiene che i processi di costruzione di carattere sovranazionale, come la Comunità europea, tendono a mettere in crisi i partiti nazionali, ma io a questo non credo molto. Ci deve essere un motivo per cui la gente sente l'Europa lontana. Sto preparando un convegno sul volontariato e sull'«Europa senza frontiere» e vedo che incontro molte difficoltà, perché i più hanno in mente il dato contingente. Per ora l'accordo comunitario funziona per i «mercanti», speriamo per l'economia, ma penso che non potrà rimanere solo questo. L'assenza di solidarietà di cui parlavo prima rischia di essere ancora maggiore. Abbiamo dei se­gnali evidentissimi di ciò. Guardiamo ad esempio alla Carta so­ciale: è la carta dei diritti dei lavoratori, ma non è la carta sociale, perché tutto il tema dell'emarginazione non appare nean­che. Questo accade perché il moderatismo vincente cui accennavo prima, in Europa è ancora più evidente.

 

 

Perché sono mancate le innovazioni?

 

Certo che l'ideologia era più facile e tutto sommato era già pronta, mentre una cultura politica più laica deve essere co­struita ogni giorno, deve tener conto dell'indicazione di tutti, deve tener conto di una partecipazione che i vecchi schemi ideo­logici non prevedevano. C'è però da chiedersi perché, mentre si andava verso una maggiore laicità della politica che io stessa ho salutato come cosa positiva, non ci siano state una serie di ini­ziative tese ad uno sviluppo della cultura politica.

Io credo che la cosa sia andata così: da un lato c'era chi pen­sava che il futuro fosse dell'ideologia e della cultura laico-marxista. Ed effettivamente da questo punto di vista in un certo periodo per il nostro paese è sembrato che il futuro fosse que­sto. C'è così stata una sorta di divisione dei compiti e di reci­proca difesa delle tre culture politiche fondamentali che hanno ispirato la nostra costituzione, quella laica, quella cristiano-cattolica e quella marxista; e non a caso qui parlo di culture politiche e non di ideologie, perché secondo me la nostra costi­tuzione non si fonda su delle ideologie, ma ha basi culturali più solide. Così le istituzioni sono rimaste in mano alla cultura, ma anche alla politica, cattolico-liberale, mentre nel sociale è sembrata prevalere la cultura marxista e del Pci. Del resto la cultura socialista, troppo continuamente ballerina per creare un'attrazione culturale vera, si è confusa con quella laica. La cultura marxista, del Pci, un po' perché era una cosa avveniri­stica, un po' perché era isolata all'opposizione ha dovuto crear­si le sue strutture, perché non poteva pensare che fossero soste­nute o nemmeno rappresentate nello stato. Non a caso aveva creato le sue scuole e la sua stampa. E' stato proprio l'isolamento in cui si è trovata a favorirla in questo senso. Non a caso quelli che hanno investito di più sul piano culturale sono stati proprio gli esponenti della cultura marxista. Essendo isolata ed all'op­posizione doveva, infatti, crearsi le sue strutture e non poteva pensare che potevano essere sostenute anche solo in parte dallo stato; non è senza significato che l'Unità, in questo paese, ha raggiunto il massimo di lettori di fronte ai quotidiani degli altri partiti; e questo è un fenomeno culturale, non solo del­l'informazione. Si era così determinata una separazione tra pote­re politico e società. Nel momento in cui il potere politico ha cercato di raccordarsi con la società, ha preso delle smusate enormi, perché quello marxista e comunista era un punto di rife­rimento vero, un punto di riferimento con la sua ricchezza, che si poteva condividere o non condividere, ma che c'era ed aveva una sua identità specifica.

Per quanto riguarda la cultura cattolica credo che lì abbiamo tutti forse poco considerato cosa ha voluto dire il Vaticano II nel nostro paese, perché ha capovolto una serie di vecchi schemi, riandando alle fonti; si tratta si di un problema di fede reli­giosa, ma anche di un problema culturale enorme. Abbiamo sempre detto che il cristianesimo è una cultura, una fede, non è una ideologia dalla quale derivano immediatamente soluzioni tecnico politiche; però il Concilio ha fatto giustizia di equivoci passa­ti e ha chiaramente posto i rapporti tra fede e cultura, fede e politica, Chiesa e mondo, come si usa dire. E tutto questo mentre il potere politico in Italia era in mano anche a partiti laici, ma  con prevalenza politica della Dc nella quale si riconosceva una grande maggioranza dei cattolici italiani, allora più che in altri tempi, anche se non saranno mai tutti.

Tutte queste cose evidentemente marcavano la distinzione cultu­rale e politica, però mostravano anche quella che Moro chiamò giustamente la presenza dei due vincitori, quando nel '76, l'anno più importante per l'inizio del cambiamento, il Pci raggiunge anche il potere politico: dall'opposizione va al governo delle grandi città, ecc. Non si poteva più pensare che questa era una posizione di isolamento. Da lì è cominciata, per il contagio del­l'esercizio del potere, anche la diminuzione di purezza culturale oltre che ideologica. Il sessantotto poi non va trascurato, coin­cide con le evoluzioni culturali anche all'interno della Chiesa. Si tratta di due fenomeni che si incrociano l'uno con l'altro e questo cambiamento ha messo in crisi i vecchi sistemi. E' comin­ciato da lì il cambiamento. E il cambiamento, poi, invece di ar­ricchirsi di quello che di bello, di nuovo e di libero poteva portare la laicità, che è un atto di libertà, ha portato a enorme decadenza, che poi ha avuto anche importanti componenti di carat­tere internazionale. Il terrorismo, poi ha avuto conseguenze mol­to importanti perché ha fatto rifare quadrato  intorno alle isti­tuzioni, viste come una salvaguardia per tutti: è stato un fatto molto importante, ma è stato anche un alt per tutti.

Ha dominato una logica emergenziale: ora è prevalso questo, ora quest'altro. Gli uomini di cultura  sono stati scoraggiati in maggioranza da questa loro ambizione, tendenza, speranza, illu­sione di una cultura diversa. Ciascuno è ritornato a fare le sue cose, anche importanti, ma dove le questioni di carattere politi­co sono sempre più distanti. Qualche tempo fa qualcuno ha ripar­lato di tradimento dei chierici. Penso sia vero. Ricordo un epi­sodio con dei ragazzi della Dc a Pisa alla Sapienza, dove nel passato c'è stata una situazione molto difficile con Potere ope­raio, ecc.; con loro abbiamo organizzato un incontro all'univer­sità, dopo questo, che è andato bene, i docenti democristiani ne hanno voluto organizzare uno anch'essi. Mentre però questi ultimi hanno parlato solo di riforma universitaria, i ragazzi avevano affrontato i temi politici per quattro ore, scontrandosi, ber­ciando. Ricordo che un ragazzo disse: «non sapevo che ci fossero dei professori dell'Università di Pisa interessati alla Dc»; i professori, però, con molta autorevolezza, parlarono solo di ri­forma universitaria.

Se da un lato dal mondo politico non emerge la  volontà di u­scire dai condizionamenti e dalle beghe, dall'altro lato  gli uomini di cultura hanno contribuito al discredito della politica, nel momento stesso in cui si sono ritirati e  si sono messi a scrivere dei bei libri o delle belle elaborazioni di altro gene­re, e non si è voluto avere a che fare con la politica, se non nei casi in cui diventa la soluzione dei tuoi problemi professio­nali. Risolvere i propri problemi personali, è anche cosa impor­tante, ma se ci si dedica solo a questo si torna alla parcelliz­zazione di cui si parlava prima.

Quindi ci sono dei problemi complessi, propri della cultura po­litica italiana: o si è puri all'opposizione, oppure, quando non si è più all'opposizione, non si ha la cultura politica capace di reggere i problemi. Del resto l'elaborazione dall'opposizione è anche più facile, è quella di chi sa di non avere poi il compito di realizzarla. Quando si arriva alla realizzazione, diventa drammatico, perché non tornano più gli schemi. Così si e svilup­pato un sistema dove chi è al governo non capisce ciò che avviene nella società, mentre chi sta nella società non capisce i proble­mi di governo. Non è un caso che un movimento come quello del sessantotto, che aveva una carica positiva, in parte è degenerato e dall'altro è finito anche perché nessuno ha dato risposte vere, né le istituzioni, né la cultura, né i partiti. Poi l'incompren­sione è diventa un fatto clamoroso. C'è una bella pagina di Moro sull'incapacità della politica di capire l'ansia di libertà che lo muoveva.

