Volontariato, Terzo settore e questione meridionale oggi.
di
Guido Memo
(...)
Importanza di aprire un dibattito sulla realtà meridionale odierna e sul possibile contributo della società civile e del Terzo settore allo sviluppo economico sociale. Lo sviluppo duale dell’Italia, motivazione delle sostanziali differenze tra Nord e Sud.
Il Cesiav ed il Csv Aurora hanno, pertanto, ritenuto utile realizzare un ciclo di seminari, che si concretizza in una serie di appuntamenti di approfondimento, che vogliamo siano alla base di una futura pubblicazione. Se però si vuole fare un’analisi della realtà del mondo del volontariato e del Terzo settore a Crotone ed in Calabria, si deve prima fare riferimento al contesto generale nel quale questi soggetti agiscono e in questo quadro si deve vedere il presente come parte di un processo storico, cercando di comprenderne le dinamiche economico-sociali e il loro sviluppo nel tempo.
Il lavoro che è stato svolto nel corso dei seminari è stato dedicato alla questione meridionale, ad alcune caratteristiche di fondo delle regioni del nostro Sud, focalizzando in particolare l’attenzione sulla Calabria e sulla provincia di Crotone.
Le analisi economiche sulla realtà del Meridione, prendono di solito come termini di riferimento il reddito pro capite, che è un indicatore di un certo tipo di sviluppo economico e che in Meridione è più o meno pari, in maniera sostanzialmente immutata dagli anni ’50 ad oggi, al 60% di quello del Nord del nostro paese; oppure il Pil, che mediamente è ancor più al di sotto del 60%.
Nell’uno o nell’altro caso, si tratta di indicatori quantitativi che non ci dicono nulla sullo sviluppo qualitativo di una certa società; a tal riguardo, la Svimez[1], che elabora e fornisce dati sulla situazione socio-economica in Meridione, ci ricorda che recentemente è ripresa l’emigrazione dal Sud, e con dimensioni del fenomeno paragonabili a quella degli anni ’60, periodo nel quale si raggiunsero le punte più alte nel corso del novecento, con la differenza, rispetto ad allora, che attualmente la metà degli immigrati sono giovani laureati o diplomati.
Per aprire un ragionamento sul Terzo settore al Sud, non possiamo trascurare come il primo bando emesso dalla Fondazione per il Sud, nella seconda metà del 2007, sia un bando volto ad incentivare gli ambiti della formazione. Questo ci dà l’idea di come la Fondazione abbia sinora poco compreso dei fenomeni profondi e di lungo periodo che segnano la storia e la realtà del Meridione. Infatti al Sud non manca le risorse umane, anche quelle preparate e formate, il problema è che, da sempre, queste risorse umane sono esportate nelle regioni del Centro Nord Italia o all’estero. Basti ricordare i milioni di contadini che hanno lasciato nei decenni le loro terre, dalla Calabria più che da altre regioni, ma anche i tanti intellettuali, nel senso gramsciano del termine, che hanno fatto funzionare le strutture dello Stato italiano.
Questi dati visti assieme, quelli sul reddito e quelli sull’emigrazione, ci possono servire per un ragionamento di fondo che sorregga l’analisi riguardante la questione meridionale. Come abbiamo visto le differenze nel reddito pro capite tra Nord e Sud, dagli anni ‘50 ad oggi, non sono mutate, ma anche i flussi migratori, che oggi vediamo riprendere come negli anni '50 e ‘60. Questi dati testimoniano dello sviluppo duale del nostro paese: uno sviluppo dove una parte, il Nord, detiene i capitali e le strutture produttive ed il Sud la forza lavoro, che esporta con l’emigrazione.
Un tipo di sviluppo, quello duale, che non ha caratterizzato solo l’Italia, (pensiamo, al rapporto tra Irlanda ed Inghilterra, altro classico esempio di sviluppo duale): in questo contesto la denuncia dei meridionalisti sta nel fatto che, sostanzialmente, le forze economico-sociali del Nord hanno sempre operato in maniera tale da non favorire lo sviluppo autonomo del Sud, appoggiando gli strati più conservatori della società meridionale e non quelli più innovativi.
Quindi, quando si parla di Meridione non si può fare a meno di parlare del modello di sviluppo economico che ha segnato il nostro paese, altrimenti non si capisce il permanere della questione meridionale. È cioè vero, come abbiamo visto parlando della nascita delle banche, che praticamente a partire dalla fine del medioevo, o della società feudale, lo sviluppo della moderna economia di mercato profit ha visto come protagonista il Centro-Nord del nostro paese, ma la questione è che lo Stato unitario si è adagiato su queste differenziazioni storiche: cominciò la borghesia che ha guidato lo stato liberale dopo l’Unità d’Italia lasciando di fatto sopravvivere al Sud rapporti economici e sociali di carattere semifeudale, perché questo era funzionale allo sviluppo dell’industria del Nord. Con la Repubblica gli investimenti al Sud si sono indubbiamente fatti più consistenti, ma l’afflusso di risorse e gli sforzi per un’industrializzazione non sono stati accompagnati da un effettivo rinnovamento democratico dei rapporti sociali e di potere. Persino la riforma agraria, la più classica delle riforme borghesi nelle campagne al fine di abolire il latifondo assenteista, fu ostacolata o realizzata malamente e in parte. Non è un caso che quelle aree del Meridione dove la riforma più si è realizzata ora hanno una dinamica economica e sociale diversa. Eppure la riforma agraria nel secondo dopoguerra su voluta da un forte movimento sociale e contadino come più non se ne è rivisti in Meridione, una spinta di rinnovamento sociale che andava colta e che ha prodotto troppo poco i suoi effetti.
Del resto questo mancato rinnovamento sociale, non solo economico ma anche culturale, è alla base dello sviluppo della criminalità organizzata meridionale negli anni della Repubblica: se il divario tra Nord e Sud nel reddito pro capite è immutato dagli anni ’50, questo non significa che non sia cresciuto anche al Sud, è anzi quadruplicato come al Nord. Non dimentichiamo che negli anni ’50 ancora una grande parte delle popolazioni meridionali viveva nella miseria: come non ricordare le famiglie di tanti contadini poveri che in paese, non nelle campagne, vivevano nelle stesse stanze con i loro animali. Quest’indubbio miglioramento delle condizioni sociali, essendo stato necessariamente sostenuto da rilevanti flussi di carattere finanziario, sia per gli interventi e i servizi pubblici (per le infrastrutture, la scuola, la sanità in particolare), come per le rimesse degli emigrati, ha fatto affluire anche verso ceti sociali parassitari, che appunto erano il problema del Meridione, rilevanti risorse, rafforzandone il ruolo sociale ed economico. I vecchi latifondisti sono scomparsi, un po’ per la parziale riforma agraria, ma soprattutto perché quel modello di economia agraria non reggeva più il mercato, non era concorrenziale. Le strutture di controllo sociale di quel mondo sono però sopravvissute, rinnovandosi nelle loro attività ma non nei modelli sociali e culturali. Cosa sono le varie mafie se non questo? I mafiosi erano i campieri in Sicilia, i guardiani e i custodi violenti di quell’ordine feudale che ancora dominava nell’ottocento nelle campagne siciliane. La mafia siciliana viene da lì, non viene dalla città, qui ci arrivò successivamente, ma in fondo ancora per buona parte del novecento il cuore della sua struttura di potere restò lì, in paesini dell’interno apparentemente secondari e insignificanti.
