Carta d’intenti dell’associazionismo
e del volontariato per la crescita della cultura della partecipazione e
della solidarietà
Frutto di un lavoro protrattrosi per mesi da
parte di diversi rappresenmtanti dell'associazionismo e del volontariato
è stata
approvata dal Forum delle associazioni
tenuto al Cnel il 3/6/1994 su formazione e ricerca nel Terzo settore
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Parte prima: Processi e soggetti
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1. Una seconda fase nella vita della repubblica
La fine della contrapposizione Est-Ovest ha fatto emergere con maggiore
evidenza i problemi irrisolti nella politica interna di numerosi paesi.
L'Est europeo, dove la democrazia non ha ancora solide strutture e tradizioni,
è investito da un travagliato processo che in alcuni casi assume
la forma tragica e insensata della guerra etnica, non solo nell'ex Iugoslavia.
Altrove importanti mutamenti sono in atto nel rispetto delle regole democratiche:
negli stessi Stati Uniti si è aperta una fase di maggiore attenzione
ai problemi sociali ed economici interni, mentre in paesi come l'Italia
o il Giappone che non hanno mai conosciuto alternanze di governo, forme
di corruzione della vita pubblica sono emerse con grande evidenza.
In Italia sono venuti al pettine nodi che nascono da uno sviluppo economico
caratterizzato da non pochi squilibri, in un quadro istituzionale e politico
il cui rinnovamento, per più di un aspetto, era già maturo
a partire dagli anni settanta. Si è così di fatto aperta
una seconda fase nella vita della nostra Repubblica, che necessita di riforme
elettorali e istituzionali già in parte avviate. Sarà quindi
anche una nuova fase costituente, non di liquidazione della nostra Costituzione
democratica, ma di attuazione dei suoi principi fondamentali, tutt'ora
validi e che non vanno modificati.
Nonostante la democrazia bloccata e l'instaurarsi di fenomeni di corruzione,
la società civile ha dato ripetutamente segni di tenuta e vitalità
in questi anni. Lo testimoniano la tenuta democratica contro i fenomeni
terroristici, la crescita di forme nuove di impegno sociale nell'associazionismo
e nel volontariato, la crescente mobilitazione innanzitutto nel Meridione
contro la criminalità mafiosa, oltre allo stesso continuo sviluppo
economico; il tutto nell'ambito di una ripetuta e fedele adesione al metodo
democratico da parte della grande maggioranza dei cittadini italiani.
2. Associazionismo, volontariato, partecipazione democratica
Mentre si stanno attuando le necessarie riforme elettorali, al fine
di dare ai cittadini la possibilità di scegliere distinte proposte
senza limitarsi ad esprimere un voto di completa delega ai partiti nella
scelta delle alleanze e delle politiche di governo, occorre ribadire anche
la necessità di una larga e consapevole partecipazione popolare.
Lo stato, in particolare lo stato democratico, è un fenomeno
complesso non riducibile agli apparati e alle istituzioni pubbliche; le
strutture della società civile hanno un ruolo determinante nel rapporto
tra cittadini e istituzioni. L'esperienza storica recente e lontana conferma
che dovunque ci si muove, lentamente, verso l'arricchimento della rete
e della struttura della società civile: lentamente, ma inesorabilmente,
forme di potere assoluto e totalitario, di qualsiasi segno politico esse
siano, vengono sostituite da forme statali nelle quali la possibilità
e la capacità dei cittadini di costituire libere organizzazioni
di carattere economico, politico e sociale, crea una robusta struttura
della società civile. Si può dire che c'è una relazione
stretta tra sviluppo civile di una società e ricchezza e complessità
di questa trama di associazioni volontarie. Del resto l'ampiezza della
rete di associazioni ha conseguenze sullo stesso sviluppo economico: non
è un caso che dopo la prima fase di industrializzazione storica,
governata da una ristretta élite, le regioni italiane che più
si sono sviluppate siano quelle che disponevano di una ricca rete di associazioni
nella società civile, sia che si trattasse di "regioni bianche o
rosse". Certo non basta l'associazionismo "economicista", sindacale, cooperativo
e mutualistico, che dopo aver alimentato a lungo autentici valori di libertà
e solidarietà, vive ora una crisi di identità conseguente
anche all'accresciuto benessere così ottenuto; ma è proprio
l'associazionismo solidale verso il Sud del mondo, o di aiuto alle popolazioni
civili investite dalla guerra come in Iugoslavia, o di impegno volontario
verso i più deboli, che si è andato sviluppando già
a partire dagli anni settanta e soprattutto negli anni ottanta, insieme
a una diffusione dell'associazionismo culturale o ricreativo. Bisogna dire
che storicamente non era possibile altrimenti per gli ampi strati sociali
che dovevano prima affrancarsi da una situazione di povertà e bisogno
economico; ora si è aperta una nuova frontiera e una nuova strada
di cui abbiamo percorso solo i primi passi.
La crescita di nuove forme di partecipazione sociale si è accompagnata
alla crisi dell'associazionismo democratico tradizionale, in particolare
di partito. Di questa crescita ne sono ben consapevoli i rappresentanti
dell'associazionismo e del volontariato. É anzi diffusa tra di essi
la convinzione che la riforma istituzionale non possa limitarsi agli organi
di governo e parlamentari, ma che si debba riconoscere come l'associazionismo
e il volontariato sia divenuto un canale fondamentale di partecipazione
popolare, di cittadinanza attiva.
La crisi dei partiti democratici di massa e popolari è connessa
a questo stesso processo. Partiti e appartenenza di partito hanno svolto
nel passato un ruolo fondamentale: è attraverso di essi che molti
si sono sentiti parte di uno stato altrimenti estraneo e lontano. Così
come i partiti democratici di massa hanno supplito a forme di associazionismo,
ancora insufficientemente sviluppate e autonome. Il non aver però
colto ciò che maturava di nuovo nella società civile ha permesso
la formazione di un ceto politico distante dai bisogni della società,
sino a trovare nell'uso spregiudicato del potere una fonte di autoriproduzione.
É perciò tempo che i partiti si limitino ai loro compiti,
senza cercare di piegare ad una logica di partito i diversi soggetti sociali,
che in questi anni sono cresciuti e hanno acquisito un più forte
senso della loro autonoma funzione. Non è questo uno svilimento
del ruolo dei partiti e della rappresentanza politica, che in una società
più complessa richiede anzi una più alta capacità
di elaborazione politica, di proposta e di governo; proprio ciò
che è venuto a mancare in questi anni. Mentre le associazioni devono
essere chiamate, nell'ambito dei loro specifici ruoli, a cooperare con
le istituzioni pubbliche, senza confondersi con le rappresentanze politiche:
altrimenti il parlamento, e le altre assemblee elettive, diventano un'imbuto
dove tutto deve passare e che finisce per disattendere ai compiti di indirizzo
generale, senza i quali prevale la politica del giorno per giorno che ci
ha portato all'attuale dissesto finanziario e politico.