Infine ci sono stati gli irrigidimenti, che costringono sempre a fare un salto indietro. La politica è fatta di dialettica, ma anche di reciproco incontro. Se non ci si incontra sulle idee, ci si incontra sugli affari. E' drammatico ma è così. In questi giorni mi sono sentita dire da alcuni che dissentivano da queste intuizioni , che quando non si litiga, e questa è la giustifica­zione più balorda, significa che anche l'opposizione partecipa all'amministrazione. La verità è che è prevalso reciprocamente chi non voleva collaborare sulle idee, sui progetti e poi bisogna dire che anche la mancanza delle persone conta, perché non si inventano. L'assassinio di Moro è un fatto la cui traumaticità e drammaticità non finisce mai.

Alla fine è cioè scattata l'autodifesa. Forse poi c'è anche stata da parte del Pci, non so se personalmente anche da parte di Berlinguer, la difficoltà di aspettare, di lasciare maturare i percorsi iniziati. Ricordo che la perdita di voti del Pci, che fino a quel momento era andato in alto, ha provocato una reazione enorme e forse spropositata, quando invece, si sarebbe dovuta avere la pazienza di andare avanti. Mi si dirà: ma fidandosi di chi? Senza Moro, di chi ci si doveva  fidare?  Forse si sarebbe potuto andare avanti cercando altre garanzie.

In fondo i nostri problemi d'oggi partono da lì, non si fecero delle riforme quando era possibile, con un consenso possibile e poi la situazione è degenerata. La questione delle tangenti ha dimostrato che ciò che conta è chi gestisce il potere. I sociali­sti coinvolti sono numerosi perché loro lo gestiscono in tutte le fasi, sia con la Dc che con il Pci. Le loro basi sociali contano meno, perché stando sempre in centro sono diventati il partito degli am­ministratori e dei sindaci. Tutto ciò  ha provocato delle rotture enormi. E poi quando non ci sono idee, allora l'immagine conta, i personaggi contano. Speriamo che passi.

 

 

Quali proposte: il ruolo dell'associazionismo e la necessità di pluralismo

 

Rispetto al da farsi io penso che si debba pensare a soluzioni che garantiscano il più ampio pluralismo. E dico questo pensando non solo al movimento cattolico, che  è nato dall'associazionismo e con l'associazionismo, prima ancora di diventare partito. C'e­rano già le associazioni, anche perché quelle cattoliche furono le uniche a rimanere in vita durante il fascismo sia pure limita­tamente. Non a caso lo scontro più grosso tra Chiesa e fascismo, con cui la Chiesa rivendicava autonomia educativa e presenza so­ciale, fu sull'associazionismo nel 1931, due anni dopo il Concor­dato. Inoltre oggi l'associazionismo continua a crescere, mentre sindacati e partiti sono in crisi. Non è che io mi illuda più di tanto, perché l'associazionismo è anche piccolo corporativismo, però è vero che c'è questa realtà. E, nel momento in cui il par­tito è in crisi, l'associazionismo è invece  più attivo. Oggi sono sempre più le associazioni che discutono di politica e fanno cultura politica, mentre questo partito non riesce a farlo; l'as­sociazionismo cattolico anche in questo momento è vivacissimo. E' vero che parte dalla premessa «che schifo questo partito», ma questo non significa che ci si rassegni ad una perdita. Ci sono anche ipotesi molto diverse, però non si accetta questa specie di abbandono del campo; si invoca il «mutamento» perché non esisto­no, al momento, altre scelte politiche diverse.

Ho fatto una esperienza l'altro giorno molto interessante. A Padova, come si sa, sono andati in galera per corruzione alcuni politici Dc; c'è stato un importante convegno di tre giorni di persone che appartenevano all'Azione cattolica, alle Acli, anche ad ambienti più tipicamente della Chiesa. C'è stata una autocri­tica durissima: «ce li siamo eletti, siamo stati degli imbecilli , dovevamo buttarli fuori, dovevamo essere più critici». Alla fine hanno concluso con un «ricominciamo, e chi c'è, c'è». Un ragazzo ha detto che in fondo è un atto di liberazione. Il vesco­vo ha annuito ed è stato molto bravo, ha ascoltato, poi ha detto «fate quello che credete, ma  una cosa è certa: non potete non fare niente; poi ha parlato della purificazione, ecc.». Anche a Ferrara l'altro giorno ho vissuto un’esperienza interessante.  La Chiesa di Ferrara sta portando avanti momenti di riflessione aperti a laici e a sacerdoti in vista del Sinodo, che ha per tema Quale Chiesa per quale società?; si discuteva sui mutamenti cul­turali, sociali e politici. A me hanno chiesto di parlare dei mutamenti politici. E' stata una discussione interessante molto libera. Siccome l'ambiente lo conoscevo un po' a distanza, pensa­vo che i preti fossero un po' integralisti. E invece li ho trova­ti interessati, molto aperti. Risentono evidentemente dell'am­biente in cui vivono.

Ci sono tante iniziative anche solo in questi giorni. C'è stato il Convegno culturale annuale dell'Università cattolica, voluto da Lazzati. C'è un corso di formazione politica realizzato da Città per uomo; mentre la Rete a Palermo ne organizza una in que­sti giorni. A metà settembre c'è l'incontro di tutti i responsa­bili delle scuole di formazione politica diocesane. Tutto questo testimonia che è in atto una ripresa. E' vero, si tratta di ini­ziative ancora insufficienti, ma siccome manca tutto non avrei preferenze su chi le fa e su cosa si fa. Certo che secondo me sono cose che dovrebbero fare tutti, innanzitutto a cominciare dalla scuola. A Padova una ragazza diceva  che ormai l'educazione civica nella scuola non la fa più nessuno. Qualcuno ha persino proposto di farla al posto della religione. Bisogna che la scuola pubblica riprenda queste attività e di questo voglio parlarne anche con la Jervolino. Non parliamo della storia nella scuola media superiore, si arresta all'ascesa del fascismo, al 1926. Non è che nei programmi non ci sia la Resistenza e la storia repub­blicana; si smette prima, non si fa, con la scusa che non c'è più in tempo. Questo accade perché provoca dei problemi, delle doman­de, perché una volta era di moda essere di sinistra, ora non lo è più e tutto finisce qui. Quindi, il primo discorso è quello della scuola, a cominciare dai ragazzini, con l'educazione civica; io mi ricordo che qualche anno fa i ragazzini qui a Lucca andavano in visita al comune spesso. Le istituzioni devono promuovere del­le iniziative per farsi conoscere. Nell'ultima legislatura presso la presidenza della Camera era stato costituito un gruppo che aveva questo compito; l'unica attività non può essere quella dei ragazzini che, in gita scolastica a Roma, visitano anche il Par­lamento, magari affidati agli uscieri.

Io credo, insomma, che siano fondamentali soluzioni che favori­scano il pluralismo. Temo anche un po' soluzioni alla tedesca fatte di grandi fondazioni di partito, come l'Adenauer, così ric­che e forti che diventano un po' arroganti, forse ho il dubbio che dietro si ripresenti l'idea dello stato etico. E' necessario non solo un pluralismo di partiti, ma anche di associazioni al­l'interno di aree culturali diverse. Le faccio un esempio. La legge sul volontariato prevede delle attività di formazione per i volontari. Il volontario non deve essere un professionista però deve sapere cosa succede nell'ambito in cui opera. Noi queste attività formative le abbiamo già sperimentate in anticipo  con la legge regionale toscana sul volontariato: da noi i corsi di formazione dei volontari li fa ogni associazione e la regione dà un contributo. Il volontariato si è  opposto all'ipotesi che li facesse direttamente la regione. Non solo per evitare ogni tenta­zione di indottrinamento, ma soprattutto perché è giusto che ogni organizzazione conservi la propria identità; altrimenti con que­sta fantasia della caduta delle ideologie, del pragmatismo dove tutti i gatti sono bigi, prepariamo la strada ad un appiattimento di carattere culturale, dal quale poi emerge chi vuole comandare e decidere per tutti sul grigiore generale. Io ho la preoccupa­zione di una tentazione involutiva che può affermarsi se non af­frontiamo questi problemi. E allora la pluralità mi pare che sia una cosa da garantire, come abbiamo fatto in regione, anche se si tratta di formazione all'impegno sociale, diversa dalla formazio­ne politica. La Regione controlla e, inoltre, promuove e organiz­za direttamente alcuni corsi di carattere tecnico; ma le associa­zioni, attraverso un'attività formativa svolta da esse stesse, devono  con­servare la propria identità culturale; perché l'auto­nomia delle associazioni ha come punto di partenza la loro auto­nomia culturale, la loro capacità di pensarsi, di progettare la loro strategia; altrimenti sono finite.