Diverse
le caratteristiche locali e sociali, ma non il processo storico per quanto
riguarda ndrangheta e camorra: clan che nella società semifeudale
che non fu estirpata avevano un compito di controllo dell’ordine sociale
costituito. Non si potrebbe spiegare altrimenti il controllo del territorio,
la struttura capillare sociale che si accompagna alle mafie, anche
di mutuo soccorso, di governo di attività economiche e sociali.
I reasti commessi e denunciati sono in realtà mediamente di più
in alcune regioni del Nord, come Lombardia ed Emilia Romagna, che al Sud.
La peculiarità della criminalità organizzata meridionale
non è quantitativa, ma qualitativa, nel ruolo della criminalità,
nella specificità dei reati, il cui simbolo è il “pizzo”:
la tassa che i commercianti e chi svolge attività produttive deve
pagare, alla criminalità e non allo Stato. Cos’è questo,
come sosteneva Santi Romano[2]
il grande giurista palermitano, se non un ordinamento giuridico di fatto,
alternativo a quello dello Stato, uno Stato nello Stato.
In conclusione:
io sostengo che la Questione meridionale sia tutt’ora una grande
questione nazionale, i cui termini sono in parte cambiati, sia nel territorio,
sia nella maniera in cui oggi dobbiamo pensarla, ma è tutt’ora una
questione viva, sia per i problemi che causa alle popolazioni del Meridione,
si pensi all’emigrazione e alle mafie, sia perché ci spiega una
caratteristica di fondo della nostra formazione statale.
Sono
ben consapevole che il parlare oggi di Questione meridionale ha
un sapore fortemente retrò. Questo per diversi motivi, alcuni
con le loro buone ragioni:
1.perché
tutto ciò che sa di storia, che appartiene alla storia del novecento,
oggi non gode di grande credito,
2.perché
le politiche meridionalistiche attuate nel periodo di storia repubblicana
che ci sta alle spalle sono screditate e alla Questione meridionale
nell’ultimo quindicennio è stata contrapposta la Questione
settentrionale,
3.perché
dallo stesso Meridione è venuta una messa in discussione dei termini
della Questione meridionale.
Partiamo
dalla prima questione, dal fatto che tutto ciò che sa di storia,
che appartiene alla storia del novecento, oggi non gode di grande credito.
L’Italia, ma anche il mondo, a partire dagli anni ottanta è come se avesse pensato che nella storia si può disinvoltamente voltare pagina: si è dichiarata la “morte delle ideologie”; la fine delle “grandi narrazioni storiche” e di ogni filosofia della storia, la fine della storia stessa da parte di qualcuno; il trionfo del libero mercato e dell’economia profit non solo rispetto alle rigide economie di piano sovietiche, ma anche rispetto a qualsiasi intervento regolatore e di programmazione economica da parte dello Stato di carattere “keynesiano”, largamente praticato negli anni precedenti in Italia, come in tutte le economie di mercato; la “crisi fiscale dello Stato” e quindi la drastica riduzione non solo delle politiche assistenziali, ma anche dello Stato sociale, del welfare state, dello stato del benessere, che non era certo un’invenzione sovietica; e, infine con la fine della guerra fredda, l’affermazione di un nuovo ordine mondiale e di un mondo finalmente pacificato dall’abolizione del contrasto internazionale più grande.
Per l’Italia tutto ciò ha significato l’abbandono e il discredito su una parte grande delle politiche attuate dal dopoguerra agli anni settanta, che erano state avanzate, con diverse varianti, da quello che allora si chiamava l’arco costituzionale, l’insieme delle forze e delle culture politiche che avevano scritto il patto costituzionale e che andavano dal Pci alla Dc, dal Psi ai socialdemocratici e al Partito repubblicano di La Malfa, che fu fiero sostenitore delle politiche di programmazione economica, coinvolgendo larghe parti dello stesse forze liberali. Si aggiunga che tutto ciò è avvenuto in Italia insieme ad una crisi del sistema politico e dei partiti che non ha confronti in Europa occidentale, la parte del continente per storia e politica più affine a noi.
Che in questo quadro anche le politiche meridionalistiche, di intervento strutturale in Meridione, cadessero sotto i magli della critica demolitrice dell’intervento pubblico era inevitabile, non che non vi fossero motivi validi di critica, ma qui si ha la netta sensazione che con l’acqua sporca si è gettato via anche il bambino.
Del resto una cosa del tutto simile è avvenuta a livello internazionale, sono politiche dopo la Thatcher e Reagan[3] che hanno ottenuto, certamente in versioni più o meno attente ai problemi sociali che si creavano, grande affermazione, in fondo sia destra come a sinistra, che però abbiano mantenuto le promesse tanto sbandierate è molto dubbio, in particolare hanno fallito nell’obbiettivo più importante: quello di garantire uno sviluppo economico sostenuto, nulla di paragonabile a quello che i francesi chiamano i “trent’anni gloriosi”, che dal secondo dopoguerra alla metà degli anni settanta hanno visto uno sviluppo economico non più eguagliato, in particolare in Europa, ma anche in parte negli Usa. Si da il caso che quei trent’anni coincidono con rilevanti politiche pubbliche di intervento nell’economia, come si da il caso che l’unica area del modo che ha conosciuto uno sviluppo economico rilevante dalla metà degli anni settanta sia quella che dell’Oriente, che non ha mai fatto proprie le politiche neoliberiste. O meglio: le ha fatte proprie nell’inserirsi nel mercato mondiale delle merci e della finanza che si sviluppava con l’abbattimento delle politiche protezionistiche, ma non le ha mai fatte proprie sul piano interno, nei rapporti tra stato ed economia[4], respingendo senza troppe polemiche il Washington consensus[5].