3. La crisi delle culture politiche tradizionali
Questa ricchezza e complessità della società civile può
però anche accompagnarsi a corporativismi e frammentazione, se non
c'è un parallelo sviluppo della coscienza sociale e politica, del
senso del bene comune, grazie alla quale l'aumentata dialettica non intacca
la solidarietà, il "contratto sociale", che è alla base sia
della vita delle comunità locali, come dello stato unitario italiano.
Riforme istituzionali che recepiscano la nuova complessità democratica
si devono cioè accompagnare ad una riforma della cultura politica,
a un più diffuso e consapevole senso dello stato come comunità.
Occorre cioè ribadire che la democrazia non può vivere
solo attraverso movimenti, associazioni o partiti che si limitino ad esprimere
o organizzare interessi particolari o locali, senza una visione d'insieme
della pòlis, della collettività nazionale e
internazionale, senza un'attenzione forte al bene comune. Per questo si
pone una questione di cultura e pratica politiche nuove, all'altezza dei
compiti e delle nuove sfide politiche.
Nel coro di questo secolo lo sviluppo economico e sociale ha permesso
l'ingresso nella vita politica di strati prima subalterni, del tutto estranei
alle scelte di governo nazionali. Il suffragio universale e i partiti popolari
sono stati la forma politica di questo processo, le ideologiela
forma culturale. Visioni semplificate dello sviluppo storico, della società
e della politica hanno svolto una funzione essenziale nel dare una cultura
politica a classi subalterne che non ne avevano alcuna. Non si deve inoltre
dimenticare che le ideologie costituivano lo scheletro su cui si saldava
il cemento etico che univa i partiti alla loro base sociale ed elettorale,
senza il quale non vi è regola democratica che possa garantire la
fedeltà dei rappresentanti ai rappresentati. Le reali esperienze
politiche e di governo, si sono incaricate di mostrare i limiti di quelle
culture, limiti sempre più evidenti mano mano che i compiti della
politica si facevano sempre più complessi e investivano campi nuovi
come conseguenza dello sviluppo economico e sociale stesso. Basti pensare
all'intreccio sempre più stretto tra economia nazionale e internazionale,
che riduce gli spazi di intervento per le strutture e l'associazionismo
democratico, essenzialmente a base nazionale, anche nella stessa Comunità
europea. Nel corso di questo secolo i compiti della politica si sono continuamente
ampliati e il solo compito di regolazione legislativa di una società
in continuo sviluppo si è fatto sempre più complesso. Inoltre
la produzione economica e la vita sociale si svolgono incorporando sempre
più ampie conoscenze scientifiche: era perciò pensabile che
le ideologie politiche, queste filosofie politiche semplici
come
i semplici a cui si rivolgevano, potessero reggere intatte
alla prova e non uscirne in crisi?
La crisi delle culture politiche tradizionali ha però aperto
un vuoto, che non è solo politico ma anche di valori, perché
al di là di storicamente contingenti strategie politiche esse davano
forma ad un insopprimibile e permanente bisogno di libertà, giustizia
e solidarietà. E poiché la politica non sopporta vuoti, quello
spazio può essere riempito o da forze che esaltano l'azione per
l'azione, o ancora peggio da nazionalismi e razzismi. Così a una
crisi delle ideologie si può anche accompagnare una crisi dei valori
che fondano la convivenza civile.
4. Dal volontariato la cultura della cittadinanza attiva e valori
per rinnovare le culture politiche
L'insieme delle realtà non-profit, il cosiddetto "Terzo settore",
è un mondo vasto e variegato - che va dall'associazionismo, al volontariato,
alla cooperazione di solidarietà sociale - portatore di differenti
gradi di coscienza sociale: si va da associazioni il cui scopo è
quello di organizzare attività ricreative, culturali o educative,
ad esempio per i giovani, sino ad altre associazioni tese non al soddisfacimento
dei bisogni dei loro soci, ma a un disinteressato intervento sociale, verso
i più deboli o per la salvaguardia dei beni comuni, come l'ambiente.
Tra queste ultime c'è poi un volontariato più tradizionale,
che opera per alleviare i mali della società, e chi interviene sulle
aree di disagio operando per rimuoverne anche le cause che lo determinano.
Questa è la sensibilità nuova che è andata continuamente
crescendo negli ultimi vent'anni, determinando anche nuove convergenze:
tra l'area cattolica e quella laica, tra le associazioni storiche e quelle
nuove. Ai nostri fini comunque non interessa distinguere tra le diverse
categorie che compongono il Terzo settore: ci basta sapere che ogni associazione
liberamente scelta e democraticamente governata è un luogo nel quale
si forma una coscienza sociale, sia pure a diversi livelli di consapevolezza.
Quel che è comune nelle diverse associazioni che si basano sull'impegno
volontario dei loro soci è la scelta libera, e perciò più
consapevole, che sta alla base di un impegno sociale diretto, non delegato
a minoranze attive o a élite che inevitabilmente finiscono per sovraordinarsi
al semplice cittadino. Ciò che è comune è cioè
una cultura della "cittadinanza attiva", che non si può acquisire
rimanendo passivi e inconsapevoli spettatori delle iniziative delle gerarchie
sociali e politiche, che così inevitabilmente tendono a riprodursi
come delle oligarchie.
É nell'impegno sociale personale che si forma un'adulta cultura
della cittadinanza attiva, sia a livello della comunità locale,
nazionale e internazionale. Viviamo in un'"economia mondo" che si è
andata sempre più integrando. Gli scambi economici tra diversi stati
e nazioni non sono una novità storica, ma sempre di più ogni
comunità locale o nazionale non può pensare di poter vivere
prescindendo dagli altri. Viviamo in una economia mondiale sempre più
integrata, e con sue precise gerarchie, con una parte del mondo minoritaria
che fruisce di un'elevato benessere materiale e ancora vastissime aree
di povertà. Nonostante tutto lo scambio tra Nord e Sud del mondo
continua ad essere ineguale, le economie più povere continuano a
dare spesso più di quanto ricevano, come la crescita e il pagamento
degli oneri sul debito pubblico conferma. Il mercato svolge una fondamentale
funzione, ma lasciato a se stesso finisce per favorire i poteri forti.