Forse è meglio finanziare i centri culturali piuttosto che i partiti .Del resto il Ministero dei beni culturali un minimo di finanziamento a varie associazioni e gruppi lo dà già. Si potreb­be pensare ad una iniziativa analoga a quella intrapresa dai cen­tri italiani di alta cultura, per un sostegno pubblico meno cao­tico e casuale, più regolato, purché però si sia garantiti total­mente sulle finalità delle iniziative, sul buon uso di queste risorse.

Occorre comunque discutere su questi temi. L'unica cosa della quale vorrei liberarmi la coscienza è che nessuno si metta in mente di fare una scuola unica per tutti. La democrazia è fatta di pluralismo, di contrasti di opinioni, di autonomie di giudizi. La mia preoccupazione aumenta proprio perché nel momento in cui sono cadute le premesse culturali forti, tutti prospettano i par­titi trasversali. Quello degli onesti pare essere passato. Poi ci sono state nuove proposte, come quella di sciogliere il partito repubblicano o quella più realistica, promossa da socialisti e liberali. Personalmente ho molta paura della trasversalità.  Per me essa rappresenta il problema più grosso in questo momento. Se anche la cultura appiattisce tutto, visto che i nostri intellet­tuali rinunciano agli aggettivi e non si parla più di intellettu­ali cattolici, marxisti, ecc.,  credo che siamo vicini alla morte della cultura. Se la cultura non è confronto di opinioni che co­s'è? Ho paura dell'appiattimento politico: la vicenda delle tan­genti mi fa pensare.

Per un'elaborazione politica seria penso che innanzitutto biso­gna coinvolgere gli intellettuali, che si devono mettere a pensa­re, non lasciandosi condizionare dal contingente ma guardando avanti. Penso poi a strutture non condizionate dai dirigenti dei partiti, che debbono essere composte alla pari, da persone che stanno dentro e fuori dai partiti.

Del resto quest'impostazione per noi non costituisce un fatto nuovo, la Dc non ha mai fatto cultura in proprio, ma si è orien­tata verso dei punti di riferimento esterni all'organizzazione partito; da qui la mia rabbia per gli intellettuali che non rie­scono più a produrre. Per noi la cultura si è creata fuori, noi possiamo avere il problema che poi il partito non ti ascolta, non quello che ti vuole imporre una sua impostazione culturale.

Inoltre, infine, forse abbiamo un vantaggio: facciamo questa elaborazione da cristiani, da cattolici. E' un vantaggio come punto di partenza, perché quella cattolica è un tipo di cultura che nel bene o nel male resiste e dalla quale giungono anche sti­moli e indicazioni. Non la produciamo noi del partito, la produ­cono altri; o meglio, la produciamo anche noi in quanto cristia­ni, non come democristiani; come Dc siamo impegnati a recepirla. La nostra produzione culturale non è certamente legata alle strutture di partito, anzi semmai, da noi è successo il contrario e cioè che la cultura a cui ci riferiamo se ne è andata per conto propio. De Mita crede all'Università  cattolica ancora come luogo di organica produzione di cultura; a me invece non pare che abbia più una «unità» culturale. Pur pregevoli docenti non sempre si coordinano in modo organico, lì, alla fine c'è stato anche Mi­glio. Il cattolicesimo democratico ha una sua storia e stonano certe sbavature, non a caso è successo dopo Lazzati. Quando  De Mita, ed anch'io, studiavamo lì, c'era una realtà diversa, quella per la quale Gemelli con la sua fantasia e la sua passione l'ave­va costituita.


Intervista a Giuseppe Tamburrano

 

 

 

Crisi istituzionale: diagnosi e cure

 

In linea generale credo che i nodi principali dell'attuale cri­si istituzionale vadano iscritti in un quadro di analisi unita­rio. Le nostre istituzioni sono nate in una situazione politica e con una struttura socioeconomica, che ormai abbiamo completamente superato. Era un momento caratterizzato dalla presenza del Pci, dell'Unione sovietica e dal fatto che, nonostante la solidarietà nazionale, Dc e sinistre avevano l'una paura delle altre. Proprio per questo crearono delle istituzioni e una legge elettorale che non dovevano assicurare una netta prevalenza per nessuno. Una volta finita la Resistenza c'era il timore del totalitarismo, la società era prevalentemente agricola, la classe politica aveva scritto bellissime pagine, ma, pare che solo La Malfa avesse let­to Keynes.

Nella società di oggi, dove non vi è più il comunismo, né la guerra fredda, in una società industriale con aspetti post-indu­striali, non è più possibile conservare quelle istituzioni. A ciò si aggiunga il fatto che se vi sono origini della crisi prevalen­temente nazionali -dal momento che è mutato il contesto naziona­le, ideologico, sociale, economico e culturale- questa crisi pro­ietta l'Italia, così «sgangherata» dal punto di vista istituzio­nale, in un contesto internazionale ed europeo che aggrava forte­mente il quadro per altro già precario. Per questo ritengo che, al di là delle formule ipotizzabili, la soluzione della crisi istituzionale debba essere anzitutto di largo spettro, non poten­do limitarsi a qualche aggiustamento della legge elettorale.

Volendo entrare nello specifico e nelle strade percorribili per una riforma, a mio avviso è necessario un intervento sulla  no­stra carta costituzionale: va così posto un rimedio al fatto che vi siano molti articoli della Costituzione inutili o inapplicati. Penso, ad esempio, all'art.40 o ad altri articoli che enunciano validi principi, ma che risultano dimenticati. La parte della Costituzione che a mio parere deve essere cambiata è quella ine­rente alle istituzioni, innanzitutto quelle locali, e in primis le regioni. Auspicherei poi un rafforzamento del potere esecutivo centrale, un miglioramento del funzionamento degli apparati pub­blici, un allargamento alla partecipazione democratica. Penso a un'Italia governata da una Repubblica semipresidenziale con un Parlamento che abbia dei poteri effettivi a differenza di quello francese, con una legge elettorale fondata sull'uninominale a due turni. D'altra parte se non funziona l'apparato amministrativo, le riforme dei vertici politici possono essere messe in crisi. E' dunque necessaria anche una riforma della pubblica amministrazio­ne, del fisco, degli uffici con i  quali la gente entra in con­tatto e che devono eseguire le decisioni delle istituzioni poli­tiche. Occorre inoltre un allargamento della partecipazione demo­cratica, per questo si deve affrontare anche la riforma dell'i­stituto regionale. Dai risultati elettorali è emersa una spinta locali­stica  che bisogna tradurre in istituzioni democratiche, prima che essa si trasformi in secessione di regioni.

Questo, secondo me, è il modello di istituzioni adeguato e fun­zionale all'Italia che sta in Europa, che non è più prevalente­mente agricola, che non ha più conventio ad excludendum e che presenta forti spinte localistiche.