Tacciamo poi qui, non essendo argomento all’ordine del giorno nel nostro ciclo, delle non mantenute promesse sul piano del nuovo ordine internazionale, che doveva far seguito alla fine della guerra fredda e al sistema bipolare: la rinuncia al tentativo di dare un’interpretazione e un governo politico razionale ai laceranti problemi del mondo ha prodotto più caos di prima, con lo sviluppo di fondamentalismi religiosi, etnici, localistici, e infine politici: visioni al fondo infantili e autoreferenziali che rinunciano in partenza al difficile compito di cercare di capire il modo, la storia, l’altro, e che accrescendo l’incomprensione reciproca hanno avuto l’effetto di aumentare il caos.
Così come non è qui il luogo e non abbiamo qui il tempo di esaminare gli eventi che si sono susseguiti nel corso di quest'autunno, che hanno visto un crac del sistema finanziario e bancario che non ha eguali neppure nella crisi del 1929, che ebbe sull'economia reale d'allora conseguenze pesantissime, ma non fallimenti bancari paragonabili a quelli in corso. E' una crisi strutturale delle politiche economiche liberiste quella che abbiamo sotto gli occhi in questi mesi, che solo le politiche di intervento degli Stati hanno impedito per ora che abbia le stesse conseguenze drammatiche sull'economia reale come nel 1929. Ma da un lato la crisi finanziaria non sembra arrestarsi, visto che le borse continuano a calare, mentre conseguenze molto rilevanti sull'economia reale cominciano a farsi sentire pesantemente.
Sulle ragioni di questa crisi strutturale del sistema capitalistico contemporaneo e sull'origine delle politiche neoliberiste, spero se ne possa parlare in altra occasione[6], qui ci limitiamo a segnalare che coloro che avevano negato qualsiasi validità all'intervento regolatore delle politiche economiche pubbliche, ora si sono trasformati tutti in ardenti sostenitori dell'intervento dello Stato, secondo la nota ricetta di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, per salvare le banche che hanno speculato in questi anni.
Insomma,
quanto al primo punto qui discusso, è ben vero che la storia del
‘900 è anche una storia tragica, che ha visto lo scoppio di
due guerre mondiali con decine di milioni di morti, ma evitiamo di fare
come colui che «con l'autolesionismo proprio degli ignari e degli
ignavi, procede alla liquidazione di una eredità troppo pesante
per le sue gracili spalle»[7].
Chiudo
sulle motivate critiche sull’utilità di porre all’ordine del giorno
ancora la Questione meridionale, con delle brevi considerazioni
riguardanti le ultime due questioni: da un lato il discredito delle politiche
meridionalistiche attuate nel periodo di storia repubblicana che ci sta
alle spalle e l’emergere della Questione settentrionale, e dall’altro
lato il fatto che dallo stesso Meridione è venuta una messa in discussione
dei termini tradizionali della Questione meridionale.
La messa in discussione delle politiche meridionalistiche attuate dai governi democristiani prima e da quelli di centro sinistra successivamente, non può significare la messa in discussione di conseguenza di ogni politica meridionalistica. Già parlando della mafia abbiamo accennato ai limiti di quelle politiche che hanno fatto affluire risorse anche rilevanti, ma senza contestualmente puntare ad introdurre elementi di un effettivo rinnovamento democratico dei rapporti sociali e di potere. Questo mancato rinnovamento sociale, non solo economico ma anche culturale, le pratiche clientelari largamente messe in campo, hanno portato al discredito di quelle politiche, che emblematicamente possiamo riassumere ricordando la Cassa per il Mezzogiorno, ma anch’esse non sono affatto state tutte da buttare via.
Del resto
dei limiti politici di quell’intervento ci fu ben presto consapevolezza,
e da quei limiti scaturì anche la visione pessimistica di Pasquale
Saraceno[8]
negli ultimi anni della sua vita, interamente dedicata allo sviluppo industriale
ed economico del Mezzogiorno. Nell’introduzione al Rapporto Svimez 1990,
scriveva che la modernizzazione in meridione è solo apparente:
con essa convivono fenomeni ereditati da «un lontano passato lazzaronesco
e feudale»: sopraffazione e asservimento, commistione tra pubblico
e privato, scambio di protezioni e fedeltà personali. «Questa
convivenza di modernizzazione apparente e di residuati socio-culturali
del passato è il terreno comune di coltura dell’assistenzialismo,
della corruzione e della piccola e grande criminalità». Con
quegli interventi non si era però dato ascolto ai classici del meridionalismo,
la costruzione di un tessuto civile (i rapporti sociali e i comportamenti
amministrativi) e che oggi si declina come capitale sociale non
fu al centro di quegli interventi, mentre questo problema non era sfuggito
a uomini come Salvemini, Dorso, Gramsci o Sturzo. La critica che da
essi fu sollevata era appunto quella che le forze sociali più avanzate
del Nord, a proposito o involontariamente ma sempre a vantaggio del
Nord, con le loro politiche avevano rafforzato le categorie sociali conservatrici
e parassitarie meridionali, con grave danno per i contadini, i lavoratori,
i gruppi sociali progressisti e imprenditivi, dal cui sviluppo soltanto
sarebbe potuto scaturire un processo autonomo di sviluppo del Mezzogiorno[9].
Ciò avvenne anche con la riforma agraria, che negli anni ‘50 faceva
seguito alle lotte contadine per la divisione del latifondo, furono divise
spesso non le terre migliori, furono creati appezzamenti troppo piccoli
e solo in alcuni casi fu successivamente accompagnata con il sostegno alla
cooperazione, contrariamente allo spirito dei Decreti Gullo del 1944[10].
La cassa per il Mezzogiorno, inoltre, spesso ha sostenuto la realizzazione
di infrastrutture materiali necessarie, ma alimentando sistemi di
potere clientelare che in quella fase si rafforzarono. Infine il sostegno
all’insediamento di complessi industriali provenienti dall’esterno,
senza promuovere un autonomo sviluppo locale, ha creato, quando si sono
effettivamente insediati o non hanno chiuso poco dopo, “cattedrali
nel deserto”, che benché ancora esistenti, come a Taranto o a Gela,
non hanno creato un settore produttivo “indotto” locale.
Un'ultima considerazione su Questione meridionale e Questione
settentrionale.
L'abbattimento di numerosi confini per quanto riguarda
la circolazione delle merci, la messa in discussione, negli oltre vent'anni
che ci stanno alle spalle, da parte delle maggiori autorità economiche
e monetarie a livello internazionale del ruolo regolatore e programmatore
dello Stato in economia, si è accompagnata alla messa in discussione
del ruolo concreto degli Stati territoriali: da qui l'emergere in
diverse realtà locali di posizioni politiche di contestazione
dell'unità degli stessi stati territoriali. Il processo è
stato più evidente negli Stati dell'Est Europa, dove contemporaneamente
era in corso una transizione da un sistema sociale-politico-economico ad
un altro e dove le fratture interne erano più forti, di carattere
religioso e culturale come nella Repubblica federativa iugoslava, o di
carattere nazionale come nell'ex Urss o nella Repubblica federativa russa,
o in Cecoslovacchia. Fenomeni simili, anche se più attenuati,
non sono però mancati in Europa occidentale, uniti a fenomeni di
xenofobia: si pensi alle rinnovate tensioni tra valloni e fiamminghi in
Belgio, alle spinte autonomistiche in Gran Bretagna o localistiche
in Carinzia. Non è un caso che dove lo stato territoriale ha trovato
nuovo slancio, come in Spagna dove ancora si vive la primavera del dopo
franchismo, storici problemi di separatismo abbiano trovato tutto sommato
un'attenuazione.