All'interno di ciascun stato i poteri pubblici, tanto più se democraticamente
fondati, da tempo svolgono una funzione di regolazione e ridistibuzione
tra chi ha di più e chi ha di meno; questa funzione delle istituzioni
politiche democratiche è resa sempre più difficile dal fatto
che l'economia si internazionalizza, mentre le istituzioni democratiche
sono ancora prevalentemente a base nazionale. Le istituzioni politiche
si basano necessariamente sull'intesa, sul riconoscimento dell'altro, sulla
comunicazione tra persone e comunità diverse; e la comunicazione
tra le persone necessita di culture e linguaggi comuni. Le merci e il denaro
sono oggetti che si possono scambiare anche dimenticando che sono il prodotto
del lavoro di altri uomini.
Se non c'è un riconoscimento reciproco tra etnie, nazioni e
culture diverse, non ci possono essere istituzioni democratiche a livello
internazionale; i problemi di funzionamento dell'Onu o della stessa Comunità
europea ne sono una conferma. In questo senso le associazioni di volontariato
internazionale o quelle che intervengono tra gli emigrati stranieri, svolgono
una funzione fondamentale anche di carattere culturale e politico: praticando
la cittadinanza attiva internazionale diffondono un concetto di mondialità,
educano ad una visione multietnica e multiculturale che non è tolleranza
verso il diverso, ma una nuova cultura solidale che sola può unire
e permettere ai diversi popoli di riconoscersi e fondare istituzioni internazionali
oggi sempre più necessarie.
Parte seconda: Proposte e interlocutori
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5. Strutture culturali e apprendimento della democrazia
In fondo l'unico sistema culturale che interviene massicciamente nel
campo della problematica sociale e politica è quello dei media,
ovviamente prima, per audience, la televisione. Qui, però, i fenomeni
di spettacolarizzazione e di semplificazione sono sovente dominanti, spesso
si tratta di una "teledemocrazia" che ignora l'opera di milioni di cittadini
che con il loro impegno quotidiano fanno effettivamente funzionare le cose.
Anche quando ciò non avviene gli spettatori rimangono comunque partecipanti
passivi, senza poter far sentire la loro voce, senza quel confronto con
gli altri che partendo dalla propria esperienza permette di ritornare ad
essa come interlocutori attivi, percorrendo così l'unica strada
che produce apprendimento, crescita personale e cambiamento effettivo della
realtà che ci circonda: raramente cioè la televisione attiva
il circuito virtuoso della partecipazione, della responsabilizzazione e
della condivisione. La carta stampata, spesso con una pratica più
scandalistica che costruttiva, segue la televisione su questa strada per
non perdere lettori. Si perde così una visione più realistica
e non si forma mai una visione meditata e di medio e lungo periodo, l'unica
dimensione a cui è poi possibile un intervento concreto, essendo
inefficaci nella vita economica e politica sia le bacchette magiche, come
le rigenerazioni catartiche.
Da questo punto di vista ha un ruolo fondamentale il sistema formativo,
scolastico e universitario, che da troppo tempo, soprattutto nel campo
degli studi superiori, è lasciato a sé stesso senza interventi
di riordino, di riforma e adeguati investimenti. Tra i paesi della Comunità
europea noi siamo gli ultimi per il numero di anni di obbligo scolastico,
con un numero di diplomati e di laureati molto basso e con una grande dispersione
nella scuola media superiore e nell'università. Non disponiamo di
titoli di studio intermedi tra scuola media superiore e università
altrove molto diffusi. E infine è da noi inesistente una struttura
di formazione permanente, che in più di un paese europeo esiste
oramai da decenni, mentre da tempo essa è costantemente indicata
dalle autorità comunitarie come settore da sviluppare prioritariamente.
La cultura e la scuola non sono solo un diritto universale dei cittadini
in una democrazia sostanziale, ma anche una risorsa fondamentale del sistema
sociale e del sistema economico, come la realtà dei paesi più
sviluppati testimonia. Nonostante la scolarizzazione di massa la lettura
di libri e giornali continua in Italia a non superare soglie molto basse.
Su queste basi non si può superare il distacco tra alta cultura
e cultura diffusa, che non può sussistere in una società
democratica; continua così ancora oggi un distacco elitario tra
"intellettuali" e popolo, con evidenti ripercussioni negative. In realtà
non è pensabile neppure uno sviluppo dell'alta cultura se non si
sviluppa quella media e diffusa.
L'esperienza di più di un paese europeo, indubbiamente molto
più avanzata della nostra in questo campo, può essere di
utile indicazione per noi, pur nella diversità delle diverse tradizioni
storiche; del resto proprio la comparazione su problematiche omogenee ci
permette di mettere meglio in luce le peculiarità del nostro paese
in questo campo, per delineare così la soluzione più rispondente
alle nostre esigenze.
Nei paesi europei con una lunga tradizione parlamentare sono le stesse
istituzioni pubbliche e rappresentative che hanno svolto un ruolo decisivo
anche dal punto di vista della diffusione della cultura. Non a caso in
questi paesi la scuola e l'università pubbliche esercitano un ruolo
determinante, non solo nella formazione permanente rivolta agli adulti,
ma anche nella formazione per chi è impegnato socialmente. La nostra
esperienza e tradizione è notevolmente diversa, da noi sono le organizzazioni
della società civile ad aver dato fondamento democratico ad una
società politica e ad uno stato che complessivamente non aveva questa
investitura. In questa fase di necessario rinnovamento, la società
civile, e in particolare oggi anche l'associazionismo e il volontariato,
sono chiamati ad assolvere un ruolo decisivo nel campo del rinnovamento
della cultura diffusa, dove l'associazionismo e il volontariato nella pluralità
delle sue voci e culture possono portare quei valori di solidarietà,
di attenzione al bene comune, che sono a fondamento dell'impegno volontario
di milioni di italiani.
Dall'associazionismo e dal volontariato viene già, e può
e deve venire ancora di più uno stimolo concreto e importante per
un rinnovamento costante del nostro sistema culturale e scolastico.
6. Quale formazione e ricerca per il "Terzo settore"
La partecipazione consapevole necessita di occasioni di formazione,
di autoformazione, di ricerca, a partire dalle attività concretamente
svolte dalle associazioni e rispettose delle esperienze e delle sensibilità
personali.