 

 

Non solo etica: priorità per una cultura delle istituzioni

 

Per avviare queste riforme non vorrei si cominciasse ponendo sul tavolo anzitutto la questione etico-politica, perché non cre­do a coloro che affermano che prima di cambiare le istituzioni occorra cambiare gli uomini. O pensiamo che le istituzioni hanno una forza propria e influiscono sulle scelte degli uomini e, in certa misura, li cambiano, oppure, aspettando che gli uomini si redimano da soli, non otterremo niente. Nell'attuale situazione dello stato, dell'amministrazione, l'erba cattiva scaccia la buo­na e, se non troviamo un modo per invertire questi processi, sarà perfettamente inutile ragionare. Ecco perché vorrei cominciare dalle istituzioni. Fin troppo ovvia la possibile obiezione: sic­come le istituzioni non hanno una vita propria, ma sono gli uomi­ni che le fanno, come cambiare le istituzioni senza cambiare pri­ma gli uomini? E se gli uomini non sanno autorigenerarsi, come faranno a rigenerare le istituzioni, e come potranno, una volta che queste saranno rinnovate, stare al loro interno senza rico­minciare a fare i loro comodi? Che dire di questo gatto che si morde la coda?

Se noi dobbiamo avere un ruolo culturale, verso quale soluzione dobbiamo rivolgere lo sforzo di illuminazione nell'attuale momen­to politico: sul lato delle forze etico-politiche, che devono crescere e quindi rigenerare la classe politica, oppure verso il lato delle istituzioni? Se sapessi che il mio giudizio avrà una forza reale nella dinamica socio-politica, preferirei che si co­minciasse dalle istituzioni. Anzitutto perché di fatto lavorare sul lato delle istituzioni non significa ignorare l'altro proble­ma. E inoltre si tratta di un prius logico perché lo stato ita­liano è storicamente debole ed è quindi in mano ai partiti, non quelli del­l'art. 49 della Costituzione, ma quelli che in questi giorni si sono rivelati, con lo scandalo delle tangenti, nella loro rea­le essenza.

Gli altri soggetti, oltre i partiti, non navigano in migliori acque. I sindacati sono diventati anch'essi parte dell'ingranag­gio, tant'è vero che si autodenunciano per le loro partecipazioni agli enti, alle commissioni d'esame, ecc. La Chiesa è ancora il cardinal Ruini che pretende di dire che i cattolici devono votare per la Dc. Quindi, ai vertici dello stato c'è un sistema orizzon­tale in cui questo pluralismo si esprime in forma degenerata. La Chiesa non è il volontariato, l'impegno dei cattolici; i sindaca­ti non sono le masse; i partiti non sono la partecipazione demo­cratica. Se poi consideriamo anche le lobby, potentissime in Ita­lia, si vede come questo stato democratico non solo è debole, ma è alla mercé di forze, di potentati, di centri di potere che ope­rano con una mentalità egoistica, privatistica, corporativa. Di fronte a tutto ciò, non vogliamo rafforzare lo stato democratico?

Quindi, proprio perché lo stato è debole e il pluralismo non è un pluralismo creativo, ma parassitario, l'esigenza di cominciare dallo stato è fortissima. E' vero che in Italia non c'è un De Gaulle, ma un capo dello stato, dotato di potere esecutivo ed eletto direttamente dal popolo, potrebbe essere al centro di un sistema istituzionale con una decisa investitura democratica: se c'è un Parlamento eletto contestualmente e che ha il potere di metterlo in crisi, di rimandarlo davanti agli elettori.

Io non vedo altrimenti come si potrebbe esprimere un potere ad investitura diretta capace di condizionare le spinte autoritarie. Non c'è in Italia un potere diffuso forte. Se penso ai circoli culturali del mio partito, che sono sigle dietro le quali vi sono gli affari, le tangenti, i personaggi dell'establishement e i loro addetti alle riscossioni delle somme, non si può parlare di pluralismo. Non si può rinnovare i partiti con i club, prendendo l'esempio dal modello francese, perché in Francia i club sono nati all'opposizione, non avevano finanziamenti, si basavano sul volontariato. Cosa sono i club in Italia, quelli di chi prende le tangenti? Dunque, questo pluralismo italiano, in parte è sano, in parte è malato. Ecco perché punto al risanamento di questo stato debole, ad un potere democratico, visibile, che deve cercare di opporsi a questa situazione che vede partiti, sindacati, lobby che sfruttano. Nel momento in cui si deve ricostruire si deve partire da un punto centrale, aggregativo in termini democratici.

 

 

Etica politica: prodotto di laboratorio o radicamento nella storia?

 

Se poi passiamo alla questione dell'etica politica, non vedo un rinnovamento delle istituzioni fatto in laboratorio da politologi e ingegneri. E'evidente che un rinnovamento del genere deve esse­re sostanziato dal dibattito, dalla partecipazione, da un ritorno dei cittadini all'impegno. Purtroppo il motore di que­sto processo etico-politico, che a mio avviso poteva essere uno solo, l'unità della sinistra, non è stato avviato.

Dopo il crollo del muro di Berlino i partiti della sinistra potevano sotterrare l'ascia di guerra per ritrovarsi su un terre­no comune. Il crollo del muro è stato l'unico fatto nuovo che poteva riaccendere le speranze, risanare la politica. Poteva es­sere il crogiolo nel quale bruciare le scorie di tante polemiche, del craxismo, del berlinguerismo, delle diversità. Venuto meno questo, è obbligatorio puntare sulle istituzioni, perché la sog­gettività politica forte nel nostro paese non esiste. La sostanza etico-politica, a mio parere, non nasce da un pluralismo, seppur importante, che rimane però collocato a livello socio-culturale; piuttosto invece, nasce dai grossi fatti politici e il crollo del muro poteva essere il fatto che, nello stesso tempo, rompeva e ricostruiva. Passata questa occasione non so cosa ci si possa aspettare e cosa possa accadere.

 

 

Intellettuali e politica

 

Io andrei oltre l'orizzonte prettamente etico, penso che una parte della crisi possa essere collegata ad un'insufficienza non solo etica, ma anche di cultura politica. C'è una responsabilità in questo senso anche da parte degli intellettuali. Ad esempio, ricordo che all'università di Catania ho condotto una battaglia negli organismi accademici della facoltà di scienze politiche, perché gli studenti che uscivano da lì e che avrebbero intrapreso anche la carriera diplomatica, andando magari a rappresentare l'Italia all'estero, ignoravano la storia del loro paese dalla caduta del fascismo fino ai giorni nostri, non avendola studiata né alle medie, né all'università. Di fronte a questa obiezione, c'è stata una dura reazione del docente di storia moderna, che non tollerava intromissioni nei programmi che lui decideva.

Credo poi vi sia una una responsabilità particolare degli in­tellettuali impegnati politicamente. Perché non unire gli sforzi affinché venga favorita e aiutata a crescere la cultura politica e  non gli apparati di partito.  E' necessario che ogni partito abbia un polmone culturale grazie al quale poter attingere valo­ri, sol­lecitazioni dalla società civile. La stessa Costituzione, in base all'art.49, afferma che i partiti devono essere più den­tro la so­cietà civile che nello stato, quando cioè dice che essi sono costituiti dai cittadini, che si associano per concorrere a determinare la politica nazionale.

E' necessario un ruolo nuovo delle istituzioni che producono cultura politica; bisognerebbe provare a condurre una battaglia che unisca al di là delle diverse appartenenze, è questo un ter­reno su cui il dialogo è più facile e dove forse si può non cade­re subito in preda al pessimismo.  Se vogliamo che la cultura politica si possa rinnovare si pone un  problema di sviluppo e di autonomia delle istituzioni di cultura politica: dovremmo avere i mezzi per poter fare scelte libere, che non sono possibili se si dipende strettamente da un partito. In termini espliciti questo è il problema del finanziamento da parte dello stato alle istitu­zioni che fanno cultura politica.