Il fenomeno della Lega Nord in Italia di inscrive in queste tendenze
ed evidenzia dal punto di vista territoriale e dell'economia nazionale
la natura duale della formazione statale italiana: in un certo senso la
Questione settentrionale è il rovescio della medaglia
della Questione meridionale, una frattura che sta all'origine della
nostra formazione statale e che lo sviluppo successivo ha sostanzialmente
ribadito. Le proposte di “Stato federale” che insistentemente sono
sorte in questi anni, se da un lato si incontrano con una presenza forte
nella nostra storia delle autonomie locali, l'Italia è “il paese
delle cento città”, dall'altra si sono arenate nella povertà
di una proposta istituzionale e culturale che non tende tanto a potenziare
le capacità locali, ma più semplicemente a spostare risorse
verso la parte più ricca del Paese, il Nord sede delle attività
finanziarie e produttive nazionali, che sono cresciute ieri utilizzando
l'esercito di mano d'opera costituito dagli emigranti del meridione
d'Italia e oggi provenienti da diverse parti del mondo. Non è un
caso che tutto ciò si accompagni a posizione di carattere xenofobo.
Detto in altri termini: la giusta critica della Lega Nord agli
sprechi del denaro pubblico che vi sono stati in Meridione non si
accompagna ad un'analisi del perché ciò sia avvenuto e finisce
per favorire quelle dinamiche e quegli interessi sociali che hanno creato
e mantenuto questa situazione. È come per l'emigrazione: al problema
economico-sociale, dello sviluppo ineguale tra le due sponde le Mediterraneo
e l'Africa sub sahariana, si risponde solo con una politica securitaria,
con questurini, militari e carceri, senza alcuna capacità di
proporre politiche che vadano alla radice dei problemi, quindi con il risultato
di non risolverli e di vedere il loro aggravarsi nel tempo[12].
Reti
associative, di fiducia e capitale sociale
Noi siamo
rappresentanti di quell’area sociale ed economica che generalmente si può
indicare come “non profit”, costituita innanzi tutto e per la grandissima
parte da associazioni e in una piccola parte, ma significativa dal punto
di vista occupazionale, anche dalla cooperazione sociale, entrambe con
marcati fini sociali. Ora, dal punto di vista del contributo che il Terzo
settore può dare allo sviluppo del Meridione, occorre tenere presente
che le nuove aree di sviluppo economico del nostro paese, negli ultimi
30 anni, non hanno preso il via da imprese con grandi investimenti di capitale
fisso, che sono state al centro del tentativo di sviluppo economico del
Sud tra gli anni cinquanta e settanta. Queste nuove zone di sviluppo si
sono basate sui distretti industriali, costituiti da una serie di imprese
di medio-piccole dimensioni che in un dato territorio cooperano specializzandosi
ciascuna nelle diverse fasi della produzione di una medesima gamma di prodotti
(il distretto della ceramica a Modena, della sedia in Friuli, degli occhiali
nel bellunese, delle scarpe tra Marche e Abruzzo, ecc.). Non a caso le
regioni del nostro paese che hanno avuto questo tipo di sviluppo spesso
sono state regioni che avevano un tessuto associativo rilevante, che non
solo ha favorito la cooperazione, ma ha anche indirizzato l'azione delle
istituzioni pubbliche locali.
Lo sviluppo
economico italiano degli ultimi anni ci dice che per svilupparsi dal punto
di vista economico, anche nell’ambito dell’economia di mercato, è
necessario uno sviluppo che potremmo dire civile, o, come si usa dire oggi,
è necessaria la presenza di capitale sociale: se cioè non
c’è un certo grado di sviluppo non tanto di carattere economico,
ma proprio di relazioni sociali, è difficile che la stessa economia
di mercato si sviluppi.
Tra quanti
hanno contribuito ad elaborare il concetto di capitale sociale c’è
un sociologo americano, R. Putnam[13],
che ha studiato la nascita e lo sviluppo delle Regioni a statuto ordinario
in Italia, che fa in proposito un esempio molto simpatico sul sistema bancario,
o creditizio.
Il sistema
creditizio è nato in Italia, in particolare nelle repubbliche marinare
e in Toscana. Non va dimenticato che una tecnica fondamentale di contabilità
come la partita doppia è stata inventata a Prato in quel periodo.
Del resto il sistema capitalistico ha visto i suoi albori proprio da noi.
Ebbene, studiando le differenze tra le Regioni italiane, Putnam rileva
che quelle meglio funzionanti sono quelle con un’alta tradizione civica,
appartenenti in particolare a quella parte d'Italia che nel medio evo vide
la nascita dei comuni; ed è proprio in questa stessa area che è
nato il sistema creditizio, che si chiama così perché dare
credito significa dare fiducia. I mercanti veneziani che dovevano attraversare
il mediterraneo - andavano a Bisanzio, la porta dell’oriente sul mediterraneo,
a fare acquisti - non ci andavano portando con sé il denaro, allora
coniato sempre con metalli preziosi, ma portavano con sé una lettera
di credito; avevano cioè una carta scritta da un banchiere a Venezia
e quando arrivavano a destinazione c’era un corrispondente locale
che dava loro il denaro contante o garantiva comunque l’effettivo pagamento
al venditore. Se non c’era un rapporto di fiducia, un “dar credito” il
mercato non sarebbe potuto svilupparsi e tanto meno esistere; quindi,
la stessa economia di mercato non funziona se non c’è alla base
senso civico, reciproca fiducia, una disponibilità a cooperare e
non a guardarsi dagli, o a non fidarsi degli, altri.
Cenni
sulla presenza e ruolo del Terzo settore nella realtà meridionale
e sulle sue possibili interazioni con le economie affermatesi in questi
anni.
Il non
profit, il Terzo settore, l’associazionismo e il volontariato, sono anche
questo: un elemento di regolazione nel funzionamento della società
di mercato e, a questo punto, il ragionamento deve tornare alla società
meridionale, alle sue caratteristiche, per capire da dove partire per favorire
una dinamica di sviluppo della stessa società meridionale. Mario
Alcaro ha ragionato sugli elementi positivi che sono presenti nella società
meridionale e che certamente hanno, a mio avviso, una relazione con il
nostro mondo. Così è per la cultura del dono o dell’accoglienza
propria della società meridionale, E’ proprio da questi elementi
che bisogna partire se si vuole pensare ad uno sviluppo del nostro mondo.