Se l'esperienza di volontariato ha già in sé una valenza
formativa e di crescita culturale, occorre ribadire che esiste uno specifico
formativo, e ambiti specifici per la ricerca, che devono essere organizzati
in relazione stretta con i gruppi di volontariato, ma avere anche un'autonomia
di gestione e organizzativa. Altrimenti travolti dalla pressione delle
esigenze immediate si finisce per invocare continuamente la necessità
di formazione e ricerca senza praticarle.
Al volontariato non serve una ricerca e una formazione già predefinita
da ricercatori e formatori: occorre ricerca e formazione partecipata, che
segua un itinerario di azione-ricerca-formazione-azione.
La formazione non può seguire un'impostazione di carattere "militare",
che cala metodi e contenuti decisi altrove e dall'alto; né può
essere semplicemente concepita come una trasmissione di saperi nell'ambito
delle discipline tradizionali. Occorre incentivare processi di autoformazione,
di riflessione critica e creativa: a partire dalle esperienze svolte da
ciascun gruppo e dai progetti di intervento. É questa un'esigenza
imposta non solo da ragioni di democrazia, perché in una società
complessa occorre una partecipazione intelligente dei singoli soggetti
individuali e collettivi.
La formazione non è separabile dalla ricerca, deve essere preceduta
dalla ricerca e deve essere ricerca e verifica essa stessa, attraverso
un'immersione e un tirocinio nella realtà che si deve affrontare.
La formazione deve stimolare imprenditività sociale, che coopera,
ma se occorre anche confligge, con istituzioni e soggetti che operano sul
territorio.
Occorre una formazione di base, diffusa, e di "quadri"; che deve essere
sia formazione tecnica, tesa a creare concrete capacità di intervento
nel proprio settore, come formazione politica. Finalizzata cioè
alla conoscenza: del contesto sociale e politico nazionale e internazionale,
degli altri soggetti sociali e istituzionali, delle politiche sociali e
del quadro legislativo.
La formazione è sì una risorsa per i gruppi e per le
organizzazioni, ma occorre ribadire che è innanzitutto un diritto
delle singole persone per una partecipazione critica e consapevole e per
una crescita e adeguamento delle proprie capacità professionali,
che quindi deve comunque prevedere accesi di carattere individuale.
Di volta in volta occorre stabilire un "contratto formativo" condiviso
dai soggetti coinvolti.
7. Proposte di intervento
In questa nuova fase costituente che il nostro paese sta attraversando
occorre attirare l'attenzione sulla necessità di uno sviluppo della
legislazione che permetta una effettiva crescita dei soggetti della democrazia,
dei cittadini e della società civile. Fondamentali sono da questo
punto di vista provvedimenti legislativi nel campo delle attività
di studio e formazione connesse all'impegno sociale, che rispetto a vari
Paesi europei è da noi quasi del tutto assente; con pesanti ripercussioni
sulle attività di formazione e ricerca che l'associazionismo e il
volontariato, nonostante questo vuoto legislativo, riescono a svolgere.
Al fine di realizzare gli obbiettivi di lavoro che seguono, realisticamente
non ottenibili immediatamente ma a medio e lungo termine, è necessario
attivare su questi problemi un gruppo di lavoro permanente nazionale dei
soggetti del Terzo settore per coordinare alcuni obbiettivi di fondo comuni,
puntando anche a sostenere e sviluppare momenti di documentazione ed elaborazione
a livello nazionale e regionale. É auspicabile che il gruppo di
lavoro trovi sede e sia sostenuto da un'istituzione pubblica riconosciuta.
7.1. Scuola pubblica e formazione alla cittadinanza attiva
La possibilità di esercitare i propri diritti di cittadinanza
è formalmente aperta a tutti, ma di fatto oltre agli impedimenti
che possono nascere da una diversa collocazione sociale, l'accresciuta
complessità della vita sociale e politica restringe questi diritti
a chi è concretamente capace di orientarsi ed agire in piena autonomia
di giudizio. La cittadinanza attiva non può essere solo un diritto
e un potere di una minoranza già consapevole e impegnata socialmente.
La cittadinanza attiva deve essere effettivamente un diritto di tutti,
che si deve poter apprendere a partire dai banchi della scuola pubblica,
che tutti i giovani e i giovanissimi frequentano. Come ci ricorda la Convenzione
dei diritti del bambino dell'Onu (1989), i bambini sono soggetti di diritto
e non oggetto di concessioni, e da questo punto di vista si impara la democrazia,
intesa anche come condivisione e responsabilizzazione, a partire dalle
pratiche educative. L'inconsistenza dell'educazione civica nella nostra
scuola dipende dalla pretesa di segregare lo sviluppo della coscienza civile
in una materia, mentre non può che essere interdisciplinare e legata
ad una pratica concreta della democrazia partecipativa e del libero associazionismo,
nelle forme consentite dalla diversa età di bambini e ragazzi. Se
essenziali sono le forme di partecipazione e di associazione interne alla
vita scolastica, si educa a praticare la democrazia anche al di fuori della
scuola non arrestandosi alla lettura e al commento della Costituzione,
che comunque è importante, ma facendo conoscere il ricco mondo dell'associazionismo
e del volontariato che è attivo sul territorio.
Da questo punto di vista la situazione della nostra scuola è
profondamente contraddittoria.
Da un lato il quadro non è certo tra i più incoraggianti:
la legge di riforma della scuola secondaria superiore e di elevamento dell'obbligo
scolastico a sedici anni ha subito l'ennesimo rinvio. Il problema, già
più che maturo dagli anni sessanta, è da allora oggetto di
costante discussione in parlamento senza che si sia approdato a nulla di
significativo. Dalla costituzione della Repubblica ad oggi vi sono stati
significativi momenti di riforma solo nel campo degli studi inferiori,
mentre la struttura della scuola superiore e dell'università è
rimasta sostanzialmente immutata, con evidenti e pesanti ripercussioni
sulla vita civile del paese: schiacciata tra sviluppo tecnologico e incapacità
di guidarlo e di dargli significati culturali non effimeri.
Ciò nonostante, in questi ultimi anni, sempre più frequenti
sono stati i rapporti tra le associazioni e i gruppi di volontariato con
le istituzioni scolastiche. Si è partiti da iniziative promosse
da enti e strutture locali o da singoli istituti negli anni ottanta, che
recepite a livello ministeriale hanno dato luogo a diversi progetti: ricordiamo
il Progetto giovani '93, i Progetti genitori, il Progetto ragazzi 2000.
A questi vanno aggiunte le molte iniziative locali o avviate nei singoli
istituti contro la dispersione scolastica; per il sostegno di ragazzi portatori
di handicap; per la promozione di un'adeguata educazione ambientale, sulle
pari opportunità tra uomo e donna, sulle tematiche relative allo
sviluppo e al rapporto Nord-Sud, all'accoglienza e al dialogo interculturale.