Si è parlato molto, troppo, del problema del rapporto tra cul­tura e politica. Ma non si è sottolineato abbastanza che in Ita­lia vi è una degenerazione partitocratica clamorosamente evidente di questo rapporto; ragion per cui in questi partiti,  l'intel­lettuale o è il consigliere del principe, oppure si ricorda di essere intellettuale la sera, quando torna a casa, mentre durante il giorno fa il lavoro di partito, senza nessun continuum tra la sua professione e i suoi interessi fondamentali. Non si tratta tanto di insistere affinché gli intellettuali abbiano più spazi all'interno dei partiti, perché si sa quali sono i loro destini. Mi basta citare la situazione all'interno del mio: penso ad in­tellettuali come Giuliano Amato o Salvo Andò, o io stesso. I pri­mi che ricordavo si sono impegnati direttamente nel lavoro poli­tico all'interno del partito e detengono il potere, io sono un tollerato e, in quanto tale, sto a margine; non sono neanche con­sigliere comunale. Ho partecipato alla direzione, inizialmente a titolo politico, e poi, siccome si voleva allargare il numero dei membri della direzione e c'erano delle resistenze, il mio posto è diventato quello di un membro di diritto, in quanto presidente della Fondazione Nenni. Questa vicenda cioè insegna che non è che sia stato riconosciuto il valore della Fondazione Nen­ni, ma che piuttosto si è cercato anzitutto un modo per trovare un posticino anche per me, che in seguito è stato confermato per via della presidenza della Fondazione. In sintesi, chi continua a fare ri­cerca scientifica è totalmente fuo­ri dal partito, mentre chi non la fa più e fa l'in­tellettuale solo a casa propria, è totalmente dentro. O rinunci a fare l'intellettuale, e allora fai politica attiva, o non rinun­ci, e allora non la fai: è un divorzio assolu­to.

Certo le cose potrebbero cambiare se le istituzioni acquistas­sero forza, se fossero concessi maggiore autonomia e mezzi alle fonda­zioni che operano nel campo della cultura politica dei par­titi. Avviene invece che nei momenti di crisi queste abbiano qualche voce in capitolo, ma una volta passata la crisi, tutto torna nell'ordine. In estrema sintesi, in questo complesso rap­porto tra intellettua­li e partiti il punto da salvaguardare resta l'autonomia della cultura politica, che esige la non diretta di­pendenza dai gruppi dirigenti, i quali hanno esigenze a breve, mentre gli intellet­tuali hanno esigenze di lungo periodo. Se la legge avesse obbli­gato il partito socialista ad assicurare una provvista di mezzi alla Fondazione Nenni, il rapporto tra quest'ultima e il partito forse sarebbe stato più stretto, ma non ci sarebbero gli intel­lettuali-portaborse del segretario di tur­no. Ci sarebbe, invece, un'istituzione capace di svolgerebbe la sua funzione e di lavorare, per quel che ci riguarda, nell'ambito del socialismo, ma guardando anche più in là.

 

 

Per un’azione formativa alla politica

 

L'impegno per la ricerca deve poi tradursi anche in capacità di azione formativa. Diamo per scontato che i gruppi dirigenti non hanno tempo per la formazione. La loro formazione si sviluppa nel sociale, nella pratica quotidiana della politica. Ma se esistono delle istituzioni orientate culturalmente, la loro atti­vità di formazione deve essere quella che una volta svolgevano le scuole di partito, senza per questo avere minimamente i caratteri della scuola di partito.

Noi abbiamo provato a farlo, e abbiamo chiamato i professori di varie aree, perché i ragazzi potessero fare domande di qualsiasi tipo, conoscere tutto e soprattutto affrontare il pluralismo del­le opinioni, dei valori, delle culture. Questa è stata una vera e propria azione formativa alla cultura politica. Si tratta però di semplici tentativi. Occorrerebbe un’azione più concertata: per­ché Pietro Ingrao, con l'autorità politica, etica e culturale che ha, non promuove un coordinamento tra le istitu­zioni autenti­che di cultura politica per cercare di avviare un’azione di pressione sugli organismi statali? In un momento in cui la legge sul finanziamento pubblico è in crisi, perché non si fa pressione affinché il problema dell'aiuto alle istituzioni di cultura politica venga affronta­to? Ovviamente con tutti i controlli pos­sibili. Una parte dei finan­ziamenti potrebbe essere dedicata alle attività culturali, con una ripartizione automatica tra centro e periferia; vedo come ne­cessari dei controlli interni ai partiti, per una revisione dei conti, per verificare la regolarità delle spese che devono corri­spondere alle entrate. E poi un ulteriore controllo esterno della Corte dei Conti diffuso su tutto il ter­ritorio. In questo caso si potrebbe dare ai partiti un finanzia­mento anche maggiore rispetto a quello pubblico attuale. Purtrop­po, noi abbiamo partiti con strutture faraoniche che non lasciano molto spazio ad azioni in tal senso. E' una situazione molto diversa da altri paesi dove anche quando i partiti sono molto articolati e complessi, essi privilegiano spesso strutture cultu­rali più grandi ad­dirittura di quelle politiche.

Per non forzare eccessivamente la realtà italia­na, dal momento che ogni paese ha la sua storia, occorrerebbe almeno aprire dei varchi per poter immettere altri modelli. Quest'area di auto­nomia delle istituzioni culturali, garantita e controllata da mezzi pubblici, penso possa essere una strada possibile.

 


Padre Bartolomeo Sorge

 

 

 

Le ragioni di fondo che qualificano la crisi

 

Come punto prospettico dal quale avviare un’analisi sulla cri­si del nostro paese vorrei assumere la vicenda che ci ha condotti a dar vita alla scuola di formazione politica di Palermo; essa non è sorta a tavolino, ma è stata il frutto di una riflessione fatta sul piano operativo storico.

Il centro studi di Palermo esiste da vent'anni. Quando sette anni fa i superiori mi hanno mandato là, ci si chiedeva cosa do­vessimo fare per aiutare il Sud a risorgere, soprattutto da una situazio­ne quale era quella di Palermo. Il primo anno ho voluto conoscere da vicino la situazione e con i confratelli abbiamo deciso che l'unica soluzione era quella di formare gli uomini. Siamo così partiti con una scuola di formazione politica che ha poi avuto un effetto moltiplicatore, visto il fiorire in questi anni delle scuole di ispirazione cristiana.

L'analisi da cui siamo partiti e da cui è venuta la risposta del­la scuola è stata appunto l'analisi della crisi. In concreto, ho fatto una sintesi di questo tipo: ho trovato tre ragioni di fondo che qualificano la crisi e che, nel Sud e in Sicilia in partico­lare, si sono manifestate in forma più acuta che altrove. La pri­ma ragione è in una caduta dell'etica politica, cioè della cultu­ra politica. Ci siamo accorti che la crisi delle ideologie, che già cominciava, e la caduta dell'etica e della cultura poli­tica, toglievano idealità, quindi toglievano anche gli strumenti del­l'analisi, portando così ad un pragmatismo, ad un appiattimen­to, con perdita di progettualità. Per essere più concreti, non si sapeva più che tipo di società si dovesse costruire, quali prio­rità scegliere, limitandosi, come poi è accaduto, ad un utilita­rismo immediato, a risolvere i problemi quando nascevano, ma sen­za un progetto. Pensammo allora che, se volevamo uscire dal caos presente soprattutto al Sud, occorreva ridare un'anima culturale, un'anima etica all'impegno politico, rispondendo alle domande: perché la politica? quale progetto? quali valori fondamentali?

La seconda ragione era relativa al funzionamento delle istitu­zio­ni. Ci si è accorti, cioè, che le istituzioni, soprattutto quelle di mediazione politica, non funzionavano più. Quest'anali­si si è soffermata in particolare sui partiti. Il sistema istitu­zionale si era inceppato, con invasioni di campo. Per esempio, mentre la Costituzione all'art. 49 prevede una funzione di media­zione pri­vilegiata per i partiti e dice che i soggetti della po­litica sono i cittadini, i quali possono unirsi in partito per partecipare all'elaborazione della politica nazionale, di fatto, i partiti hanno perso il contatto con la base politica nazionale e hanno espropriato i cittadini di alcuni loro diritti inalienabili e invaso lo stato. Quindi, invece di fare opera di mediazione tra società e stato, i partiti sono diventati i soggetti della vita politica, il potere invece di essere lo strumento per fare poli­tica è diventato il fine: si fa politica per avere il potere. Questo ha bloccato le istituzioni. Quindi, la seconda spina no-stra era questa: come elaborare un'analisi della crisi istituzio­nale e come ridare alle istituzioni la loro funzione di servizio, di mediazione, in modo che servissero alla politica, e non vice­ver­sa.

Il terzo grande elemento della crisi che ci è apparso soprat­tutto in Sicilia, ma che ormai ha assunto una connotazione uni­versale, è la mancanza di una classe dirigente rinnovata. La classe diri­gente, cioè, era invecchiata per una serie di cause che non sono state scelte apposta, ma era una situazione bloccata del sistema Italia tra un partito di maggioranza condannato a governare per cinquant'anni e un'opposizione sempre pronta al sorpasso e, per di più, di tipo alternativo, almeno fino ad un certo momento della storia del paese.