Ma come si può lavorare per sviluppare il Terzo settore ed
il volontariato nella realtà meridionale, come ci si può
dare, in questo senso, degli obiettivi credibili?
Quella
del non profit, del Terzo settore, è una realtà piuttosto
complessa, è interamente caratterizzata dall’essere un’economia
non con fini di profitto: elenchiamone sinteticamente le differenze di
fondo dalla prima. In un’economia profit il fine è il profitto,
gli oggetti prodotti in quanto beni d'uso hanno meno rilevanza, conta il
loro valore di scambio che determina le entrate e l’entità del profitto:
una fabbrica con 2.000 lavoratori può esser chiusa licenziando tutti
quando non dovesse creare profitto. Lo scopo dell’ente non profit non è
il profitto ma l’oggetto stesso della produzione, il bene o il servizio
che s’intende produrre, il suo valore d’uso e non quello di scambio, qui
sta la differenza di fondo.
Gli enti
non profit in Italia sono svariati. Si va dalle cooperative - nel nostro
caso si tratta delle cooperativa sociali - che potremmo chiamare
enti non profit di mercato, perché stanno sul mercato. Poi
c’è il volontariato che non sta neanche nell’economia di mercato,
essendo una forma di economia basata sul dono, sulla prestazione
gratuita da parte dei soci, il che permette di fare,tra
l’altro, riequilibrio sociale.perché
a differenza del mercato, che si rivolge al potere di acquisto delle persone, il
volontariatopuò, basandosi sul dono, rivolgersi anche
a coloro che non hanno denaro da spendere, fornendo un servizio anche a
coloro che non hanno reddito. Può cioè svolgere la stessa
funzione che solo l’economia pubblica è in grado di svolgere, perché
quest’ultima si rivolge alle persone come soggetti di diritto, tutti uguali
davanti alla legge nello Stato democratico, e perché lo Stato ha
un'autorità e una forza che sovrasta quella dei singoli, un
leviatano che può disporre, sulla base di regole scelte a maggioranza,
anche della libertà degli individui, sino alla loro vita, ancora
in molte parti del mondo. Quindi lo Stato può permettersi di prendere
da chi ha più reddito e ridistribuire a chi ne ha meno, o in forma
di servizi pubblici o con trasferimenti in denaro, sulla base del principio
di tassazione progressiva, sanciti ad es. dalla nostra Costituzione[14]
e dei diritti sociali dei cittadini[15],
è in altri termini il welfare state.
Il volontariato
quindi può avere la stessa funzione dell'economia pubblica, ma mentre
questa si basa sulla forza e l'autorità dello Stato ed è
per sua natura obbligatoria e non ce se ne può sottrarre se non
espatriando e mettendosi sotto la protezione di un altro Stato, nel caso
del volontariato si tratta di una libera scelta, e la distinzione non è
da poco. Tenuto conto delle loro caratteristiche le organizzazioni del
Terzo settore e di volontariato non solo sono alleati possibili ed importanti
di un’economia pubblica che lavori verso prospettive di giustizia, equità
ed efficienza, ne sono anzi una delle precondizioni.
Il volontariato
e l’associazionismo creano, inoltre, relazioni
umane, creano comunità, come avviene per
il lavoro di cura che si svolge nell’ambito della vita familiare, che non
passa attraverso il mercato, e senza il quale non esisterebbe una comunità.
Così come tutte le cose che riguardano i rapporti tra persone, le
cose più pregiate e più importanti, normalmente non passano
attraverso il mercato: l’educazione, gli affetti, le religioni, le filosofie,
l’amore non passano attraverso il mercato; quando, infatti, ciò
avviene diventano un’altra cosa. Il mercato vale per scambiare beni e oggetti,
va molto meno bene per curare i rapporti tra le persone.
Insomma,
«il punto che preme ribadire è che qui si sta parlando di
un altro attore politico collettivo: il Terzo settore, se mantiene
la sua coerenza di soggetto altro dalla logica di mercato e da quella
del politico-statuale, può essere perno di una grande trasformazione
così del mercato che dello stato. E’ pur vero che in questi
anni il volontariato e le grandi associazioni del Terzo settore si sono
adagiati in rapporti spesso di collateralismo con la politica tradizionale.
Questo, comunque, non ha impedito loro di partecipare ad importanti momenti
di innovazione come quello costituito dall’approvazione della modifica
costituzionale contenuta con l’art. 118»[16].
Le sfide che aspettano il Terzo settore sono però ora ben più
ardue della modifica di un articolo della Costituzione, o dell'ottenimento
di una legislazione che lo riguarda e lo legittima, questa è una
fase che sostanzialmente si va chiudendo. A partire dalla fine degli anni
'70 si è andato formando un nuovo corpo legislativo basato sulla
cittadinanza attiva: prima le leggi sul volontariato internazionale, la
protezione civile e l'obiezione di coscienza, poi quelle sulla cooperazione
allo sviluppo, la legge quadro per il volontariato, quella sulla cooperazione
sociale, quella sulla promozione sociale, la nuova legge sull'assistenza
e infine la modifica dell'art. 118 della costituzione nel 2001.
Insomma, il Terzo settore si è legittimato, il problema è
ora quello di essere effettivamente un soggetto sociale e politico che
sa fare le proprie scelte di fronte ai principali problemi a livello internazionale
e nazionale.
Tra questi
la questione meridionale è la principale questione nazionale,
rispetto alla quale se il Terzo settore vuole avere un ruolo deve avere
una propria politica. Il senso di questi incontri è di trovare possibili
risposte a come e su quali linee il mondo del volontariato e del Terzo
settore, nel porsi degli obiettivi di sviluppo e rinnovamento della realtà
meridionale, deve lavorare.
Cittadini
e riforma della politica
1. La necessità
del cambiamento
In Italia il movimento
del volontariato nasce negli anni ’70, da una riflessione di un gruppo
ristretto di persone del mondo cattolico.
Tale gruppo iniziò
ad interrogarsi se la tensione partecipativa, che negli anni ’70 in Italia
si manifestava in tanti settori - scuola, quartieri, fabbriche,
parrocchie - aveva in sé le caratteristiche di una presenza sociale
innovativa: capace, cioè, di accompagnare le politiche pubbliche
senza delegare tutto, e quindi capace di arricchire la vita pubblica con
una presenza, accanto alle istituzioni, di un tipo di cittadinanza che
per spirito di gratuità, missione politica solidale, voglia di tutelare
gli ultimi e i più deboli, potesse diventare attore decisivo dello
sviluppo inteso come qualità della convivenza, e non mera crescita
quantitativa.