Più precisamente i Progetti giovani, Progetto ragazzi 2000 e Progetto
genitori, hanno assunto i caratteri di modalità operative per quanto
riguarda l'attuazione dei compiti di informazione preventiva e di educazione
alla salute che la legge 162 ha affidato al Ministero della pubblica istruzione.
Le circolari ministeriali relative a questi progetti, in particolare la
246 del '89 e la 114 del '90, hanno previsto la costituzione di gruppi
di lavoro misti (operatori scolastici, genitori, studenti, ed esperti di
enti e associazioni) presso ciascun Provveditorato con compiti di raccolta
e di sostegno dei progetti, di coordinamento tra le istituzioni e per il
raggiungimento di una maggiore integrazione con risorse e iniziative promosse
da enti locali e associazioni presenti su territorio. Nella circolare ministeriale
362 del '92 si ribadisce il medesimo orientamento, riproponendo il tema
del diritto allo studio come "diritto alla buona qualità della vita
scolastica" che esige, inevitabilmente, la "rifinalizzazione, e per certi
aspetti l'arricchimento, delle risorse tradizionali di cui dispone la scuola,
nonostante il potenziamento delle sue specifiche competenze mediante l'attivazione
di nuove intese e nuove sinergie con istituzioni e con risorse esterne
alla scuola stessa, in vista della promozione di esperienze formative efficaci..."
Gli incontri promossi dai gruppi di lavoro, coinvolgendo migliaia di
studenti, hanno visto la presenza attiva e propositiva, oltre che di testimonianza,
di tante associazioni impegnate sui temi sopra indicati. Un rapporto che
si è rivelato assai arricchente per tutti i soggetti coinvolti.
Da una parte le associazioni che, impegnate in una attenta progettazione
degli interventi, hanno sperimentato la possibilità di essere risorsa
formativa anche per la istituzione scuola. E dall'altra la scuola che ha
visto l'introduzione di percorsi didattici innovativi o ritenuti sino ad
allora poco proponibili. Sono esperienze che non intendono sovrapporsi
alle normali attività curriculari, ma piuttosto valorizzano quanto
già previsto nei programmi vigenti nelle scuole di ogni ordine e
grado. Un'esperienza diffusa più di quanto si creda e che meriterebbe
una più attenta valutazione da parte dello stesso Ministero della
pubblica istruzione.
Si tratta dunque di consolidare e rafforzare le esperienze in atto,
offrendo un quadro normativo più certo, che non si affidi troppo
alla buona volontà dei singoli operatori e dei soggetti istituzionali
di volta in volta coinvolti. Una collaborazione dunque non saltuaria e
occasionale. A nostro pare l'obiettivo si potrà raggiungere solo
prevedendo una presenza qualificata dell'associazionismo e del volontariato
nelle istituzioni di partecipazione scolastica deputate alla progettazione
educativa, con particolare attenzione ai percorsi formativi di educazione
alla cittadinanza attiva.
In particolare si propone:
*un rapporto stabile con il Centro studi del Ministero della pubblica
istruzione;
*una presenza nei comitati tecnico-scientifici nazionali e provinciali
già previsti dall'attuale normativa;
*la possibilità di stabilire convenzioni a livello nazionale
e provinciale per la realizzazione di progetti educativi particolarmente
innovativi.
7.2. La formazione professionale nel volontariato
Non appaia strano che si parli di formazione professionale per l'associazionismo
e il volontariato. Le attività da esso svolte non sono generalmente
considerate e quantificate da un punto di vista economico, poiché
nel calcolo della contabilità nazionale, del Pil e di ogni altro
indice economico, rientrano le attività rivolte al mercato e i servizi
prestati dall'amministrazione pubblica. Ciò nonostante l'impegno
di milioni di volontari nei settori più diversi costituisce una
quota certo rilevante del lavoro socialmente utile svolto nel nostro paese:
se si tratta di lavoro svolto volontariamente sempre lavoro è, con
tutto il corollario di capacità professionali specifiche che esso
richiede. C'è poi la necessità di formare operatori dei pubblici
servizi attenti ai diritti degli utenti, sviluppando cioè specifiche
competenze a sapersi relazionare con i bisogni dei cittadini e con le loro
associazioni presenti sul territorio. A questo fine è essenziale
un lavoro congiunto tra struttura formativa, associazionismo e volontariato,
per individuare iter formativi, conoscenze e attitudini necessarie.
Malgrado tutto ciò associazionismo e volontariato non sono ancora
interlocutori riconosciuti delle istituzioni pubbliche preposte alla formazione
professionale, a differenza delle associazioni rappresentative di interessi:
le associazioni imprenditoriali e i sindacati dei lavoratori dipendenti.
Regioni, ministero del lavoro ed enti locali non tengono generalmente conto
dei bisogni di formazione professionale che si generano nell'area dell'associazionismo
e del volontariato. C'è stato in tutto questo un limite propositivo
delle associazioni ma anche la mancanza di ambiti istituzionali. Le leggi
regionali e delle provincie autonome sul volontariato, emanate in attuazione
della Legge quadro 266, prevedono più o meno esplicitamente istanze
nelle quali le associazioni di volontariato possono avanzare proposte rispetto
alla formazione professionale regionale. É necessario prepararsi
ad utilizzare appieno queste possibilità, costituendosi in ogni
caso come interlocutori delle regioni.
L'avvio di un gruppo di lavoro permanente nazionale dei soggetti del
Terzo settore sui temi della formazione e della ricerca, già altrove
proposto in questo documento (punto 6, 2º §), può dare
un contributo significativo affinché le associazioni del volontariato
sappiano muoversi con capacità di proposta e di interlocuzione anche
a livello regionale e locale.
Oggetto di intervento deve essere l'utilizzo degli spazi già
esistenti nella legislazione e nelle strutture attuali, ma anche l'eventuale
creazione di una legislazione ad hoc. Da questo punto di vista è
matura la riforma della Legge 845 del 1978 che regola la formazione professionale.
Questi limiti hanno però in parte origine anche nulla debole
tradizione italiana nella formazione degli adulti e nella formazione permanente.