La scuola di formazione e le sue finalità

 

A questo punto, non c'era altro da fare che ricorrere ad una scu­ola, poiché soltanto la formazione politica può essere il cam­po di una rinascita che vada alle radici, tutte le altre sono toppe. Allora, come prima cosa occorreva riformare un'idealità e una cultura politica, far capire che la politica non è solo pras­si, ma è prassi al servizio di. Quindi, un'elaborazione del pen­siero politico, una ricerca di idealità comuni anche di fronte alla fine dei dogmatismi ideologici. In secondo luogo, occorreva una competenza professionale che non si improvvisa, quindi cono­scenza dei meccanismi della pubblica amministrazione, delle rego­le della politica, tutte cose che occorre imparare sul campo, sperimenta­re. La scuola non è cioè fatta solo sui banchi, proprio perché la politica non può essere insegnata solo sui banchi. In­fine, occor­reva formare una nuova classe dirigente, cioè cercare quegli uo­mini che avessero capacità etiche e culturali, che aves­sero la vocazione, perché non tutti, secondo me, possono fare politica. Bisognava puntare sui giovani che sono fatti per questo tipo di studi, li sentono come una motivazione superiore, ideale, e, al tempo stesso, occorreva formarli e «sfornarli» non più come por­taborse.

Dunque la scelta di Palermo è nata da considerazioni concrete sulle radici della crisi politica. E, anche se siamo ancora lon­tani dall'ideale, il nostro è proprio il tentativo di rispondere alla necessità di formare uomini nuovi che abbiano una forte ten­sione etica, culturale e un'alta professionalità. La scuola ci è sembrata la risposta più adatta anche se, ovviamente, essa ri­chiede tempi medio-lunghi, quindi non tocca a noi suggerire quel­lo che il governo debba fare adesso, al massimo possiamo essere im­plicati nel dibattito nel breve, ma nulla più. Di certo non basta pensare si tratti di una crisi risolvibile a breve termine, ad esempio, solo attraverso una riforma istituzionale.

 

 

Specificità della scuola palermitana

 

Vi sono state due risposte che non sono alternative. Noi abbia­mo preferito la formazione di élite. Provenendo dal ceppo igna­ziano dei gesuiti, crediamo più alla qualità che alla quantità. Sono le idee che cambiano le situazioni. Un uomo di qualità fa molto di più di cento non di qualità. Proprio per questi motivi a Palermo abbiamo pensato di istituire il numero chiuso nella no­stra scuo­la, di rivolgerci a persone laureate, di operare una prima sele­zione con un pre-esame, di accogliere 30-35 allievi l’anno sui 60 che in media chiedono di entrare nella scuola. Se su 35 allie­vi ne escono 10 di valore ogni anno -come dicevo-, noi in 5 anni avremo a Pa­lermo 50 uomini nuovi e 50 uomini nuovi cam­biano la città.

Martini, invece, che a Milano ha iniziato un anno dopo di noi, ha preferito l'altra linea, quella adottata dalla quasi totalità delle scuole che sono sorte. Egli ha scelto di rivolgersi a tut­ti, e per questo per entrare nelle scuole è sufficiente avere un diploma di scuola media. Si tratta quasi di una specie di cate­chesi sociale. Lo scopo è quello di creare un tessuto sociale am­pio sensibilizzato. Quattro anni fa ho avuto un incontro con Mons. Merisi durante un confronto intitolato Milano e Palermo: due esperienze a confronto.  Da questo incontro è risultato che noi, che «sforniamo» persone che possono formare una nuova classe dirigente, avvertiamo il bisogno che questi uomini così formati allarghino i loro orizzonti. Abbiamo fatto alcune esperienze nel­le periferie di Palermo. Alcuni giovani che avevano frequentato il biennio e si erano diplomati da noi si sono appoggiati ad al­cune parrocchie, istituti sociali, ecc., esponendo alla gente di quartiere quello che avevano imparato.

Noi prepariamo l'élite perché poi questa è fermento per la base sociale. A Milano avvertivano la necessità inversa: dalla massa scegliere l'élite per poi formarla. Credo, allora, che vi sia una duplice funzione della scuola. La prima è una funzione di leader­ship, che non è fine a se stessa ma si riversa anche a li­vello di società intermedia. Per esempio, nell'attività del no­stro centro, la scuola è il fiore all'occhiello ma il suo ruolo è più vasto con possibilità di incontro, di dialogo, presenza nella cultura politica.

Quindi, la scuola non va intesa come una succursale o una foto­copia dell'università. E' una scuola all'impegno politico e quin­di noi ne abbiamo sottolineato due specificità tenendo, presente le finalità. Innanzitutto abbiamo guardato il fine, quel che vo­gliamo raggiungere, c'è una situazione da cambiare, difficile e drammatica. In ordine al fine abbiamo poi scelto. Allora, abbiamo avuto due specificità: la scuola è aperta a tut­ti, quindi non una scuola di partito, alle quali personalmente sono contrario. Chi­unque può entrare nella scuola, non chiediamo neanche quale tes­sera abbia, se ce l'ha, chiediamo solo che si accettino il pro­gramma e che si abbiano qualità. La frequenza è obbligatoria e, se non viene rispettata, si è automaticamente eliminati. Si trat­ta quindi di gente motivata che si impegna tre giorni alla setti­mana per due anni. La seconda specificità è data dal fatto che non vengono ripetute le materie universitarie. Una procedura di questo tipo non avreb­be senso. Si vuole, invece, preparare al­l'attività politica, quindi il taglio con cui si ri­prendono que­ste materie è un taglio operativo: si vuole insegnare a fare po­litica.

Nel primo anno ci poniamo il compito di omogeneizzare gli al­lievi che provengono da facoltà diverse, con materie di fondo in cui i professori richiamano la teoria fatta all'università per poi tradurla nella prassi. Il secondo anno si basa essenzialmente sulla ricerca. Si offrono una decina di seminari di ricerca e gli allievi hanno la possibilità di scegliere di seguire quattro tra questi dieci seminari. I seminari sono due per semestre più uno obbligatorio per tutti sui temi di attualità. Noi abbiamo puntato su questo tipo di struttura che ci pare molto più efficace di una serie di conferenze aperte a tutti, frequentate saltuariamente e che porterebbero ad un abbassamento del livello perché parlare ad un centinaio di persone è diverso che parlare a una quindicina più preparata.

 

 

Per una formazione politica nel paese

 

Dopo l'avvio della scuola si è fatta più forte la consapevolez­za della necessità di un più deciso sforzo formativo: il problema da affrontare è di conquistare un rapporto più alto tra cultura e politica, rapporto che, essendosi bloccato per il nostro paese, ha contribuito ulteriormente al declino anche dal punto di vista etico della vita pubblica.

Il problema è, di conseguenza, di creare le agenzie di questa formazione, tenendo conto che ormai si dovrebbe pensare in termi­ni europei, perché credo che anche i singoli partiti che soprav­vivranno avranno sempre più una dimensione europea. Quindi, di­rei che è una vera necessità, anche se è difficile perché non si può fare una scuola per vescovi e cardinali: ci dovrebbe essere un livello di formazione generale, che la stessa scuola pubblica dovrebbe fornire. Più che fare scuole spe­cializzate per la poli­tica, quest'ultima dovrebbe essere una delle ma­terie fondamentali nelle scuole medie superiori, dove andrebbero impartite le prime nozioni. Per esempio, queste scuole potrebbero fornire una vera preparazione preliminare all'impegno sociopolitico e, quindi, la conoscenza dei meccanismi, la cultura del pensiero politico, ecc. Credo, quindi, che questa dimensione più popolare di preparazione alla politica non dovrebbe essere fatta a livello di diocesi o di movimento cattolico, ma anche su scala europea, dovrebbe essere presente a livello di curriculum scolastico. E suppongo che a questo si arriverà una volta che si saranno superati i problemi di omologazione di tito­li o di formazione tra i diversi stati europei.