Alla fine del 1975 a Napoli
trecento persone giunte da varie regioni italiane si riunirono, pagandosi
il viaggio e le spese, e costituirono quello che oggi potremmo definire
l’embrione di una presenza sociale innovativa. Nel ’78 i tanti gruppi scaturiti
da quell’esperienza si sono poi coordinati in un movimento chiamato Mo.v.i,
(movimento del volontariato italiano), che è un cartello di secondo
livello. Da allora la spinta alla crescita è stata vièppiù
rilevante ed accompagnata dalla capacità tipica del mondo cattolico
di produrre strumenti per politiche sociali. L’idea di intervenire sulle
banche, ad esempio, nasce da questa spinta proveniente dal mondo cattolico,
e viene raccolta più tardi, agli inizi degli anni ’90, dall’allora
ministro Amato con il provvedimento che impone la gestione societaria del
sistema bancario anche alle ex-casse di risparmio, e obbliga alla creazione
di fondazioni bancarie le quali devono destinare al volontariato una quota
dei loro fondi.
Le banche sono il massimo
strumento per favorire la crescita economica e finanziaria di nuovi soggetti.
Avere pensato all’opportunità di vincolare tali istituti al finanziamento
della società civile organizzata ha permesso di dare vita a concrete
politiche di sviluppo del volontariato. Pensiamo al disegno legislativo
di Lipari, a fondazioni come la Zancan, al progetto di Maria Eletta Martini
con il suo Centro per il Volontariato a Lucca, alla fondazione Fivol, che
deve la sua istituzione ad un banchiere cattolico, Pellegrino Capaldo (che
vincolò per tale fondazione credo 15 miliardi, con un gettito annuo
– dati gli interessi del tempo - di circa 1 miliardo e mezzo).
Questa politica ha favorito
la formazione di nuovi soggetti sociali, capaci di intervenire nel processo
decisionale, ma soprattutto di orientare le politiche pubbliche a fini
sociali, e non a fini strettamente economici, o di profitto dei gruppi
più forti.
Il volontariato ha così
fatto da battistrada allo sviluppo di un “Terzo settore” – né stato
né mercato - dove cooperative, associazioni di promozione sociale
ed altre organizzazioni, comunque non lucrative, e di riconosciuta utilità
sociale (movimenti civici di advocacy, centri studi, fondazioni, centri
di servizio) si sono via via costituite, adombrando figure di nuova soggettività
sociale e di politica diffusa, che richiederanno più tardi loro
forme di coordinamento e espressione (la nascita del Forum del Terzo settore
è del ’94).
Nel decennio di crisi dei
partiti e fine della “prima Repubblica” per sforzo convergente delle varie
forze politiche prese l’avvio una legislazione di promozione e sostegno
di queste realtà di Terzo settore. Il volontariato nel ’91 conquista
la prima legge, n.266, e nello stesso anno le cooperative sociali hanno
la 381. A seguire vengono promulgate altre leggi a tutela delle specificità
dei vari soggetti o leggi trasversali di favore, come la legge sulle organizzazioni
non lucrative di utilità sociale (onlus, del ‘94) che introduce
vantaggi fiscali. Si discute ora se questa legislazione, con le sue specificità,
non stia creando una sorta di gabbia dei settori (concepiti “a canne d’organo”
non comunicanti), e quindi non esasperi le difformità, invece di
favorire evoluzioni verso forme integrate di tutele e azioni. Da ciò
anche è nata una tendenza al riordino, mediante idee di riforma
anche del codice civile (c’è una proposta dell’ultimo governo Prodi,
con la commissione presieduta dall’on. Pinza).
Nel primo decennio di leggi
promozionali le associazioni dunque non concepirono e non ricercarono l’affermazione
di un principio generale dell’ordinamento. Si dovrà attendere il
2001, quando con la revisione del Titolo V della costituzione si
scrisse l’articolo 118, che al quarto comma dice: “Stato, Regioni, Città
metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di
interesse generale”. E’ l’affermazione del principio cosiddetto di “sussidiarietà
orizzontale”, che una delegazione del Forum del Terzo settore e del cartello
“Parte civile” aveva formulato per la riforma della seconda parte della
Costituzione (1997, Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema) e che
in quell’occasione non era stata recepita.
Da sottolineare la differenza
fondamentale di prospettiva, tra leggi di settore e nuovo principio costituzionale.
Le leggi promuovono e favoriscono le organizzazioni sociali per se stesse.
La costituzione mette al centro la capacità di tutti i cittadini,
anche da soli, di realizzare l’interesse generale e “favorisce” le concrete
attività dirette a questo. Il primo approccio indica di sostenere
le organizzazioni, quindi magari senza volerlo tuttavia evoca spiriti “corporativi”
(e infatti i diversi enti sono in lotta tra loro per accedere a risorse
pubbliche e fanno ciascuno del proprio profilo identitario causa di giustificazione
del sostegno privilegiato). Il secondo approccio è mirato a cogliere
e sostenere una data attività, da chiunque realizzata: poiché
si bada al risultato concreto possiamo dire che è premiato l’effetto
solidaristico. C’è una visione di “società futura”, cui tutti
possono contribuire secondo una “etica del risultato”: è il concreto
vantaggio sociale, se e quando effettivamente realizzato, che motiva
il “favore” che la Costituzione impone a carico di ogni tipo di istituzione
territoriale di governo.
L’indirizzo costituzionale
qualifica e reinterpreta varie politiche di sostegno che da alcuni anni
si sono poste in essere. Penso alla costituzione dei centri di servizio,
alla centralità dei momenti di formazione, alla sperimentazione
– che è in crescita – di esperienze partecipative particolari, penso
al volontariato nel servizio civile che trasforma l’obbligo di difesa della
patria in servizio volontario su progetti di organizzazioni civili con
scopi di sviluppo civile per l’Italia.
La prospettiva teorica
e politica, di cui stiamo parlando, indica che il motore del processo storico-sociale
non stia esclusivamente nel conflitto tra chi ha i mezzi di produzione
e chi vende la forza lavoro. Le società complesse sono connotate
da relazioni multiple e spesso ambivalenti tra un numero assai allargato
di protagonisti. Il cambiamento si gioca in una serie di relazioni tra
soggetti che alternano critiche e spinte oppositive (senza porsi mai come
antagoniste) a concreta capacità di cooperazione e partecipazione
in un contesto di governance.
Da questo punto di vista
i movimenti delle classi lavoratrici alle origini del capitalismo contemporaneo
erano imperniati su contadini e operai.