La formazione professionale nel nostro paese è prevalentemente rivolta
ai giovani, e inoltre spesso con un uso distorto dovuto alla funzione di
supplenza al mancato elevamento dell'obbligo scolastico. In genere gli
stessi processi di mobilità o di riconversione produttiva non si
accompagnano da noi ad una riqualificazione professionale, nonostante gli
ingenti stanziamenti in ammortizzatori sociali come la cassa integrazione,
necessaria ma anche improduttiva. Se in altri paesi europei esiste un sistema
di formazione per chi si impegna nelle attività sociali, ciò
dipende dall'esistenza di strutture e da una sensibilità all'educazione
permanente che ha una più lunga tradizione. Da qui anche un'azione
di stimolo e sostegno, in atto da tempo, della Comunità europea
per lo sviluppo della formazione continua, non solo come diritto fondamentale
dell'individuo, ma anche come risorsa fondamentale del sistema sociale
e produttivo.
Ciò non significa che da noi non vi sia nulla, c'è l'intervento
del Fondo sociale europeo e una tradizione di scuole civiche serali, però
solo in alcune zone del paese e comunque anche lì in genere in maniera
insufficiente. Ciò va detto perché ci deve essere consapevolezza
che il superamento di questi limiti, non può essere frutto di un
intervento isolato dell'associazionismo e del volontariato verso le istituzioni.
Interlocutori privilegiati sono certamente le istituzioni, ma interlocutori
fondamentali, e "alleati" sono anche le associazioni dei lavoratori e imprenditoriali,
oltre alle associazioni professionali degli insegnanti. Un confronto utile,
ma anche operativo, deve esserci anche con gli enti di formazione professionale.
7.3. I centri di servizio regionali
L'articolo 15 della legge quadro 266 e il decreto attuativo del 21
novembre 1991 hanno come è noto previsto l'istituzione di più
centri di servizio a livello di ciascuna regione. In realtà diversi
ricorsi contro legge e decreto ne hanno bloccato per ora l'attuazione.
La Corte costituzionale è intervenuta recentemente per la seconda
volta in materia, e si spera con questo che il contenzioso giudiziario
sia terminato; rimangono comunque le difficoltà determinate dalla
contraddittorietà del decreto attuativo che imporrà successivi
interventi.
Ciò detto comunque il decreto attuativo fa esplicito riferimento
per i centri di servizio, tra le altre competenze, a "iniziative per la
crescita della cultura della solidarietà" e a "iniziative di formazione
e qualificazione nei confronti degli aderenti delle organizzazioni di volontariato".
Evidentemente essendo stato per ora tutto bloccato non si è neppure
affrontato il problema di quali iniziative e con quali modalità:
questione non semplice visti gli inevitabili diversi livelli dell'intervento
formativo e le diverse strutture di intervento già esistenti.
Si propone quindi che, sentito l'Osservatorio nazionale per il volontariato,
dal Forum escano delle prime proposte sul possibile ruolo dei centri di
servizio nell'ambito delle attività formative.
7.4. Università, ricerca e associazioni
Se la formazione di base alla cittadinanza attiva deve riguardare tutti
i cittadini e nelle forme opportune deve essere già avviata all'interno
dell'obbligo scolastico, indubbiamente si pongono anche problemi di formazione
superiore e di ricerca; di formazione tecnica superiore sia per i quadri
più impegnati del volontariato, come per le funzioni più
qualificate tra gli operatori dei pubblici servizi.
La formazione di adulti legati alla partecipazione, volontari o professionali,
è caratterizzata da una elevata complessità, che rende improduttivo
l'insegnamento cattedratico tradizionale: occorre cioè partire dalle
specifiche realtà e problematiche nelle quali opera quest'alunno
un po' atipico. L'insieme di questi fattori impone uno stile particolare
di "formazione partecipata" in cui ricerca, formazione e operatività
sul campo sono strettamente intrecciate in un processo di formazione-azione
e ricerca-azione. Qui cioè si attua ai livelli più consapevoli
il rapporto educativo, nel quale del resto ogni scolaro è sempre
maestro e ogni maestro è sempre scolaro. Si tratta quindi anche
di attività che hanno un'elevato valore innovativo, un laboratorio
permanente per la struttura formativa e di verifica sul campo per la ricerca,
nel quale un flusso continuo di conoscenze che emergono dal sociale si
incontra con le discipline tradizionali. Un laboratorio nel quale si inventano
anche nuovi approcci a figure professionali consolidate.
Proposte
a) In altri paesi europei esistono sia modalità di accesso a
corsi di laurea che tengono conto anche delle esperienze di lavoro volontario
o professionale svolte (così è ad esempio in Francia, o all'Università
di Liegi dove si può entrare alla Fopes, la Faculté
ouverte de politique économique et sociale, senza titolo di studio
di scuola media superiore ma con una consolidata esperienza, anche volontaria,
di impegno sociale), o Facoltà aperte non finalizzate al conseguimento
di una laurea, ma all'aggiornamento culturale, alla formazione permanente
(tipo l'Open University inglese). Questi corsi, pur prevedendo comunque
un'accesso individuale, sono spesso organizzati in collaborazione con strutture
di formazione esterne, tra le quali anche quelle vicine al movimento sindacale
o all'associazionismo e al volontariato.
Si propone quindi di avviare anche in Italia, presso alcune università,
corsi sperimentali di questo tipo; del resto la legge 341/90 di "Riforma
degli ordinamenti universitari", per la prima volta ha previsto nella legislazione
italiana che "Le università possono inoltre attivare, nei limiti
delle risorse finanziarie disponibili nel proprio bilancio .... corsi di
educazione alle attività culturali e formative esterne, ivi compresi
quelli per l'aggiornamento culturale degli adulti, nonché quelli
per la formazione permanente, ricorrente per i lavoratori, ferme restando
le competenze delle regioni e delle provincie autonome". Benché
quindi la legge preveda finalmente anche in Italia la possibilità
per le università si svolgere educazione degli adulti, solo due
università ci risulta che abbiano cominciato a muovere alcuni primi
passi in questo senso, le Università di Siena e di Trento. Occorre
quindi, conformemente con quanto del resto previsto dalla stessa legge
341/90, andare alla stesura di convenzioni con le università disponibili,
con la partecipazione anche di altri soggetti, pubblici o privati.
b)Costituire un gruppo di lavoro tra associazioni, Cnr e Università,
per studiare in quali forme le attività del volontariato possano
fungere insieme da luogo di tirocinio, e da stazione di ricerca per studiare
un modello formativo che consenta di riformare i corsi di formazione sociale
già esistenti nell'Università. Al fine di attivare nei corsi
universitari già esistenti, che riguardano professioni di preminente
interesse sociale (psicologia, sociologia, pedagogia, ...), insegnamenti
relativi allo studio, la valutazione e la gestione dell'impatto sociale,
in interazione con la ricerca e il lavoro sul campo; oltre alla formazione
di operatori che intendono impegnarsi come assistenti o consulenti alla
partecipazione, capaci di fornire nell'ambito dei servizi pubblici il supporto
tecnico necessario alle azioni positive della cittadinanza.
c) Stabilire una normativa che consenta agli operatori del volontariato
di poter portare nei corsi universitari adatti il proprio sapere e la proposta
di nuovi corsi (ad esempio un albo dei formatori sociali analogo all'albo
dei formatori già esistente per gli aggiornatori della scuola).
d) Valutare l'opportunità e l'utilità di costituire un
Istituto Superiore per gli Studi e la Formazione Sociale analogo ad altri
istituti superiori: o comunque consolidare la sezione dedicata agli studi
sociali all'interno del Cnr.