E' diverso, invece, quando si parla di formazione selettiva, sul modello di quella che svolgiamo noi. Lì conviene che vi siano delle agenzie specializzate che forniscono determinate garanzie. Qui si pone il problema che lo stato dovrebbe mettere in conto questa possibilità, dando i finanziamenti (in misura da stabilire e con determinate garanzie) a quegli istituti che, senza essere di tipo partitico, garantiscano in qualche modo una formazione come dovrebbe essere. Le università laiche, ad esempio, come la Bocconi, svolgono un ruolo importante preparando all'impegno eco­nomico, senza legarsi a settori particolari, o ideologici, e pre­parano, attraverso una cernita esigente, elementi che poi tro­vano una giusta collocazione. Quindi, vedrei la possibilità di qualco­sa di simile a livello superiore, per la formazione politica. Potrebbero esserci in Italia tre istituzioni, una al nord, una al centro e una al sud, in grado di rilasciare titoli riconosciu­ti, con specializzazioni simili a quelle intro­dotte da poco nelle università. Intendo dire che nel nostro paese ritengo necessario un investi­mento più forte in attività culturali connesse all'agi­re politico.

Va anche tenuto presente che non vi sono solo problemi di quan­tità, di diffusione della formazione politica; più radicalmente vi è un problema di prospettive e campi culturali nuovi, inediti, per i quali occorre una nuova mentalità. Noi non siamo preparati a questa situazione perché la crisi è esplosa all'improvviso. Del resto, il Partito comunista aveva le sue scuole, così come la Democrazia cristiana il suo dipartimento per la formazione. E' legittimo che ogni partito si formi i propri quadri come meglio crede. Ma credo che il bene comune del paese esiga il superamento di queste forme particolari, anche perché all'interno dei parti­ti, se c'è una fazione dominante questa chiama i propri professo­ri, quindi la cosa cambia.

Penso che occorrerebbero agenzie neutre dal punto di vista ide­ologico, altamente qualificate sul piano della cultura politi­ca e della professionalità. Quando parlo di agenzia culturale neutra non intendo dire che la scuola non può avere una sua impo­stazione ideale, ma che non deve essere legata ad alcuna fazione: noi sia­mo gesuiti, ci riconosciamo come istituto cattolico, e quindi diamo una formazione ispirata ai valori cristiani, ma con maturi­tà e liber­tà di confronto, che è apprezzata anche dal mondo lai­co. La nos­tra prima intuizione è stata proprio quella di fare una scuola aperta a tutti. Tant'è vero che noi abbiamo avuto come allievi anche alcuni comunisti, un radicale, un missino, ecc., i quali però sapevano che noi, mentre puntavamo alla qualità, dava­mo una visione della cul­tura politica ispirata a valori cristia­ni, senza con ciò imporla.  Infatti, non voglio assolutamente che i miei allievi accettino acriticamente ciò che dico solo per­ché lo dico io. Quello che vogliamo è il confronto, che spesso si ha tra i corsisti e i do­centi. Non guardiamo cioè, alla tessera, ma piuttosto alla capacità professionale, all'onestà e anzi siamo contenti che vi sia l'opportunità di con­fronti. Questa è forma­zione, tanto più che quando i nostri allie­vi escono dalla scuola dovranno confrontarsi con la nostra socie­tà che è molto più com­plessa. Occorrerebbero dunque agenzie neutre che si affermino poi secondo le leggi del mercato, se così è lecito dire, della doman­da e dell'offerta del servizio politico, per «sfornare» uomini di valore, che poi abbiano anche una prepa­razione non solo teorica, ma anche di partecipazione alla prassi, al funzionamento della politica.

Non escluderei, in linea di massima, da un'azione formativa promossa da queste agenzie anche gli impiegati della pubblica amministrazione. Di certo nei loro confronti l'azione formativa dovrebbe essere potenziata. Per esempio, a Palermo noi abbiamo l'Isas, che è nato al nostro Centro studi, ma adesso è divenuto autonomo, e svolge un'opera di formazione delle varie categorie di pubblici amministratori, e per legge è sovvenzionato da un contributo re­gionale annuo. Il lavoro che vi si svolge è molto interessante. Si tratta essenzial­mente di una modernizzazione del personale amministrativo. Non è un centro con particolari conno­tazioni ideologiche, anche se è ispirato a valori di cultura cri­stiana. E' senz'altro un aspetto che deve essere sviluppato, e già questa iniziativa mi pare che abbia in sè qualcosa di nuovo.

Penso però che soprattutto sia necessaria un’azione per forma­re uomini nuovi. Rispetto all'attuale classe dirigente io sono molto pessimista. La crisi dei partiti, la crisi delle ideologie è in fondo stata così rapida che ci ha colto impreparati. E' un cambi­amento complessivo quello a cui ci troviamo di fronte, di carattere sociale, tecnologico, di mentalità. Questo non signifi­ca che tutto nel sistema dei partiti debba essere cambiato. Ma sono convinto che ci sia necessità innanzitutto di uomini nuovi. Ho i miei dubbi che coloro che hanno gestito la fase che si con­clude ai giorni nostri in modo così rapido e trau­matico possano essere indicati per aprirne una nuova. Non è per man­canza di in­telligen­za, o di coraggio, ma per il semplice fatto che quando una perso­na per tanti anni ha sempre sperimentato che un suo quadro men­tale tutto sommato ha retto, non ha l'elasticità suffi­ciente per cambiare mentalità.

Se teniamo conto di queste esigenze di innovazione, si pone un problema di qualità delle attività di formazione e diventa quindi centrale lo spazio dato alle attività di ricerca. Questo è un punto che, nel concreto dell'esperienza della scuola di Palermo ci è risultato molto difficile risolvere. Occorre­rebbe istituire borse di studio per scegliere quella dozzina di persone di grande qualità -non solo a livello regionale, ma nazionale- che vengano ad abitare da noi, e possano dedicarsi per un bi­ennio ad una spe­cializzazione che alla fine dia un titolo valido e riconosciuto.

 

 

Sostegno e sviluppo della formazione politica

 

Una formazione politica di qualità costa. Noi sopravviviamo con quello che abbiamo. Le nostre risorse non ci consentono di manda­re in porto tutte le iniziative che vorremmo e per questo avremmo bisogno di trovare finanziamenti per le borse di studio, per le attività di ricerca, perché questo consentirebbe di cambiare la situazione, ci renderebbe più esigenti. Sarebbero importanti e­ventuali sostegni di carattere pubblico, ma il fatto che gli aiu­ti provenienti dallo stato e dalle regioni sono lentissimi, mi fa pensare che la strada più efficace sia da trovare altrove. Per fare le cose seriamente, occorrono attrezzature, docenti qualifi­cati, organizzare viaggi di studio. Nessun privato può mantenere da solo un'opera di questo tipo. Noi stessi possiamo portare a­vanti un discorso di questo genere perché siamo un ordine reli­gioso, una comunità. Siamo cinque pa­dri specializzati che si ado­perano esclusivamente per questo.


Traccia per le interviste ai testimoni privilegiati

 

 

 

 

Dalla nascita della Repubblica ad oggi si è assistito nel no­stro paese prima ad uno sviluppo, poi ad una crisi della vita democratica e delle istituzioni democratiche. Sommariamente si potrebbe dire che c'è stato uno sviluppo economico e della socie­tà civile, mentre la società politica, il sistema politico e le istituzioni sono in un grave ritardo. Ciò ha determinato non solo la crescita delle inefficienze nel funzionamento del settore pub­blico, ma anche un distacco crescente non solo tra i cittadini e le istituzioni, ma anche dalle associazioni (partiti e sindacati) che pure sono state protagoniste nella costruzione della nostra democrazia. Si sono così andati sviluppando non solo fenomeni di carattere corporativo, ma anche di vera e propia degenerazione della vita pubblica, sino all'estendersi abnorme delle organizza­zioni criminali in particolare in alcune aree del nostro paese.  

 

 

 

1    Crisi istituzionale, le diverse analisi della crisi e quel­la del nostro interlocutore.

 

 1.1 Tra gli studiosi, tra gli uomini politici, ma anche tra i cittadini impegnati socialmente e politicamente, in questi            anni si sono avanzate diverse analisi, e conseguentemente diverse soluzioni della crisi istituzionale che attraversa il nostro paese. Sinteticamente quali sono le sue opinioni? 