Ora ovunque nel mondo si
pensa agli aspetti qualitativi del consumo, alla possibilità del
riuso, del restauro, della riduzione di produzioni invasive. Ma resta prevalente
una incultura diffusa: governi e opinioni di massa ancor oggi pensano allo
sviluppo solo in termini quantitativi ed economici tradizionali (produrre
incrementi materiali di beni di consumo). Nel mondo il modello di consumo
senza responsabilità verso le nuove generazioni sta distruggendo
il pianeta e distrugge la ricchezza dopo averla prodotta.
L’interrogazione cruciale
oggi riguarda la capacità di rinnovamento e cambiamento da parte
di soggetti politici e sociali avvertiti di tutto questo. Nella capacità
di porre limiti allo sviluppo, di indicare uno sviluppo sostenibile e un’equa
distribuzione di prodotti e ricchezze si gioca il futuro comune.
2. La parabola dello
sviluppo europeo
Le forze che hanno guidato
lo sviluppo industriale e la crescita del PIL, nel nostro paese come negli
altri, hanno realizzato effettivo aumento del reddito pro-capite e diffusione
del welfare. L’arresto di quella tendenza scaturisce tuttavia da
limiti intrinseci del modello di sviluppo: limiti che peraltro s’erano
manifestati alla fine degli anni ’60 in tutto il mondo. Alle classi dirigenti
si deve imputare quindi di non aver saputo o voluto correggere per tempo.
La contestazione delle
nuove generazioni in Giappone, in America, in Europa, nei Paesi Socialisti,
chiese a gran voce un cambiamento degli obiettivi concreti di governo dei
rispettivi paesi: nei Paesi Socialisti i manifestanti volevano un po’ più
di benessere e un po’ più di democrazia; nei Paesi avanzati dell’Occidente
i giovani non volevano la guerra del Vietnam, e volevano partecipare di
più alle scelte pubbliche, volevano anche autogestire il proprio
corso formativo. L’affacciarsi di generazioni nate nel dopoguerra
dunque, non partecipi dei due grandi conflitti mondiali e estranee alla
logica della Guerra Fredda spingeva ovunque per una società migliore.
Le risposte a quelle spinte
furono di chiusura. I sovietici mandarono i carri armati nelle piazze.
Le élites dominanti nel mondo capitalistico a metà degli
anni ’70, riunite in Commissione Trilaterale (USA, Europa, Giappone), risposero
che il difetto delle democrazie era nel loro crescente sovraccarico di
domande e che occorreva selezionare e mettere ordine nelle domande sociali
tramite governi decisionisti. La linea della riduzione della spesa
pubblica sociale, dell’inizio dello smantellamento degli Stati protettivi,
nacque in quel decennio. A seguito della guerra in Vietnam, gli Stati Uniti
chiesero di ripartirne i costi con gli alleati più ricchi, giapponesi
e tedeschi, ma incontrarono un rifiuto. Decisero allora di rafforzarsi
unilateralmente, rompendo gli accordi di Bretton-Woods sui criteri
di cambio delle monete nazionali: la copertura aurea delle banche nazionali
non ebbe più valore, il dollaro fu imposto come unità di
misura delle altre monete, così le difficoltà economiche
americane furono scaricate sulle monete degli alleati. Ebbe inizio un periodo
di tensioni tra USA e Europa: i rispettivi interessi in prospettiva si
sarebbero divaricati.
Le classi dirigenti europee,
che con la pace e con l’unificazione del mercato europeo avevano promosso
la crescita dei loro paesi, si trovarono così repentinamente dinanzi
a crescenti tensioni nei confronti dell’alleato principale, senza che l’unificazione
politica tra di esse avesse fatto alcun reale progresso e viceversa con
un governo americano più determinato che mai a far valere il proprio
unilateralismo e la propria potenza economico-militare. Questa vicenda
s’è protratta per quasi due decenni. Quando poi è crollata
l’Urss e ha avuto termine l’equilibrio dei “blocchi”, la superpotenza americana
s’è trovata sola alla testa di un processo di unificazione del mercato
mondiale, che in taluni casi non ha esitato a sorreggere con le armi.
I paesi europei a questo
punto, pur tanto cresciuti economicamente, si sono scoperti deboli, senza
possibilità di influire granché nella dimensione mondiale.
La Cina è divenuta un gigante, altri paesi come l’India e il Brasile
emergono con forza, mentre le economie europee stanno decrescendo. Si perdono
i livelli di sicurezza conquistati, i livelli dei consumi, i livelli di
ricchezza prodotta e utilizzabile per la vita civile. Il mondo sta economicamente
crescendo altrove e l’Europa arranca.
3. La deriva corporativa
dei partiti in Italia
E’ in questo quadro che
la politica degli stati-nazione europei scopre di non avere più
capacità di guidare lo sviluppo. La manovra dei governi sulle risorse
di bilancio è limitata, la direzione politica sull’economia e sulla
società può poco. I tagli al bilancio riducono sicurezze
e diritti nei paesi in restrizione di bilancio. I partiti politici sono
irriconoscibili: organizzatori un tempo di straordinaria partecipazione
sociale, vivono la crisi come perdita di ruolo dirigente e, correlativamente,
perdita di fiducia tra i cittadini. Gli apparati burocratici si autotutelano
corporativamente: in Italia fin dalla metà del decennio ’80 il ceto
politico si arrocca, le figure più indipendenti sono emarginate,
la occupazione di cariche pubbliche diviene riserva di corporazioni chiuse
che si riproducono per cooptazione.
C’era nel nostro paese
un terreno già scavato per questo tipo di riproduzione allargata
del ceto politico. Le forme partecipative degli anni Settanta erano divenute
presto terreno per carriere nei partiti, la presenza sociale più
larga era rifluita e molta parte di quel riflusso fu opera appunto di una
restaurazione del “sistema dei partiti”. I deputati regionali duplicarono
le mille figure di deputati nazionali, privilegi e retribuzioni furono
parificati. Anche i consigli di circoscrizione delle città maggiori
dettero luogo a “gettoni presenza” consistenti: insomma una professione
politica aveva ormai durature e consistenti garanzie di permanenza. Mentre
altri lavori erano a rischio o in decisa restrizione. Negli anni in cui
altri paesi furono sotto pressione per la riduzione di spese pubbliche
di ogni genere, in Italia i costi della politica sono stati in espansione
e, al finanziamento pubblico, si cominciò ad affiancare sempre più
sistematicamente un “prelievo fiscale” illegale a favore dei partiti. Tangentopoli
divenne “sistema” negli anni Ottanta, e la rivolta morale dei primi dei
Novanta non è valsa a stroncare tale pratica. Più agguerrite
che mai, le cordate di affari estortivi della politica continuano ancora
ai nostri giorni.