Interlocutori dell'associazionismo e del volontariato rispetto
a queste proposte, sono ovviamente il Ministero dell'Università
e della ricerca scientifica, le stesse Università e il Ministero
degli affari sociali; oltre alle associazioni professionali di docenti.
7.5. Permessi per attività formative
In Italia la legislazione relativa ai permessi per attività
formative è praticamente inesistente. Esistono le "150 ore", estese
in alcuni categorie a 240 ore di permessi retribuiti ogni tre anni, usufruibili
anche nel corso di un solo anno; ma si tratta di norme contrattuali che
variano da categoria a categoria, spesso difficilmente utilizzabili e con
caratteristiche che hanno finito per limitarne l'utilizzazione ai corsi
di recupero dell'obbligo. Siamo ben lontani dalla normativa di numerosi
paesi europei, sia per la possibilità di usufruire di permessi retribuiti
per attività di formazione all'impegno sociale, come per l'ampiezza
di questi permessi retribuiti.
In realtà dall'esperienza europea sono ricavabili alcuni utili
insegnamenti.
Innanzitutto bisogna dire che la legislazione relativa a questo tipo
di permessi, o a quelli per la formazione sindacale, è strettamente
connessa a quelli per la formazione professionale.
Inoltre è da considerare il ruolo che deve essere svolto dal
legislatore. Lasciare alle sole parti sociali l'onere di affrontare il
problema può non essere produttivo. La formazione è un investimento
per il futuro e di lungo periodo i cui effetti non si vedono assolutamente
né subito, né tanto meno a breve termine; se la questione
è lasciata alla contrattazione delle parti sociali può finire
vittima degli interessi immediati dell'una e dell'altra parte a ridistribuirsi
profitti e redditi. Anche se l'emanazione di leggi che prevedevano un'accantonamento
obbligatorio di quote minime del reddito prodotto a fini formativi è
in genere avvenuta in Europa non senza resistenze e contrasti, bisogna
poi dire che le parti sociali hanno non solo imparato ad usare le risorse
così accantonate, ma in genere hanno dedicato alla fine alla formazione
risorse più grandi di quelle stesse stabile obbligatoriamente: una
volta spinti in quel senso e dopo averne constatato l'efficacia, si è
finito per scoprire come la formazione sia una risorsa e un investimento
fondamentale per lo stesso sistema produttivo. Del resto nonostante questo
vuoto legislativo, già oggi in Italia si è andata enormemente
ampliando l'attività formativa nelle imprese; e in genere più
nelle imprese produttive che nei pubblici servizi, che sono in maggiore
ritardo. Quindi un'intervento legislativo sulla formazione permanente non
può riguardare il solo settore privato, ma a maggior ragione deve
essere finalizzato alla riqualificazione del settore pubblico, nel quale
le stesse 150 ore hanno spesso trovato una più difficile applicazione.
Certamente occorre discutere di quale legge occorra, di quali servizi
il sistema di formazione professionale pubblico è in grado effettivamente
di fornire oltre le risorse rese disponibili dalle imprese e dalle parti
sociali, di come queste risorse devono essere gestite insieme alle parti
sociali. Ma la questione di una regolazione legislativa dei permessi retribuiti
pare oramai matura anche nel nostro paese; se si vuole sviluppare la formazione
permanente in un mondo sempre più complesso, che richiede sempre
più cultura e conoscenze scientifiche nell'agire quotidiano di persone,
lavoratori e imprese, per seguire e umanizzare processi di mutamento sociale
sempre più rapidi.
Ovviamente interlocutori privilegiati dell'associazionismo e
del volontariato per sviluppare questo discorso sono le associazioni imprenditoriali
e dei lavoratori.
7.6. Forme di sostegno alle attività di formazione e ricerca
svolte dall'associazionismo e dal volontariato
Le collaborazioni con scuola, università e sistema della formazione
professionale possono in realtà coprire solo una parte delle esigenze
formative e di ricerca dell'associazionismo e del volontariato. Attività
di carattere sperimentale, o legate all'identità e ai fini di ciascuna
associazione, o relative a specifici interventi, non possono che essere
svolte o direttamente dalle associazioni, o attraverso centri o fondazioni
ad esse legate. Nonostante l'impegno profuso e lo svolgimento di esperienze
molto interessanti, solo in alcuni casi si riesce ad andare oltre attività
di carattere propedeutico e di alfabetizzazione. Innanzitutto per la mancanza
degli strumenti e delle risorse necessarie ad uno sviluppo quantitativo
e qualitativo delle attività svolte: una oramai lunga esperienza
storica nazionale e internazionale prova che le sole risorse interne degli
associati non sono sufficienti al raggiungimento di questi obiettivi.
Una fase che si deve chiudere. Ma in realtà la questione
di quali debbano essere le forme di aiuto e sostegno esterne al fine di
poter condurre proprie attività formative, in particolare nella
prospettiva dell'educazione alla cittadinanza attiva, è centrale
per riformulare anche le relazioni complessive tra pubblica amministrazione
ed espressioni organizzate della società civile; poiché la
principale fonte di sostegno esterna non può che essere quella pubblica,
sia per il carattere di pubblica utilità delle attività svolte
dall'associazionismo e dal volontariato, come per i criteri non discrezionali
e uguali per tutti che solo l'intervento pubblico può garantire.