 1.2 E' una crisi di carattere prevalentemente nazionale o ha la sua origine in processi di carattere sovranazionale, ad e­sempio connessi alla costruzione dell'Europa comunitaria?

 1.3 Quale continuità e rinnovamento si deve auspicare rispetto alla nostra carta costituzionale?

 1.4 Si deve auspicare un rafforzamento dei poteri dell'esecutivo e centrali, un miglioramento del funzionamento degli appara­ti pubblici, o ancora un allargamento della partecipazione democratica.

 

 

 

2   Crisi istituzionale e cultura politica.

 

 2.1 C'è solo un problema di regole e forme istituzionali, oppure anche una questione di valori, di idee, di programmi e pro­getti da un lato, e di saperi, di conoscenze tecnico scien­tifiche, necessari all'agire politico dall'altro? 

 2.2 In particolare quali sono i campi su cui è più importante e urgente un intervento?

a) Quello dei rapporti tra etica e politica e dello sviluppo di un’etica pubblica, su alcuni punti comune al di là delle diverse appartenenze politiche.

a) Quello di un'attività di studio diffusa, che dia consape­volezza ai cittadini dei problemi del nostro tempo, del nostro paese e della comunità internazionale.

c) Quello dei programmi e dei progetti, della ricerca collet­tiva per la soluzione di queste nuove questioni, guardando anche oltre il patrimonio delle tradzionali scuole di pensiero.

d) Quello della formazione di una nuova classe dirigente, all'altezza dei tempi.  

 

 

 

3   Le attività di formazione

 

La cultura elaborata dall'uomo, le scoperte e le conoscenze scientifiche, sono entrate ed entrano costantemente nella         nostra vita individuale e collettiva. Negli ultimi decenni questo processo si è accelerato ed è ad esempio evidente nelle attività economiche e produttive, che si servono di lavoratori sempre più qualificati e di macchine (e cioè na­tura trasformata dal lavoro dell'uomo, che incorpora cono­scenze scientifiche) sempre più sofisticate. Non a caso quindi le imprese sono andate sviluppando al loro interno reparti e settori con funzioni esclusivamente di ricerca e progettazione; non a caso le attività di formazione all'in­terno delle aziende hanno negli ultimi vent'anni, anche in Italia, conosciuto un forte sviluppo, perché la cultura è oramai essenziale al governo delle aziende.

Considerazioni analoghe debbono essere fatte anche per la vita politica. In altri paesi europei, che hanno istituzioni pubbliche più funzionanti e una vita democratica più regola­ta e non in crisi come la nostra, si svolgono da molto tempo e con una notevole estensione, sia attività di ricerca nel campo politico e sociale, che di formazione per gli apparati pubblici (e questo è ad esempio il caso francese) e di for­mazione socio-politica rivolta ai cittadini, soprattutto quelli impegnati o che si vogliono impegnare sia a livello sociale che politico (e questo è ad esempio il caso della Rft, della Svezia, del Belgio, e in parte della Gb).   

 

 

 3.1Per il nostro paese è da auspicare e sostenere uno sviluppo di simili attività? E con quali caratteristiche?

 

a) Puntando prevalentemente alla formazione degli apparati pubblici.    

b) Attraverso una formazione politica diffusa o rivolta ai quadri dirigenti.

c) Puntando prevalentemente sull'attuale classe dirigente: o cercando di formarne una nuova, o promuovendo criteri di selezione nuovi. 

d) Prevalentemente attraverso attività da svolgersi nei pro­grammi scolastici, sia nella

scuola dell'obbligo, come            nelle scuole superiori e nelle università.

e) Con una formazione politica svolta dalle diverse associa­zioni politiche e sociali e

rivolta solo ai loro membri.    

f) Con una formazione svolta da apposite associazioni e fon­dazioni, che pur facendo

riferimento a diverse organizza­zioni politiche e sociali, o a diverse aree culturali,

svolgano un'attività aperta a tutti i cittadini.

 

3.2 Le attività di formazione socio-politica si possono anche ridurre alla ripetizione di principi fissi, a una cultura incapace di innovazione. Essenziale è il rapporto con la ricerca.

Come va affrontato secondo lei questo punto?

a) Sviluppando le attività di ricerca.

b) Legando di più le attività di ricerca, che già vengono svolte da istituzioni apposite e nelle università, con la formazione politica.

 

4    La sua associazione o comunità svolge o ha svolto, diretta­mente o in collaborazione con altri attività di formazione politica o sociale?

 

4.1 Se no, perché.

4.2 Se si, sinteticamente:

 

a) A chi erano rivolte queste attività (quadri dirigenti, intermedi, attivisti volontari, ecc.).   

b) Si è trattato di attività rivolte ai soli membri della comunità o dell'associazione?

c) Queste attività quali caratteristiche per contenuti (temi riguardanti la vita interna, campi di intervento esterno, temi di carattere etico o politico più generali, questioni di carattere tecnico-organizzativo, ecc.) e metodi avevano (durata e periodicità, corsi centrali o decentrati o resi­denziali).

d) I membri della sua associazione partecipano ad attività formative organizzate con o da istituzioni esterne? Di quali istituzioni si tratta e quali sono le attività for­mative svolte?  

e) Chi organizza o imposta e collabora a queste attività for­mative?

- Sono persone che lavorano volontariamente o svolgendo    una normale attività professionale?

- Di quale autonomia godono i responsabili?

- Quali sono i rapporti con gli organismi e con chi è investito di responsabilità di direzione più generali?

- Gli organismi di direzione collegiale hanno mai, ed   eventualmente come e con quale frequenza, discusso delle   attività formative?

- L'autonomia nasconde in realtà uno stato di emargina­ zione delle atti­vità formative?

 

 

5 La sua associazione svolge internamente o è collegata con centri di ricerca?

 

 5.1 Come è organizzata la ricerca interna.

 5.2 Quali sono i centri collegati e quali sono i rapporti?

 5.3 Quali sono i rapporti con i centri di ricerca esterni?

 5.4 Quali rapporti esistono tra ricerca e attività formative eventualmente svolte?

 

 

6      Negli ultimi anni c'è stato uno sviluppo o una contrazione delle attività formative e di ricerca da voi svolte o a voi collegate?

 

 6.1 Ritenete sufficienti queste attività o al di sotto delle vostre necessità?

 6.2 Se sono insufficienti, quali sono gli ostacoli che vi hanno impedito di svilupparle?

 

 

7 Nei paesi europei che abbiamo prima ricordato, dove le atti­vità di formazione e ricerca socio-politiche sono tradizio­nali e di gran lunga più sviluppate, esse godono di un sostegno finanziario pubblico consistente.

 

 7.1E'auspicabile anche per il nostro paese un simile sostegno?

 7.2 Se no, perché.

 7.3 Se si, in quale maniera?

     a) Attraverso un sostegno finanziario diretto.

     b) Attraverso un sostegno indiretto, con servizi gratuiti,   sedi, ecc.

     c) Attraverso contributi diretti o indiretti, ad associazioni che svolgano esclusivamente attività di formazione e ri­cerca socio-politiche, che devono essere controllati e non      dispersi per altri fini o attività.

 

 

8   I nostri due istituti, il Crs e il Csa, vorrebbero farsi promotori di una serie di iniziative che portino allo svi­luppo delle attività di formazione e ricerca socio-politica    nel nostro paese, lei pensa che sia una proposta da soste­nere (o che la sua associazione sosterrebbe)?

 

 8.1 (Noi riteniamo che proposte in questo senso debbono essere fatte dopo una ricerca e un attento esame della realtà e delle soluzioni in questo campo attuate in altri paesi eu­ropei, le sembra un impostazione da sostenere?)    

 8.2 (Noi pensiamo che l'associazionismo vecchio e nuovo (dai parti, ai sindacati, al nuovo associazionismo) dovrebbe       farsi protagonista di simili iniziative, qual è la sua opi­nione in proposito?)    

 

 



*Il Centro sociale ambrosiano opera nel campo degli studi e della formazione politica e sociale; nell'ambito delle della Diocesi di Milano cura le scuole di formazione alla politi­ca