Ma non è la corruzione
il solo aspetto: c’è una deriva strutturale, la politica riesce
a moltiplicare sistematicamente i “posti da spartire”. L’espediente era
noto già ai tempi del “manuale Cancelli” (cioè di quel prontuario
redatto da un ragioniere per la DC, che soppesando i posti da assegnare
aveva fatto un’arte della spartizione di cariche pubbliche tra partiti
e tra correnti di partito). Se non tutti i pretendenti erano soddisfatti,
si creava un nuovo posto di vice (remunerato naturalmente), si allargava
il numero dei consiglieri di amministrazione da nominare negli enti e nelle
aziende pubbliche, i consigli regionali hanno aumentato di decine il numero
dei propri componenti, ecc.
A fronte di questa crescita
autoreferenziale del sistema delle cariche pubbliche elettive (ora: 179.485)
o di nomina (i consulenti sono 159.000 circa, i nominati in consigli di
amministrazione sono di più, ma non è disponibile un conto
completo) c’è poi la spesa pubblica per servizi sociali – sempre
meno erogati da apparati pubblici - che può essere amministrata
con “occhio di riguardo”. La grande torta, dagli anni ’80, riguarda il
trasferimento alle regioni delle enormi spese per la tutela del diritto
alla salute dei cittadini: interi comparti di potere pubblico appaiono
ora inquinati dall’intreccio di interessi anche illeciti che s’è
strutturato attorno a questa inesauribile fonte di denaro e potere (assunzioni,
convenzioni con privati, carriere mediche e di managers).
Se si vuole un esempio,
si pensi al caso Mastella: un’intera famiglia dedita al controllo di questa
fetta di potere nella propria regione.
4. I cittadini attivi
risorsa di buon governo
Qual è la risorsa
che può avviare l’uscita da tutto questo? Credo che la principale
speranza sia riposta in quei cittadini, che da 20-30 anni anche nel nostro
paese si sono rimboccati le maniche e intervengono in vari settori per
la formazione o difesa di beni comuni. Tutta questa cura della società,
che smette di allinearsi dietro i politici, ma si auto-organizza per realizzare
attività utili alla comunità, ha posto le basi per un cambiamento.
La amministrazione pubblica,
dinanzi a così tante e sempre crescenti richieste, non può
fronteggiare tutti i problemi. Occorre che la stessa società civile
si impegni per quel che può a interventi diretti. Si parla, da parte
della moderna scienza amministrativa, di amministrazione condivisa. Il
potere di governo si deve avvicinare ai cittadini e questi possono istituire
utili collaborazioni con i governi locali. E’ questo in fondo quello che
s’è deciso con la revisione costituzionale del 2001, di cui s’è
già fatto cenno. L’articolo 118 contiene il principio dell’avvicinamento
del potere di governo nel territorio, dando centralità ai Comuni,
e sostiene il loro ruolo con la sussidarietà verticale, l’aiuto
cioè delle istituzioni di più alto livello. Il dispositivo
poi è ulteriormente rafforzato con la valorizzazione, ai rispettivi
livelli territoriali di governo, delle autonome iniziative dei cittadini,
quando dirette alla soddisfazione di interessi generali. E’ nel proprio
territorio infatti che la cittadinanza attiva massimizza le sue capacità
di intervento. E cittadinanza attiva è categoria costituzionale
inclusiva: volontariato, cooperazione sociale, associazioni di promozione
sociale sono altrettante forme concrete di società che si autorganizza
e gestisce in autonomia il proprio contributo alla governance complessiva.
Siamo tornati così
ai temi da cui è partito il discorso, alle culture della solidarietà
e ai soggetti che le esprimono. Si potrebbero fare tanti esempi, si potrebbero
raccontare tante esperienze. Ma il punto che preme ribadire è che
qui si sta parlando di un altro
attore politico collettivo: il Terzo
settore, se mantiene la sua coerenza di soggetto altro dalla logica
di mercato e da quella del politico-statuale, può essere perno di
una grande trasformazione così del mercato che dello stato. E’ pur
vero che in questi anni il volontariato e le grandi associazioni
del Terzo settore si sono adagiati in rapporti spesso di collateralismo
con la politica tradizionale. Questo, comunque, non ha impedito loro di
partecipare ad importanti momenti di innovazione come quello costituito
dall’approvazione della modifica costituzionale contenuta con l’art. 118.
Penso che in un futuro
non lontano si ripeteranno le condizioni per altre battaglie per l’innovazione
della politica e delle forme di rappresentanza. Saranno occasioni per la
realizzazione di momenti di potere diffuso ed autonomia di azione da parte
della società civile organizzata, che avrà voce e forza per
realizzare progetti di accrescimento dei beni comuni e di ampliamento dei
diritti di cittadinanza.
In realtà
la stessa esperienza italiana in altre regioni nello stesso periodo ci
dice che la cosa più importante è far crescere in loco le
condizioni istituzionali, sociali, di risorse umane e imprenditoriali
e non tanto immettere capitale finanziario o addirittura capile fisico,
capitale fisso. A questo scopo è necessario partire dalle risorse
e dalle capacità locali, valorizzandole.
Da questo
punto di vista quindi hanno ragione quegli studiosi, che negli ultimi anni hanno
messo in discussione la Questione meridionale come era stata concretamente
declinata nelle politiche nazionali: occorre partire dalle peculiarità
e dalle caratteristiche del Meridione valorizzandone le potenzialità
positive[11],
dalle sue tradizioni culturali e sociali, dalle caratteristiche del suo
territorio e dalla sua collocazione nel Mediterraneo, non si deve fare
una brutta copia del Nord.
di Giuseppe Cotturri
Quei soggetti crebbero e si sono strutturati in un tempo di conflitti
sociali di estrema asprezza ( ci troviamo vicino a Melissa, che fu luogo
di un eccidio di emarginati che volevano poter lavorare la terra demaniale,
ma si possono rievocare la strage di Andria, l’occupazione delle
terre nel bitontino, o a Brindisi la distruzione dei raccolti, perché
il patronato non voleva riconoscere un aumento di salario, ecc.), determinati
da condizioni di assoluta povertà e indigenza. Non sorprende che
per quei soggetti il centro della questione fosse la crescita economica;
ovvero: produrre di più e redistribuire con maggiore giustizia sociale
la ricchezza prodotta con fatica di braccia. Oggi quello sviluppo, sorretto
da consumismo individualistico di massa e continuo allargamento dei mercati,
mostra il rovescio, mostra effetti forse imprevisti e comunque indesiderati:
montagne ingestibili di rifiuti – molti tossici e indistruttibili – danni
crescenti all’ambiente, alterazione degli equilibri naturali, riduzione
di risorse non rinnovabili, riscaldamento del pianeta.