Le iniziative di proposta legislativa intraprese unitariamente dall'associazionismo
e dal volontariato negli ultimi anni (dalla richiesta iniziale di un utilizzo
mirato delle risorse provenienti dall'"8 per mille" di competenza statale,
sino alla proposta di altre forme di sostegno attivabili con una scelta
dei cittadini) sono non a caso naufragate: gli stessi che negavano un sostegno
basato su regole certe, chiare, libere e autonome per diverse forme di
cittadinanza attiva, dall'altra attingevano a forme di finanziamento non
controllabile e illecito. Quest'uso privatistico e corrotto delle risorse
pubbliche ha per altro reso oggi impopolare ogni sostegno pubblico alle
associazioni democratiche, soprattutto quando non è controllabile
l'utilizzo che se ne fa. La fase che abbiamo allo spalle è stata
contrassegnata dall'assenza di un preciso indirizzo degli interventi pubblici,
viziata profondamente da un uso clientelare delle risorse e da una deresponsabilizzazione
degli enti richiedenti i sostegni. In un tale contesto la tendenza dei
gruppi di volontariato e di gran parte delle associazioni a vivere in maniera
autarchica la propria esperienza ed anche la formazione interna ed esterna,
si è spesso rafforzata nel confronto con i responsabili politici
delle risorse, interessati a personalizzare e parcellizzare l'erogazione
delle stesse, al di fuori di qualsiasi progetto politico-culturale, se
non quello di produrre meccanismi di istituzionalizzazione e subalternità.
Peraltro iniziative formative legate a strutture spesso schiacciate
sulla contingenza e contemporaneamente con la necessità di costruire
e riaffermare una propria identità, rischiano di appiattirsi sull'esistente,
impedendo una crescita nel confronto con esperienze altre e cammini di
ricerca che vadano oltre i modelli propri di ogni realtà; il rischio
di un progressivo isterilimento o di una difficoltà crescente a
gestire gli stessi iter formativi, sono pertanto grandi.
I problemi aperti.
Duplice è la sfida su questo terreno:
*l'esigenza di evitare flussi monetari generici e non mirati, affermando
chiari e trasparenti criteri di allocazione delle risorse e connessi standard
qualitativi;
*la necessità di un confronto onesto delle realtà dell'associazionismo
e del volontariato, capace di chiarire il confine tra la legittima aspirazione
a tutelare le proprie identità e i rischi di localismi e particolarismi
culturali, che impediscono spesso una dialettica efficace e forme di collaborazione
sul piano formativo tra esperienze spesso contigue.
Due sono i percorsi dei sostegni alle attività formative: quelli
diretti
alle singole realtà o quelli indiretti a strutture - quali
università, scuole medie superiori, sistema della formazione professionale
- che possono aprirsi a specifiche attività mirate.
Ma l'argomento più delicato resta quello delle forme di sostegno
diretto e per questo ci sembra necessario andare verso una legge che
regoli complessivamente l'erogazione delle risorse per le attività
formative alla cittadinanza attiva tra i soggetti tradizionali e nuovi
della partecipazione democratica: partiti, sindacati, associazioni e organismi
di volontariato. Evidentemente si deve affermare un'esigenza di tutela
dei singoli settori, per evitare predomini, garantendo un'equa distribuzione
delle risorse per ogni area di interesse.
Rimane poi un'altro nodo da sciogliere relativo all'opportunità
di erogare i sostegni direttamente alle associazioni, o ad associazioni
culturali, istituzioni o fondazioni, promosse dalle stesse associazioni,
per lo svolgimento di attività di formazione alla cittadinanza e
di ricerca. E il problema che sta a monte è sia quello di ridare
trasparenza e certezza all'allocazione delle risorse, ma anche quello di
rispondere all'esigenza irrinunciabile di tutelare l'identità dei
soggetti e contemporaneamente di incrementare la presenza di luoghi aperti
di formazione, elaborazione, ricerca nella società civile.
C'è cioè un problema che non riguarda la sola gestione
dell'esistente, ma di come le diverse forme organizzate della società
civile possono mettersi in gioco nella ricostruzione della nostra democrazia.
La crisi dei partiti e le difficoltà del sindacato hanno grandemente
ridotto i luoghi ove, almeno fino alla seconda metà degli anni '70,
si svolgeva la formazione politica vera e propria, anche a livello popolare
e di massa. Una formazione però svolta con modalità chiuse
nell'ambito di ciascuna organizzazione, lontana dalla ricerca e utile più
a riconfermare identità politiche e organizzative tradizionali che
a produrre innovazione, con i risultati che ora sono sotto i nostri occhi.
Occorre percorre strade nuove e qui è utile il confronto con
altre esperienze europee. Dal punto di vista delle garanzie relative all'utilizzo
delle risorse, un esempio interessante è costituito dal modello
belga che prevede un finanziamento relativo alle spese generali che si
aggira intorno al 30%, mentre l'intervento più significativo è
la garanzia del pagamento del personale docente dei corsi; una tale soluzione
mette al riparo da iniziative di basso profilo culturale o, peggio, da
un uso distorto delle risorse, introitate per la formazione e utilizzate
ad altri fini. Dal punto di vista dei diversi modelli formativi si va dall'esperienza
tedesca dove predominante è il finanziamento a fondazioni emanazione
dei partiti, a quella svedese o belga, di sostegno ad associazioni culturali,
a centri capaci di esser contenitori formativi in grado di differenziare
diversi iter per il personale politico-amministrativo, i membri di associazioni,
ecc. Bisogna cioè porsi la domanda se lo splendido isolamento
di molte iniziative formative che l'associazionismo ed i gruppi di volontariato
mettono in campo non possa essere superato da sinergie operative, da confronti
di esperienze, da modalità che sappiano tutelare l'identità
dei soggetti proponenti congiuntamente alla qualità dell'offerta.
Anche le realtà più significative dei mondi associativi e
del volontariato faticano a costruire percorsi educativi che non siano
solo di animazione o di alfabetizzazione. Si può cioè anche
pensare a strutture associative, a centri o fondazioni che consorzino soggetti
dei mondi sopraindicati, che sorgano a partire dalla condivisione di orientamenti
culturali ed operativi, centri autonomi ma gestiti in maniera partecipata,
che possano lavorare alla formazione congiuntamente ad un lavoro di ricerca
e di elaborazione, che vadano al di là del contingente.
Roma, 3 giugno 1994.
Alla presente Carta è stata sottoscritta dalle seguenti associazioni o federazioni di associazioni:
Acli, Agesci, Aicm, Anpas, Arci, Auser, Azione Cattolica Italiana, Caritas, Centro nazionale per il volontariato, Centro sociale ambrosiano, Cipsi, Cnca, Cocis, Comunità di Capodarco, Compagnia delle opere, Cnos, Crs, Focsiv, Fondazione italiana per il volontariato, Fondazione Zancan, Movi, Labos, Legambiente, Misericordie d'Italia, Presidio permanente minori Napoli, Servizio civile internazionale, Società Civile.